Kant: l’isola della scienza e l’oceano della metafisica

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Kant: l’isola della scienza e l’oceano della metafisica

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Giuseppe Bailone

L’uomo ha tre facoltà conoscitive: la sensibilità, l’intelletto e la ragione.

“Ogni nostra conoscenza scaturisce dai sensi, da qui va all’intelletto, per finire nella ragione, al di sopra della quale non si riscontra nulla di più alto che intervenga a elaborare la materia dell’intuizione e a ricondurla sotto la suprema unità del pensiero”.1

La sensibilità presenta un materiale indeterminato che l’intelletto organizza con le sue categorie, mentre la ragione tenta, invano ma irresistibilmente, di riportare la conoscenza a un’unità suprema. Mentre, infatti, l’elaborazione che l’intelletto compie dei dati della sensazione può essere feconda e produrre sapere scientifico, il tentativo della ragione è vano, perché dell’unità suprema sotto la quale cerca di ricondurre la conoscenza l’uomo non ha intuizione, cioè visione diretta, immediata. E non ne ha intuizione, perché l’intuizione sensibile, cogliendo i suoi oggetti nel tempo e nello spazio, ha sempre e solo a che fare con dati particolari e mai con unità assolute, quali sono quelle che la ragione pretende di conoscere; né l’uomo possiede altro tipo d’intuizione, che lo metta in contatto reale con quelle unità assolute.

Muovendosi tra i dati empirici l’uomo può realizzare risultati sicuri ma, per quanto ampi, sempre limitati. Nella ricerca scientifica l’uomo può sempre acquisire nuovi dati e costruire sintesi sempre più ampie. Resta, però, sempre all’interno del mondo fenomenico, come in un’isola.

È Kant stesso che paragona il mondo dell’intelletto a un’isola, “un territorio che la natura ha racchiuso in confini immutabili”.

Quest’isola “è il territorio della verità (nome seducente), circondata da un ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza, dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci, in corso di liquefazione, creano a ogni istante l’illusione di nuove terre e, generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta per sempre”.2

Viene da pensare al “folle volo” di Ulisse. Anche per Kant l’uomo non può fermarsi a Itaca e limitarsi all’uso empirico delle categorie: tende in modo irresistibile ad avventurarsi nell’oceano “ampio e tempestoso”, seducente e ingannevole, dell’uso trascendente delle categorie.

Viene anche da pensare ai miti platonici della caverna e della biga alata.

Infatti, la parola idea, che Kant usa per indicare l’oggetto della ragione, è un esplicito riferimento a Platone e a quelle sue entità perfette collocate nella “pianura della verità” al termine del lungo viaggio di uscita dalla caverna del mondo sensibile e di ascesa all’iperuranio.

“Platone impiegò la parola idea in un modo tale che è facilmente riscontrabile come egli mirasse con essa ad esprimere qualcosa che non soltanto non proviene mai dai sensi, ma si colloca anche di gran lunga al di là dei concetti dell’intelletto di cui si occupò Aristotele, perché nell’esperienza non è mai dato incontrare qualcosa che la adegui. Le idee sono per lui gli archetipi delle cose stesse e non si risolvono in semplici chiavi di accesso ad esperienze possibili, com’è il caso delle categorie. Dal suo punto di vista, le idee provengono dalla suprema ragione, donde vennero partecipate alla ragione umana; questa, da parte sua, ha perduto il suo stato originario, ond’è costretta a richiamare con fatica le antiche idee, ormai oscurate, per mezzo della reminiscenza (cioè della filosofia). […]

Platone vide con chiarezza che la nostra capacità conoscitiva è stimolata da un bisogno assai più alto di quello che la limita a compitare semplici fenomeni sul fondamento d’una unità sintetica, per leggerli come esperienza, e che la nostra ragione si eleva per natura sua verso conoscenze che si collocano troppo oltre perché uno qualsiasi degli oggetti forniti dall’esperienza sia in grado da corrispondere ad esse”.3

Come Platone, Kant pensa che l’uomo abbia la vocazione a uscire dalla caverna, per realizzare la conoscenza assoluta; a differenza di Platone pensa, però, che l’uomo non abbia i mezzi (l’intuizione intellettuale) per farlo.

