Leibniz nel labirinto della libertà

TEORICI
Politici Economisti Filosofi Teologi Antropologi Pedagogisti Psicologi Sociologi...


Leibniz nel labirinto della libertà

I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII

Giuseppe Bailone

Leibniz, muovendosi nel labirinto della libertà, vuole evitare sia l’uscita che porta a Hobbes e a Spinoza che quella opposta, che porta a Cartesio.

Hobbes ha insegnato, secondo Leibniz, “una necessità assoluta di tutte le cose”; ma “Spinoza si è spinto più lontano: pare che abbia insegnato espressamente una necessità cieca, avendo negato l’intelletto e la volontà all’Autore delle cose, e immaginando che il bene e la perfezione siano tali soltanto in rapporto a noi, e non a lui. […] non riconosce alcuna bontà in Dio, parlando propriamente, e insegna che tutte le cose esistono per la necessità della natura divina, senza che Dio faccia alcuna scelta”.1

Se Spinoza nega a Dio la possibilità di scelta, Cartesio gliela riconosce così ampia da far dipendere dalla sua onnipotenza anche le verità matematiche. Egli fa sua una concezione dell’onnipotenza di Dio e della libertà umana su cui l’ultima Scolastica, guidata da Duns Scoto e da Occam, ha molto riflettuto, anche giocando con la celebre figura dell’asino di Buridano.

Si attribuisce a Buridano, discepolo di Occam e rettore dell’università di Parigi, l’apologo dell’asino che, trovandosi tra due prati perfettamente uguali, ugualmente portato all’uno e all’altro, non riesce a scegliere e muore di fame.2 Il caso, in verità, non si trova negli scritti di Buridano. Se ne trovano, però, le premesse: quando l’intelletto giudica uguali due beni, la volontà non può decidersi né per l’uno né per l’altro. Per Buridano l’uomo può sottrarsi alla paralisi dell’intelletto e non morire. A differenza dell’asino, infatti, è libero, nel senso che la sua volontà non dipende necessariamente dal giudizio dell’intelletto. L’uomo può, pertanto, sospendere o impedire il giudizio dell’intelletto e decidere comunque, indifferentemente, in un senso o nell’altro. Sulla scia di questo volontarismo, Cartesio riconosce limiti all’intelletto umano, ma non alla volontà. La ritiene così assolutamente libera, che arriva a dire che due più due fa quattro, perché così ha stabilito l’onnipotente volontà di Dio, e che l’uomo è esposto all’errore e al peccato, proprio perché la sua volontà non ha i limiti del suo intelletto e può decidersi in assoluta libertà.

Leibniz, sul caso dell’asino di Buridano, osserva: “È vero che, se il caso fosse possibile, bisognerebbe dire che l’asino si lascerebbe morire di fame, ma in fondo la questione verte su qualcosa d’impossibile. […] Infatti l’universo non può essere diviso in due da un piano condotto per il mezzo dell’asino, tagliato verticalmente secondo la sua lunghezza, in maniera che tutto sia uguale e simile da una parte e dall’altra, come invece può esserlo un’ellisse o qualsiasi altra figura piana, del novero di quelle che io chiamo anfidestre, le quali possono esser divise così da una qualunque linea retta condotta per il loro centro. Infatti, né le parti dell’universo né le viscere dell’animale sono simili, né disposte in modo simmetrico ai due lati del piano verticale. Dunque ci saranno sempre molte cose nell’asino e al di fuori dell’asino, sebbene non ci appaiano, che lo determineranno ad andare da una parte piuttosto che dall’altra. E benché l’uomo sia libero – cosa che l’asino non è – non è men vero, per la stessa ragione, che anche nell’uomo il caso di un perfetto equilibrio tra due partiti è impossibile, e che un angelo, o Dio se non altro, potrebbe sempre rendere ragione del partito che l’uomo ha preso, attribuendovi una causa o una ragione inclinante che l’ha portato effettivamente a prenderlo – benché siffatta ragione sia spesso assai complessa e inconcepibile a noi stessi, dato che il concatenamento delle cause legate l’una all’altra va molto lontano”.3

A Cartesio obietta:

“La ragione addotta da Cartesio per provare l’indipendenza delle nostre azioni libere, in base a un vivido sentimento interno, non ha alcuna forza. Noi non possiamo sentire, in senso proprio, la nostra indipendenza, e non appercepiamo sempre le cause, spesso impercettibili, dalle quali dipende la nostra risoluzione. È come se l’ago magnetico provasse piacere a volgersi verso il Nord: esso crederebbe di girarsi indipendentemente da altre cause, non accorgendosi dei movimenti insensibili della materia magnetica”.4

Cartesio pensa che l’io sia trasparente a se stesso, Leibniz no.

