Leibniz: siamo nella parte peggiore del migliore dei mondi possibili?

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Leibniz: siamo nella parte peggiore del migliore dei mondi possibili?

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Giuseppe Bailone

Si Deus est, unde malum? Si non est, unde bonum? (Se Dio esiste, da dove viene il male? Se non esiste, da dove viene il bene?). 1

La domanda di Severino Boezio è al centro della riflessione anche di Leibniz.

Leibniz, come Boezio, non ha dubbi sull’esistenza di Dio e sul fatto ch’egli sia il Bene e il principio di ogni bene. Delle due domande, pertanto, è solo la prima quella che egli prende in considerazione.

Per rispondere adeguatamente alla domanda sul male, scrive Leibniz, si deve distinguere i diversi sensi in cui s’intende il male.

«Il male può essere inteso in senso metafisico, fisico e morale. Il male metafisico consiste nella semplice imperfezione, il male fisico nella sofferenza, il male morale nel peccato. Ora, sebbene il male fisico e il male morale non siano necessari, basta che, in virtù delle verità eterne, siano possibili. E poiché questa immensa regione delle verità eterne contiene tutte le possibilità, bisogna che ci sia un’infinità di mondi possibili, che il male entri in parecchi di essi, e che anzi il migliore di tutti ne contenga: è questo ciò che ha determinato Dio a permettere il male”.2

Non c’è mondo possibile che non contenga del male. Dio, pertanto, è stato “determinato” a permetterlo, pur scegliendo il migliore dei mondi possibili.

Anche Leibniz, come molti teologi e filosofi che l’hanno preceduto, accetta la presenza del male nel mondo e assolve Dio che l’ha permesso. Per conciliare la giustizia di Dio con la presenza del male nel mondo, Leibniz scrive molte pagine, in tempi diversi dello sviluppo del suo pensiero, tutte incardinate sul principio che Dio non vuole il male, ma lo permette al fine di trarne del bene.

Leibniz ha idee chiare fin da giovane: tutte le cose (anche i peccati) si devono alla natura di Dio, cioè all’armonia delle cose, ma non alla sua volontà.

Lo scrive nel dialogo che nel 1673 invia ad Arnauld.

Affinché Dio voglia una cosa, non è in causa la sua volontà (nessuno infatti vuole perché vuole, ma perché ritiene che la cosa sia degna di essere voluta), bensì la natura delle cose stesse la quale, beninteso, è contenuta nella loro idea ovvero nell’Essenza di Dio. Ma, perché Dio faccia una cosa occorrono due cause (così come avviene sempre anche per le azioni delle altre menti): che egli voglia e che egli possa farla. I peccati non sono di quelle cose che Dio vuole ovvero che fa, perché certamente egli non li trova buoni presi singolarmente o considerati per se stessi. Ma essi sono tra quelle cose che Dio vede avvenire come conseguenza all’interno della complessiva ottimale armonia delle cose da lui prescelta. Poiché, nel corso dell’intera serie armonica, la loro esistenza viene compensata da beni maggiori, egli li tollera o ammette, anche se, qualora egli potesse farlo, ovvero qualora si potesse scegliere un’altra e migliore serie di cose che ne fosse priva, egli li eliminerebbe. Della serie complessiva si deve però dire che Dio la vuole, non che Dio la permette, e ciò vale anche per i peccati, nella misura in cui non li si considera per se stessi distintamente, bensì mescolati nel resto della serie. L’Armonia universale, l’unica della cui esistenza Dio gioisca assolutamente, è infatti un’affezione dell’intera serie e non dei suoi componenti. Di tutte le altre cose, ad eccezione dei peccati, Dio gioisce anche quando le considera separatamente di per se stesse. Eppure, se mancassero i peccati, egli non gioirebbe maggiormente della serie universale, ma ne gioirebbe di meno, perché l’armonia del tutto è resa gradevole dalle dissonanze che vi sono interposte e che vengono compensate con ammirevole razionalità. […] Dio è ragione di tutte le cose esistenti, ma va detto autore soltanto di quelle che sono buone anche considerate per se sole”.3

Ogni mondo possibile, anche il migliore, contiene del male, a fin di bene.