C’è, dunque, tra i due filosofi un importante punto di contatto, ma anche una notevole distanza. La distanza, però, non è poi così grande come appare a prima vista. Essa, infatti, si riduce, se si considera quanto sia avventurosa, incerta e labile, la visione platonica delle Idee da parte dell’anima umana. Se poi si aprono le pagine che Platone scrive da vecchio nella Lettera VII e si tiene presente l’approdo kantiano all’assoluto con l’imperativo categorico, la distanza si riduce ancora e di molto.

La mancanza, per Kant, dell’intuizione intellettuale nell’uomo comporta che la ragione, quando adopera le stesse categorie dell’intelletto, produca da sé gli oggetti su cui pensare, non essendo adeguati quelli prodotti dall’intuizione sensibile e non avendo altro tipo d’intuizione.

L’uomo prova instancabilmente, ma invano a cogliere l’assoluto, l’incondizionato. E, anche quando si rende conto della vanità dei suoi sforzi, continua a provarci, non può fare a meno di provarci. Questa tensione vana, ma sempre risorgente, ha, però, effetti secondari di non poca importanza: non arriva alla verità, afferra solo delle sue parvenze; ma, queste hanno, una funzione regolativa importante per il lavoro produttivo dell’intelletto.

“Ora, benché rispetto ai concetti trascendentali della ragione dobbiamo dire: «non sono che idee», non siamo tuttavia per questo autorizzati a ritenerli superflui e nulli. Anche se per mezzo di essi nessun oggetto può esser determinato, essi possono, tuttavia, in fondo e quasi nascostamente, offrire all’intelletto un canone per l’estensione e la coerenza del suo uso; con questo canone l’intelletto non può, in verità, conoscere alcun oggetto oltre quelli conoscibili coi suoi concetti; ma nella conoscenza di questi è indirizzato meglio e più a fondo”.4

I sogni oceanici influiscono sull’organizzazione dell’isola. Le illusioni della metafisica aiutano l’intelletto a organizzare le sue conoscenze in modo sistematico.

La ragione, proprio perché considera parziali i risultati delle sintesi operate dall’intelletto, tenta di superarne i limiti, crea da sé gli oggetti su cui applicare le categorie, crea le sue idee, totalità assolute, incondizionate, alla cui luce inquadrare in senso unitario le conoscenze fenomeniche. La metafisica è quindi per l’uomo una tentazione irresistibile, radicata negli stessi suoi limiti e nella consapevolezza che ne ha. Una tentazione destinata a restare frustrata, ma, capace di produrre effetti secondari positivi e importanti.

Le idee della ragione metafisica sono quelle di anima, di mondo e di Dio.

L’idea di anima è quella dell’unità assoluta, incondizionata, del soggetto pensante: indica, cioè, la sostanza unitaria dei fenomeni interiori; ciò che permarrebbe sempre identico a sé, sotto il variare dei singoli atti della sensibilità e del pensiero.

Il mondo, nell’idea che se ne fa la ragione metafisica, è “l’unità assoluta delle serie delle condizioni del fenomeno”, cioè, l’insieme ordinato e assolutamente unitario dei fenomeni esterni, che esisterebbe indipendentemente dalle nostre conoscenze scientifiche, inevitabilmente parziali.

Dio, infine, è pensato dalla metafisica come fondamento assoluto e causa di ogni realtà che si possa pensare.

Le tre idee sono tra di loro in stretta connessione sistematica.