“Per quel che concerne la volizione stessa, c’è qualcosa d’improprio nel dire che essa è un oggetto della volontà libera. Per essere precisi, noi vogliamo agire, non vogliamo volere: altrimenti potremmo anche dire che vogliamo avere la volontà di volere, e così via all’infinito. Inoltre, non seguiamo sempre l’ultimo giudizio dell’intelletto pratico, quando ci determiniamo a volere; mentre invece seguiamo sempre, nel volere, il risultato di tutte le inclinazioni che vengono tanto dal lato delle ragioni quanto da quello delle passioni, il che avviene spesso senza un giudizio esplicito dell’intelletto. Tutto è dunque certo e determinato in anticipo nell’uomo, come del resto in ogni altra realtà, e l’anima umana è una sorta di automa spirituale, benché le azioni contingenti in generale, e le azioni libere in particolare, non siano per questo necessarie di una necessità assoluta, la quale sarebbe davvero incompatibile con la contingenza”.5 Poco prima, sempre sulla libertà del volere, aveva scritto:

“Non ci si deve immaginare tuttavia che la nostra libertà consista in un’indeterminazione o in un’indifferenza di equilibrio, come se occorresse essere egualmente inclinati dal lato del sì o del no, e dal lato dei diversi partiti, quando ce ne siano parecchi da prendere. Un siffatto equilibrio è impossibile; se infatti fossimo egualmente inclinati per i partiti A, B e C, non potremmo essere egualmente inclinati per A e per non-A. Siffatto equilibrio è inoltre assolutamente contrario all’esperienza, e se guardassimo in noi stessi, troveremmo che c’è sempre stata qualche causa o ragione che ci ha inclinato verso il partito che si è preso, anche se molto spesso non siamo consapevoli di ciò che ci muove; proprio come non abbiamo affatto consapevolezza del perché, uscendo da una porta, si è messo il piede destro avanti al sinistro o il sinistro al destro”.6 Leibniz avverte la presenza di una profondità interiore che sfugge alla coscienza, avverte la presenza dell’inconscio.

Sul complesso rapporto tra la volontà, l’intelletto e le passioni, Leibniz scrive:

“Si vuole che la Volontà sia essa sola attiva e sovrana, e si è soliti concepirla come una regina seduta sul trono, mentre l’Intelletto sarebbe il suo ministro di stato, e le Passioni i cortigiani o le favorite, che con la loro influenza prevalgono spesso sul consiglio del ministro. Si vuole che l’Intelletto non parli se non per ordine di tale regina; che questa possa bilanciarsi tra le ragioni del ministro e i suggerimenti dei favoriti, e anche rifiutare le une e gli altri: insomma che li faccia tacere o parlare, e dia loro ascolto oppure no, come più le aggrada. Ma si tratta di una prosopopea, o finzione, non proprio felice: se infatti la volontà deve giudicare, o prendere conoscenza delle ragioni e delle inclinazioni che l’intelletto o i sensi le presentano, le occorrerà un altro intelletto in se stessa, per comprendere ciò che le viene presentato. La verità è che l’Anima, o Sostanza pensante, intende le ragioni, sente le inclinazioni e si determina secondo il prevalere delle rappresentazioni che modificano la sua forza attiva per specificarne l’azione”.7

Quando si allontana dagli scogli di Cariddi-Cartesio, Leibniz si avvicina pericolosamente a quelli di Scilla-Spinoza, come il suo ago magnetico, che gode a volgersi a Nord, si avvicina alla pietra pensante di Spinoza, mossa da cause esterne, ma convinta di muoversi in libertà.

Contro Cartesio ritiene impossibile un libero arbitrio assoluto, una “indifferenza vaga”, in cui “non vi sia alcuna ragione sufficiente né nella causa efficiente né nella causa finale”; contro Spinoza distingue la “necessità morale, che deriva dalla scelta libera della saggezza in rapporto alle cause finali”, dalla “necessità assoluta, metafisica o geometrica, che si può chiamare cieca e che dipende soltanto da cause efficienti”.8 Il mondo di Leibniz è rigorosamente ordinato, ma nel suo ordine devono trovare posto la libertà di scelta divina e umana e le cause finali.

Sempre cercando di tenere una posizione di equidistanza e di difficile equilibrio, Leibniz affronta anche la questione della prescienza divina, “che da molti è stata ritenuta contraria alla libertà”. E, davanti alla nuova difficoltà, Leibniz distingue la verità determinata dalla verità necessaria.