“È squisitissima armonia che la più perturbata discordia si riconduca insperatamente all’ordine, che la pittura si distingua attraverso le ombre, che l’armonia renda consonanti le dissonanze attraverso altre dissonanze (al modo in cui la somma di due numeri dispari è un numero pari), che i peccati si puniscano da soli (questo è un punto da tener presente); ne consegue che, se esiste Dio, esistono anche i peccati e le pene dei peccatori”.4

Il contrasto tra il pari e il dispari e quello tra le ombre e la luce sono della stessa natura del contrasto tra il bene e il male?

Per promuovere la sua tesi, Leibniz propone alcune distinzioni:

“Chiamerò necessario ciò il cui opposto comporta una contraddizione, vale a dire ciò il cui opposto non si può intendere chiaramente. Perciò è necessario che tre per tre sia nove, ma non è necessario che io parli o pecchi. Posso infatti intendere di essere io senza intendere anche di essere parlante, ma un tre per tre che non sia nove sarebbe un tre per tre che non è tre per tre – il che è contraddittorio – come ci dimostra la numerazione, cioè la riduzione dell’uno e dell’altro termine alla loro definizione ovvero alle unità che li costituiscono. Definisco poi contingente, ciò che non è necessario, possibile ciò che non è necessario che non sia, impossibile ciò che non è possibile. Necessario è ciò il cui opposto è impossibile. Contingente ciò il cui opposto è possibile. Volere è il gioire dell’esistenza di qualcosa. Non volere è dolersi dell’esistenza o gioire dell’inesistenza di qualcosa. Permettere è né volere né non volere e tuttavia sapere che qualcosa esiste. Essere autore significa essere ragione con la propria volontà dell’esistenza di qualcos’altro. Oserei dire che, poste queste definizioni, non vi si può derivare per concatenazione logica alcuna conseguenza poco onorevole per la giustizia divina”.5

In un dialogo del 1695 sulla libertà dell’uomo e sull’origine del male, stabilisce un rapporto tra la natura delle creature e il male che merita attenzione.

“Prima di ogni peccato vi è un’imperfezione originale in tutte le creature, che proviene dalla loro limitazione. Come è impossibile che vi sia un cerchio infinito, poiché ogni cerchio è delimitato dalla propria circonferenza, è impossibile che vi sia una creatura assolutamente perfetta”.6

Che cos’ha d’imperfetto la finitezza di una figura geometrica? Come si può paragonarla all’imperfezione che sarebbe “prima di ogni peccato”?

Nessuna cosa creata può essere perfetta? L’imperfezione è necessariamente connessa alla creatura? Leibniz pensa proprio di sì. Infatti, parla di migliore dei mondi possibili, non di mondo perfetto.

Dio non poteva creare, in base al principio leibniziano degli indiscernibili, un mondo che avesse la sua stessa perfezione, perché quel mondo non si sarebbe distinto da Dio, cui sarebbe stato del tutto identico.

Per Leibniz la perfezione assoluta è necessariamente unica. Per lui l’unicità fa, cioè, parte della perfezione, altrimenti avrebbe potuto benissimo pensare a creature diverse dal loro creatore, ma altrettanto perfette.

Perché Dio non potrebbe creare un essere dotato della sua stessa perfezione? Perché la perfezione in Dio è assoluta, senza limiti, infinita.

A differenza di Aristotele e di molti filosofi greci che pensano la perfezione come compiutezza, quindi come realtà finita, Leibniz pensa la perfezione divina come realtà infinita. Il limite, che per i greci è perfettivo, è per lui, come per tutto il pensiero segnato dall’idea biblica dell’onnipotenza divina, difettivo.

“Ora, scrive Leibniz, dove non ci sono limiti, cioè in Dio, la perfezione è appunto assolutamente infinita. Ne consegue inoltre che le creature hanno le loro perfezioni grazie all’influsso di Dio, mentre le loro imperfezioni derivano dalla loro propria natura, incapace di essere senza limiti. Proprio per questa incapacità le creature si distinguono da Dio”.7

In particolare, negli uomini l’imperfezione comporta che essi difficilmente riescano a muoversi con idee chiare e distinte: in loro c’è sempre un fondo oscuro e confuso dal quale provengono errori e sventure.

