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HUME, il filosofo dell’abitudine

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Giuseppe Bailone

“È usanza comune agli autori che hanno la pretesa di aver scoperto fatti nuovi nel campo della filosofia e delle scienze, vantare i propri sistemi screditando l’opera di coloro che li hanno preceduti. Se essi si contentassero di lamentare l’ignoranza in cui ancora ci troviamo sulle questioni più importanti che si presentano davanti al tribunale della ragione umana, pochi tra i cultori delle scienze potrebbe dar loro torto”.

Sono queste le prime righe dell’introduzione al Trattato sulla natura umana, l’opera giovanile di Hume, un clamoroso insuccesso, “un aborto di stampa” come ebbe a scrivere Hume stesso, riconosciuta, però, dai posteri come il suo grande capolavoro.

“Non sono necessarie – continua Hume – cognizioni molto profonde per convincersi dello stato d’imperfezione delle scienze attuali. Anche chi, profano, resta fuori della porta, può giudicare, dal rumore e dalle grida, che le cose non vanno troppo bene all’interno. Non c’è niente, infatti, che non sia messo in discussione e su cui i dotti non siano di opinioni contrarie. Neanche le questioni più frivole sfuggono alla controversia, e intanto le più importanti non le sappiamo risolvere; e mentre le dispute si moltiplicano come se tutto fosse incerto, esse, poi, sono condotte con tanto accanimento come se tutto fosse certo. In mezzo a questo trambusto, non è la ragione che ha la meglio, ma l’eloquenza; e ognuno, purché sappia presentarla con arte, può far proseliti all’ipotesi più stravagante. La vittoria non è dei guerrieri che maneggiano la picca e la spada, ma dei trombettieri, tamburini e musicanti dell’esercito”.

Hume si propone un radicale rinnovamento del sapere, basato sul principio che “tutte le scienze hanno una relazione più o meno grande con la natura umana”. Infatti, anche “la matematica, la filosofia naturale e la religione dipendono in certo qual modo dalla scienza dell’UOMO, poiché rientrano nella conoscenza degli uomini, i quali ne giudicano con le loro forze e facoltà mentali”.

L’antropologia diventa il sapere fondamentale, preliminare a ogni altro.

Viene da pensare a Protagora, il filosofo che nell’Atene di Pericle fece dell’uomo la misura di tutte le cose. Viene anche da pensare a Kant, che, sulla scia di Hume, porterà la ragione davanti al proprio tribunale.

“Il solo mezzo per ottenere dalle nostre ricerche filosofiche l’esito che ne speriamo, è di abbandonare il tedioso, estenuante metodo seguito fino ad oggi; e invece di impadronirci, di tanto in tanto, d’un castello o d’un villaggio alla frontiera, muovere direttamente alla capitale, al centro di queste scienze, ossia alla stessa natura umana: padroni di esso, potremo sperare di ottenere ovunque una facile vittoria. […] Accingendoci, quindi a spiegare i principi della natura umana, noi in realtà miriamo a un sistema di tutte le scienze costruito su una base quasi del tutto nuova, e la sola su cui possano poggiare con sicurezza”. Subito, però, Hume aggiunge: “E come la scienza dell’uomo è la sola base solida per le altre scienze, così la sola base solida per la scienza dell’uomo deve essere l’esperienza o l’osservazione. Che l’applicazione della filosofia sperimentale alla ricerca morale sia avvenuta più di un secolo dopo l’applicazione di essa alle ricerche naturali, non deve sorprendere nessuno: più o meno lo stesso intervallo lo troviamo all’inizio di queste scienze: da Talete a Socrate, infatti, corre uno spazio di tempo pressappoco uguale a quello da Bacone ai recenti filosofi inglesi, che, cominciando a portare la scienza dell’uomo sopra un terreno nuovo, hanno attirato l’attenzione e suscitato la curiosità del pubblico. Questo dimostra che, mentre le altre nazioni possono rivaleggiare con noi nella poesia e superarci in altre arti dilettevoli, il progresso della ragione e della filosofia non può essere raggiunto se non in un paese libero e tollerante”.