“L’andare dalla conoscenza di sé (dell’anima) alla conoscenza del mondo e, per mezzo di questa, fino all’ente supremo, risponde a un processo così naturale da apparire simile al procedimento logico della ragione dalle premesse alla conseguenza”.5 In nota, però, Kant aggiunge: “L’autentico scopo dell’indagine metafisica è costituito soltanto da tre idee: Dio, libertà, immortalità, secondo un ordine per cui il secondo concetto, connesso al primo, deve condurre al terzo. Ogni altra cosa di cui questa scienza si occupa, non le serve che come mezzo per giungere a queste idee e alla loro realtà. Le idee occorrono alla metafisica non già in vista della scienza della natura, ma per l’oltrepassamento della natura. Il procedere in base a queste idee farebbe dipendere la teologia, la morale e, in virtù della loro connessione, la religione – pertanto i fini supremi della nostra esistenza – dal semplice potere speculativo della ragione e da null’altro”. Come vedremo, prendendo in considerazione la teoria morale kantiana, “i fini supremi della nostra esistenza” hanno per Kant un fondamento diverso.

“In una rappresentazione sistematica – continua la nota di Kant – di tali idee, l’ordine già addotto, o sintetico, sarebbe il più idoneo; ma nella disanima, che deve necessariamente precedere, sarà più conforme allo scopo l’ordine analitico, che è l’inverso; si tratta infatti di procedere da ciò che l’esperienza ci mette immediatamente a disposizione, la dottrina dell’anima, alla dottrina del mondo e da qui alla conoscenza di Dio, portando in tal modo a compimento il nostro grande disegno”.

La dialettica trascendentale prende in esame queste tre idee, ne dimostra il carattere di parvenze e la natura non scientifica della metafisica (articolata in psicologia, cosmologia e teologia) che se ne occupa.

Non a caso Kant parla di psicologia razionale, di cosmologia razionale e di teologia razionale. L’aggettivo “razionale”, che qualifica queste tre presunte scienze è ricavato dal termine “ragione”, da intendersi come facoltà conoscitiva diversa dall’intelletto e organo della metafisica. Sta a indicare il non ricorso della metafisica all’esperienza, la sua affinità col sogno della colomba di volare senza la resistenza dell’aria, ma anche col “folle volo” di Ulisse e col volo della biga alata del Fedro platonico.

Sul termine “dialettica”, infatti, Kant scrive: “Per mutevole che sia il significato in cui gli antichi si servirono di questa denominazione di una scienza o arte, si può tuttavia sicuramente desumere, dall’uso che in realtà ne fecero, che la dialettica, per loro, altro non fosse che la logica della parvenza. Arte sofistica di dare alla propria ignoranza, anzi alle proprie volute illusioni, l’aspetto della verità, contraffacendo il metodo di pensare fondato, che la logica generale prescrive, e servendosi della sua topica per mascherare ogni vuoto procedimento. C’è un avvertimento sicuro ed utile, che dev’essere tenuto presente comunque, ed è che la logica generale, assunta come organo, è sempre logica della parvenza, cioè dialettica. Essa infatti nulla c’insegna a proposito del contenuto della conoscenza, ma ci dà semplicemente le condizioni formali dell’accordo con l’intelletto, condizioni che, rispetto all’oggetto, sono del tutto indifferenti; così il proposito di servirsene come strumento (organo), nella pretesa di allargare ed incrementare, almeno apparentemente, le proprie conoscenze, non può condurre che a vuoti discorsi di chi, a piacer suo, affermi con qualche apparenza o neghi a capriccio qualunque cosa gli piaccia”.6

Torino 23 marzo 2015

Note

1 Kant, Critica della ragion pura, a cura di Pietro Chiodi, UTET 1967. p. 304.

2 Ib. p. 264.

3 Ib. pp. 313-14.

4 Ib. p. 323.

5 Ib. p. 329.

6 Ib. p. 132.


ANNO ACCADEMICO 2014-15 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 06-09-2015