“I filosofi oggi convengono che la verità dei futuri contingenti è determinata, vale a dire che i futuri contingenti sono futuri, ossia che saranno, che accadranno: è infatti altrettanto certo che il futuro sarà, quanto è certo che il passato è stato. Era già vero cent’anni fa che io avrei scritto, come sarà vero fra cent’anni che io ho scritto. […] La verità necessaria è quella il cui contrario è impossibile o implica contraddizione. Ora, la verità secondo la quale io scriverò domani, non ha tale natura, non è affatto necessaria. Ma supposto che Dio la preveda, è necessario che accada: vale a dire che è necessaria la conseguenza, è necessario cioè che essa esista, dato che è stata prevista, poiché Dio è infallibile: è quel che si chiama necessità ipotetica. Non è però di questa necessità che qui si parla: quella che si richiede perché si possa dire che un’azione è necessaria, che non è contingente né è l’effetto di una libera scelta, è una necessità assoluta. Del resto è assai facile rendersi conto che la prescienza, di per sé, non aggiunge nulla alla determinazione della verità dei futuri contingenti, se non il fatto che tale determinazione è stata conosciuta”.9

Le cose sono previste da Dio perché accadranno e non viceversa.

“La prescienza di per sé non rende la verità più determinata: questa è prevista perché è determinata, perché è vera, ma non è vera perché è prevista. E, in questo, la conoscenza del futuro non ha niente che non si possa trovare anche nella conoscenza del passato o del presente”.10

Per capire la differenza tra verità determinata e verità necessaria, Leibniz invita a tener presenti due diversi principi di ragionamento.

“Ci sono due grandi principi sui quali si fondano i nostri ragionamenti: uno è il principio di contraddizione, secondo il quale di due proposizioni contraddittorie l’una è vera e l’altra è falsa; l’altro è il principio di ragione determinante, secondo il quale non accade mai niente senza che ci sia una causa o almeno una ragione determinante, ossia qualcosa che possa servire a rendere ragione a priori del perché una data cosa è esistente piuttosto che non esistente e del perché è così e non in tutt’altro modo. Questo grande principio si applica a tutti gli eventi e non se ne darà mai un esempio contrario: e sebbene il più delle volte queste ragioni determinanti non ci siano note a sufficienza, intravediamo pur sempre che ce ne sono. Senza questo gran principio non potremmo mai dimostrare l’esistenza di Dio, e dovremmo rinunciare a un’infinità di ragionamenti assai giusti e assai utili, dei quali esso è il fondamento. Si tratta di un principio che non conosce eccezioni, altrimenti la sua forza sarebbe indebolita. Del resto non c’è niente di più debole di quei sistemi in cui tutto è vacillante e pieno di eccezioni. Non è certo questo il difetto del sistema che io seguo, dove tutto procede secondo regole generali, che tutt’al più si limitano tra loro”.11

Nel tentativo di accordare la libertà umana con l’onnipotenza di Dio, Cartesio aveva fatto il paragone del re che, proibiti i duelli, ma conoscendo la determinazione di due suoi gentiluomini a battersi anche in violazione del suo divieto, prende misure infallibili per farli incontrare. Bayle respinge il paragone, perché esso attribuisce a Dio la causa morale della colpa dei due gentiluomini. Anche Leibniz pensa che Cartesio sbagli, ma, sempre conciliante, invece di respingere il suo paragone, lo aggiusta.

Supponiamo che i due gentiluomini, scrive Leibniz, “debbano trovarsi insieme nell’esercito, o in altre funzioni indispensabili, e che il principe non possa impedire la cosa senza mettere in pericolo lo Stato”. In questo caso, il duello avviene, ma il principe non l’ha voluto, bensì solo permesso, non potendo fare altrimenti. “Il principe è obbligato […] a causa della sua impotenza […] ma Dio, che può tutto ciò che è possibile, permette il peccato solo in quanto è assolutamente impossibile per chicchessia far meglio”.12

Anche per Dio, secondo Leibniz, ma non secondo Cartesio, ci sono cose impossibili. Per lui l’impossibile è tale per “chicchessia”.

Dio non vuole il peccato, ma gli è impossibile non permetterlo.

L’onnipotenza di Dio ha un limite!

Anche Dio sceglie all’interno di limiti invalicabili!

Ma, all’interno dei limiti posti dall’impossibile per chicchessia, le sue scelte, se non sono libere in senso assoluto, come sostiene Cartesio, quanto si distinguono dalla “libera necessità” di Spinoza?

Dio avrebbe potuto scegliere un mondo diverso?