La scienza dell’uomo che Hume si propone, non mira a “scoprire le ultime e originarie qualità della natura umana”, impresa “presuntuosa e chimerica”, “essendoci ignota l’essenza della mente al pari di quella degli oggetti esterni”; mira, invece, a farci “una nozione dei suoi poteri con accurati ed esatti esperimenti”. Hume vuole essere il Newton della mente umana.

A chi sembrasse deludente il risultato cui mira, Hume osserva che vedere l’impossibilità di soddisfare un desiderio spegne il desiderio stesso.

“Così, quando ci accorgiamo di essere giunti al limite estremo della ragione umana, ci riposiamo contenti, pur se in fondo siamo perfettamente persuasi della nostra ignoranza, e sentiamo di non poter dare altra ragione dei nostri più generali e più sottili principi se non l’esperienza stessa che abbiamo della loro realtà”. Il sapere fondato sull’esperienza e messo a prova con gli esperimenti è il più solido che l’uomo possa raggiungere, ma non ci porta all’essenza, alla sostanza delle cose, neanche di se stessi. Toccare con mano questo limite è, però, per Hume, rasserenante. Si può vivere sereni, senza metafisica e senza rinunciare alle verità a portata delle nostre capacità.

“Ma se qualcuno attribuisse a difetto della scienza dell’uomo questa impossibilità di spiegare i principi primi, mi permetterei di fargli notare che, allora, un tal difetto è comune a tutte le scienze e le arti, sia quelle coltivate nelle scuole dei filosofi o praticate nelle botteghe dai più umili artigiani. Nessuna di esse può andar oltre l’esperienza o fondare un principio se non su questa autorità”. L’antropologia ha però uno svantaggio rispetto alla scienza della natura: il soggetto che indaga è lo stesso dell’oggetto d’indagine, e questo deve rendere cauti nel ricorso all’esperienza e agli esperimenti. Hume ne è consapevole.

“La filosofia morale – scrive – ha, invero, uno svantaggio in confronto alla filosofia naturale: e cioè che i suoi esperimenti non li può fare deliberatamente, con premeditazione, e in modo da chiarire a se stessa ogni particolare difficoltà che possa sorgere. Quando voglio conoscere gli effetti di un corpo su un altro in certe condizioni, non ho da far altro che metterli in quelle condizioni e osservare che ne risulta. Ma se cercassi similmente di chiarire un dubbio di filosofia morale, ponendomi nelle stesse condizioni di ciò che indago, è evidente che la riflessione e la premeditazione verrebbero a disturbare l’attività dei miei principi naturali tanto da non permettermi di trarre dal fenomeno nessuna legittima conclusione. Quindi, i nostri esperimenti in questa scienza noi li dobbiamo fare con una cauta osservazione della vita umana, così come si presentano comunemente nella condotta degli uomini che vivono in società, negli affari o nei piaceri. E quando esperimenti di questa specie siano accortamente raccolti e paragonati, potremo sperare di stabilire su essi una scienza non inferiore in certezza, e molto superiore in utilità, ad ogni altra”.

La scienza dell’uomo, fondata sull’esperienza e sugli esperimenti, porta Hume a individuare nella natura umana la centralità della tendenza ad acquisire abitudine. Hume non è certo il primo filosofo a riconoscere questo: già Aristotele aveva visto nell’abitudine un meccanismo simile a quelli naturali; e, in età moderna, Pascal aveva individuato nell’abitudine un elemento importante nella formazione della fede religiosa e delle credenze della vita quotidiana.[1] Hume accentua questa funzione dell’abitudine nella formazione delle idee, in particolare in quelle generali astratte, in quelle di causa e di sostanza, e sostiene che l’insieme della nostra vita quotidiana è fondata sull’abitudine. La forza di tante verità, che ci sembrano solidissime, è in realtà la forza di una disposizione della mente, acquistata con l’abitudine.