Mentre, però, l’imperfezione come male metafisico Leibniz la pensa necessaria, i mali fisici e morali, invece, li ritiene possibili e non necessari. Pertanto, rispettando i principi del suo ragionamento, non si può pensare che il male morale derivi dal male metafisico, dall’imperfezione creaturale.

Leibniz ha messo l’imperfezione “prima di ogni peccato”, ma, se la differenza tra ciò ch’è necessario e ciò ch’è possibile è radicale, da quel prima necessario non si può ricavare un dopo non necessario, solo possibile.

Il passaggio dal possibile al reale, per Leibniz, non è necessario, altrimenti il possibile sarebbe esso stesso necessario.

Com’è, allora, che il male morale è passato dalla possibilità alla realtà?

Torniamo alla correzione che Leibniz ha fatto dell’esempio cartesiano del signore che, vietati i duelli, è costretto, per ragioni di Stato, a far sì che due suoi gentiluomini s’incontrino, ben sapendo che si sarebbero scontrati in duello. Leibniz ha completato quella correzione con la tesi che anche per Dio l’impossibile è tale.

Il male morale è possibile, non necessario com’è invece quello metafisico, ma anche a Dio è impossibile impedirlo e deve permetterlo. Ma, un possibile il cui passaggio alla realtà anche a Dio è impossibile impedire quanto si distingue dal necessario?

Dopo aver identificato la perfezione divina con la sua infinitezza, adesso mette un limite all’onnipotenza divina e costringe Dio a permettere il male.

Leibniz prevede ancora un’altra obiezione. Ammesso che le creature siano limitate per necessità, “più o meno come il cerchio”, Dio non avrebbe potuto “crearle almeno abbastanza perfette da non cadere?”.

“Io credo – risponde Leibniz – che Dio abbia creato le cose nella massima perfezione, benché ciò non ci appaia se guardiamo le parti dell’universo. È più o meno come nella musica e nella pittura, perché le ombre e le dissonanze mettono così tanto in evidenza il resto. E il sapiente autore di tali opere ricava da queste imperfezioni particolari un vantaggio così grande, a favore della perfezione totale dell’opera, che è molto meglio dar loro spazio piuttosto che volervi rinunciare. Così bisogna credere che Dio non avrebbe permesso il peccato né creato le creature che sapeva che avrebbero peccato, se non avesse conosciuto il mezzo per ricavarne un bene incomparabilmente più grande del male che ne deriva”.8

Qui Leibniz fa un passo in più: non solo Dio permette i mali, ma sembra mosso dalla considerazione che “è molto meglio dar loro spazio piuttosto che volervi rinunciare … a favore della perfezione totale dell’opera”.

Ma non “voler rinunciare” non è volere?

Naturalmente, per conoscere questa grande perfezione totale, “bisognerebbe conoscere l’armonia generale dell’universo, mentre noi ne conosciamo una piccolissima parte”. Come si possa essere sicuri dell’armonia generale dell’universo, se ne conosciamo solo una piccolissima parte, è problema che Leibniz non avverte.

Leibniz, infatti, non parte dalle meraviglie del mondo per arrivare al suo autore, per celebrarne la bontà e l’onnipotenza, bensì parte da Dio, la cui esistenza è per lui dimostrabile a priori, e deduce dalla sua perfezione la creazione del migliore dei mondi possibili.

Certo, se ci limitiamo alla considerazione del rapporto tra il bene e il male che esiste sulla Terra, ammette Leibniz, è difficile pensare di essere nel migliore dei mondi possibili. Agostino, ad esempio, “si trovava in grande imbarazzo quando doveva giustificare la preponderanza del male”, perché, come tutti gli antichi, aveva “idee meschine sulle opere di Dio”.9

Leibniz non respinge il pessimismo di Agostino sul destino dell’umanità.