In teoria sì, perché i mondi possibili sono infiniti. In realtà no, perché Dio ha scelto, conoscendo perfettamente tutti i mondi possibili, proprio questo perché il migliore. Se avesse fatto una scelta diversa, avrebbe scartato il migliore dei mondi possibili. Avrebbe fatto una scelta degna di Dio?

Inoltre in Dio non c’è una parte inconscia. La sua scelta è perfettamente consapevole. A lui non capita, come all’uomo, di fare delle scelte senza conoscerne la ragion sufficiente a determinarle.

Leibniz distingue le verità di ragione dalle verità di fatto, ma questa distinzione è molto netta per l’uomo, molto meno in Dio, che ha una conoscenza assoluta delle cose. Se il fatto che Cesare abbia attraversato il Rubicone è per gli uomini una certezza, un dato di fatto del quale è possibile trovare la ragion sufficiente, per Dio, che di Giulio Cesare conosce perfettamente la natura, le cose stanno diversamente. Per lui il predicato “ha attraversato il Rubicone” era già contenuto nel soggetto “Giulio Cesare”. La sua conoscenza assoluta, senza i limiti umani, gli rende possibile vedere, attraverso un numero infinito di passaggi logici, che l’uomo non riesce a fare, che quella verità di fatto è, in realtà, una verità di ragione.

Così, però, Leibniz si avvicina molto a Spinoza.

Sembra, infatti, che la differenza tra le verità di ragione e di fatto stia nel fatto che, mentre nelle prime l’identità tra soggetto e predicato è a portata dell’uomo, nelle seconde l’identità è a portata solo di Dio. Ma, se per Dio, le verità di fatto sono verità di ragione, anche le verità di fatto sono necessarie, anche se l’uomo non riesce a capirlo. L’uomo si crede libero, perché non conosce perfettamente i motivi delle sue scelte (ma, questo non lo diceva proprio Spinoza?). Quello che per l’uomo è una scelta libera, Dio l’ha previsto come necessario dall’eternità.

Contro Cartesio che fa dipendere le verità eterne dall’assolutamente libera volontà divina, Leibniz sostiene che queste sono necessarie anche per Dio, che anche per lui ciò che è logicamente impossibile è impossibile: Dio è ragione. Ma, per non finire nella “libera necessità” di Spinoza, Leibniz attribuisce a Dio anche la volontà, la libertà di scelta.

L’equidistanza sembra perfetta: al Dio cartesiano Leibniz mette dei limiti, vincolando la sua onnipotenza alla sua razionalità; al Dio-ragione di Spinoza aggiunge la volontà libera di scegliere tra infiniti mondi possibili. In realtà, condividendo l’identità spinoziana di Dio con la ragione e la distinzione cartesiana tra l’intelletto e la volontà, in Dio e nell’uomo, Leibniz, volendo conciliare gli opposti, cade in contraddizione e non riesce a svincolarsi né da Spinoza né da Cartesio. Cerca di uscire dal labirinto della questione della libertà, evitando Cartesio e Spinoza ma, resta impigliato in entrambi.

Lui pensa di svincolarsi da Spinoza sostenendo che il migliore dei mondi possibili scelto da Dio resta possibile e non diventa necessario nel divenire reale per la scelta divina. Diventa, dice, contingente, non necessario. E, fin qui, il suo discorso è logicamente sostenibile. Ma, è la scelta di Dio che non può dirsi possibile: Dio sceglie tra possibilità oggettive, ma, soggettivamente, non può non scegliere il migliore dei mondi possibili, pena contraddire la propria razionalità volta al bene. È costretto dalla propria perfezione razionale e morale. Certo, non si tratta di costrizione esterna, ma, anche la “libera necessità” di Spinoza non è costrizione esterna.


1 G. W. Leibniz, Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male, Bompiani 2005, pp. 497-499.

2 Il caso, non riferito all’asino, è già presente in Aristotele: “Si dice che chi è molto assetato o affamato, se si trova a uguale distanza dal cibo e dalla bevanda, necessariamente rimane immobile dove si trova”(De Cael., II, 13, 295 b 33).

3 Ib. pp. 273-275.

4 Ib. p. 275.

5 Ib. p. 277.

6 Ib. pp. 255-257.

7 Ib. pp. 975-977.

8 Ib. p. 763.

9 Ib. pp. 257-259.

10 Ib. p. 259.

11 Ib. pp. 267-269. A p. 969 e nella Monadologia, a p. 73 dell’ed. Bompiani 2001, il secondo principio lo chiama “di ragion sufficiente”.

12 Ib. pp. 471-477.


ANNO ACCADEMICO 2012-13 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 2 aprile 2013

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

La critica

Download


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 26-04-2015