La scoperta della centralità dell’abitudine nel pensiero è esplosiva e, pertanto, destinata a incontrare forti resistenze: “Benché le prove che ho addotte mi sembrino perfettamente conclusive, non mi lusingo di fare molti proseliti alle mie opinioni. Difficilmente gli uomini si persuaderanno che effetti di tanta importanza possano scaturire da principi in apparenza di così poca entità, e che quasi tutti nostri ragionamenti, e insieme le nostre azioni e passioni, derivino semplicemente dall’abitudine e della consuetudine”.[2]

Hume sa di esporsi, con la distruzione di tante antiche certezze, che questa sua tesi comporta, a forti critiche: “Mi turba e m’impaurisce – scrive nella conclusione del primo libro del Trattato sulla natura umana – la solitudine desolata, in cui mi ha posto la mia filosofia, e mi assomiglia a un mostro bizzarro e strano, il quale, incapace di unirsi agli altri in società è stato espulso da ogni umano commercio e del tutto abbandonato a se stesso. […] Mi sono esposto, infatti, all’inimicizia di tutti i metafisici, dei logici, dei matematici e perfino dei teologi”.[3]

Hume nasce nel 1711, da una famiglia di piccola nobiltà terriera, a Edimburgo, in Scozia, una regione che non ha ancora conosciuto lo sviluppo economico della parte meridionale dell’isola britannica. L’economia scozzese è, infatti, ancora caratterizzata del latifondo e dalla servitù della gleba.

Il padre, avvocato, muore quando lui ha solo due anni. Hume s’iscrive a giurisprudenza, ma non termina gli studi, data la sua “avversione insormontabile per tutto ciò che non fosse studio filosofico e cultura in generale”. Continua da solo gli studi filosofici e letterari. Legge Virgilio e Cicerone, Bacone, Newton, Hutcheson, Locke e Berkeley. A diciotto anni, pensa a un profondo rinnovamento filosofico: gli si apre davanti “una nuova scena di pensiero”. S’impegna con troppo ardore nello sviluppo di questa sua idea e cade presto in “una torpida indolenza” che lo tormenta a lungo. Nel 1734, dopo un fallito tentativo di inserirsi nel commercio, decide di seguire la sua “vocazione letteraria” e si trasferisce in Francia, dove, a La Flèche studia e lavora intensamente alla stesura del Trattato sulla natura umana. Nel 1737 torna in Inghilterra e cerca di pubblicare il suo capolavoro. Nel 1739 riesce a pubblicarne anonime le prime due parti, con pieno insuccesso. Prova ad abbandonare la forma del trattato e a ripresentare il suo pensiero nella forma più agile del saggio. Negli anni successivi pubblica diversi saggi e dialoghi, con ampio successo. La fama gli viene, però, per una sua grande Storia dell’Inghilterra, criticata per la posizione assunta sulla sorte di Carlo I e per la ricostruzione contro corrente della prima rivoluzione inglese, ma molto letta per oltre un secolo, apprezzata anche da Winston Churchill, adolescente.

La carriera accademica gli viene impedita da varie accuse di ateismo. La Chiesa presbiteriana scozzese discute per due anni di seguito, nel 1755 e nel 1756, una proposta di scomunica di Hume, ma hanno la meglio i progressisti.

Dal 1763 al 1766 lavora all’ambasciata inglese di Parigi. Viene calorosamente accolto nei salotti parigini, dove incontra e stringe amicizia con D’Alembert, Buffon, Diderot, Helvétius, D’Holbach. “Chi non conosce – scrive nella sua breve autobiografia – gli strani effetti delle usanze umane non potrà mai immaginare l’accoglienza che incontrai a Parigi da parte di uomini e donne di ogni rango e di ogni condizione. Quanto più sfuggivo alle loro esagerate cortesie, tanto più ne venivo colmato. E tuttavia, vivere a Parigi dà anche una vera gioia, per il gran numero di persone di buon senso, colte ed educate di cui questa città abbonda più di qualsiasi altro luogo dell’universo. Una volta pensai perfino di stabilirmici per sempre”.

Nel ritorno in Inghilterra porta con sé Rousseau, che presto lo accusa di ordire un complotto contro di lui, creando un caso di cui si parla molto. Hume si vede, così, costretto a far pubblicare a Parigi un suo scritto di difesa.

“Tornai – ricorda nell’autobiografia – a Edimburgo nel 1769 ricchissimo (possedevo, infatti, una rendita di mille sterline l’anno), in buona salute e, sebbene un po’ avanti negli anni, con la prospettiva di godere a lungo il mio benessere e di vedere accrescersi la mia fama”.

La ricchezza gli viene soprattutto dai crescenti successi editoriali.

Si dedica interamente ai suoi studi.

“Nella primavera del 1775 – scrive nel 1776 – fui colpito da un disturbo intestinale che dapprima non mi allarmò, ma che da allora, come mi dicono, è divenuto mortale e incurabile. Adesso conto su una rapida dissoluzione. Ho sofferto pochissimo a causa del mio male; e, quel che è più strano, nonostante il notevole declino fisico, il mio stato d’animo non ha subito un minuto solo di abbattimento; se anzi dovessi indicare quale periodo della mia vita preferirei rivivere, sarei tentato di scegliere proprio quest’ultimo. Ho ancora lo stesso ardore per lo studio, e la stessa gaiezza in compagnia. D’altra parte penso che a un uomo di sessantacinque anni la morte sottragga solo pochi anni di malattie; e sebbene possa vedere da molti sintomi che la mia fama letteraria sta finalmente prorompendo con sempre maggior lustro, so che non potrei avere più di qualche anno per goderne. È difficile essere più distaccati dalla vita di quanto lo sia io adesso”.

Hume chiude la breve autobiografia, presentando il suo carattere.

“Sono, o meglio ero (così infatti debbo ora esprimermi parlando di me stesso, anche per incoraggiarmi a parlare dei miei sentimenti): ero, dicevo un uomo di carattere mite, padrone del proprio temperamento, di umore aperto, socievole e brioso, capace di amicizia e ben poco capace d’inimicizia, estremamente moderato in tutte le passioni. Neanche il mio amore per la fama letteraria, che è stata la mia passione dominante, ha mai inacerbito il mio animo, malgrado le frequenti delusioni. La mia compagnia non era sgradita ai giovani e agli spensierati, né agli uomini di studio e di lettere; e se traevo particolare piacere dalla compagnia delle donne modeste, non ebbi d’altra parte ragione di dispiacermi per l’accoglienza che mi riservarono. In una parola, sebbene moltissimi uomini peraltro eminenti abbiano trovato ragione di lamentarsi delle calunnie subite, io non fui mai toccato e nemmeno attaccato da quel dente infame: e quantunque mi sia esposto infinite volte alla rabbia delle fazioni sia civili sia religiose, sembrava sempre che nei miei confronti fossero disarmate della loro solita violenza. I miei amici non hanno mai avuto bisogno di difendere nessun aspetto del mio carattere e del mio comportamento; non c’è dubbio che i fanatici, posso ben immaginarmelo, sarebbero stati lietissimi di inventare e diffondere qualche storia a mio svantaggio: ma non son mai riusciti a trovarne una che avesse l’aspetto dell’attendibilità. Non posso negare che ci sia un po’ di vanità in questa orazione funebre di me stesso, ma spero che non sia mal riposta; e questo è un dato di fatto che si potrà facilmente chiarire e accertare”.

La mia vita di Hume porta la data del 18 aprile 1776, quattro mesi prima della sua morte.


[1] Cfr. il mio quaderno Da Montaigne a Pascal, a p.170.

[2] David Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche I, ed. Laterza 1987, p. 132.

[3] Ib. p. 276.

Fonte: ANNO ACCADEMICO 2013-14 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 9 dicembre 2013

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015