Non lo convince “la dottrina di Origene, secondo la quale il bene, a suo tempo, prenderà il sopravvento in tutto e per tutto sul male, e tutte le creature razionali, perfino gli angeli cattivi, diverranno sante e felici”.10 Eppure, si tratta di una tesi che potrebbe essere un buon sostegno alla teoria del migliore dei mondi possibili e del male condizione necessaria per un bene più grande.

Anche lui, luterano e, quindi, erede del pensiero agostiniano antipelagiano, pensa che “soltanto un piccolo numero di uomini saranno salvati, mentre tutti gli altri periranno per l’eternità”.11 Come può, allora, coniugare quel pessimismo agostiniano col suo ottimismo? Bisogna pensare, sostiene, la Città di Dio infinitamente più grande di come la pensava Agostino.

“Anche attenendoci alla dottrina stabilita, secondo la quale il numero dei dannati per l’eternità sarà incomparabilmente più grande di quello dei salvati, bisogna sempre dire che il male non cesserà di apparire quasi un nulla di fronte al bene, qualora si consideri la vera grandezza della Città di Dio. […]. Gli antichi credevano che soltanto la nostra Terra fosse abitata, e si guardavano perfino dall’ammettere gli antipodi: il resto del mondo constava, secondo loro, di alcuni globi lucenti e di qualche sfera cristallina. Oggi, si attribuiscano o no limiti all’universo, bisogna riconoscere che c’è un numero innumerevole di globi, grandi quanto e più del nostro, i quali hanno il medesimo diritto del nostro ad avere abitanti razionali, per quanto non è detto che debbano essere uomini. La Terra non è che un pianeta, cioè uno dei satelliti principali del nostro Sole; e poiché tutte le stelle fisse sono anch’esse dei soli, si vede come la nostra Terra sia poca cosa in rapporto alle cose visibili, non essendo che un’appendice di uno di quei soli. Può darsi che tutti i soli siano abitati esclusivamente da creature felici, e niente ci obbliga a credere che ce ne siano molte che saranno dannate, poiché pochi esempi o pochi saggi bastano a provare l’utilità che il bene trae dal male. D’altra parte, poiché non c’è alcuna ragione di credere che ci siano stelle dappertutto, non è forse possibile che al di là della regione delle stelle ci sia un grande spazio? Che sia o no il cielo empireo, questo spazio immenso, che circonda l’intera regione stellare, potrà comunque essere pieno di felicità e di gloria. Potrà essere concepito come l’oceano, nel quale confluiscono i corsi di tutte le creature felici, quando saranno giunte alla loro perfezione nel sistema delle stelle. Quale considerazione avremo allora del nostro globo e dei suoi abitanti? La nostra Terra non sarà qualcosa d’incomparabilmente più piccolo di un punto fisico, dato che essa è come un punto rispetto alla distanza di certe stelle fisse? Così, poiché la parte dell’universo che conosciamo, paragonata a quella che non conosciamo e che tuttavia abbiamo motivo di ammettere, scompare quasi nel nulla, e poiché tutti i mali che ci si possono opporre come obiezione non si trovano che in questo quasi-nulla, è anche possibile che tutti i mali non siano che un quasi-nulla in confronto ai beni presenti nell’universo”.12

Siamo nella parte peggiore del migliore dei mondi possibili?

Leibniz non nega l’esistenza del male morale e della sofferenza nel mondo umano. Anzi, pensando che tutto il male sia concentrato nella porzione di universo che abitiamo noi uomini, può condividere il pesantissimo pessimismo di Agostino e del mondo protestante e conciliarlo con l’ottimismo che egli fonda sulla scelta divina del migliore dei mondi possibili.

L’opposto dell’ottimismo leibniziano, infatti, non è il pessimismo, ma la negazione del finalismo, imposta dall’affermarsi della scienza moderna e teorizzata dalla metafisica di Spinoza.13 Da Spinoza, come abbiamo visto, Leibniz intende prendere le distanze, proprio perché non attribuisce a Dio “alcuna scelta”. E la scienza moderna, che egli contribuisce a promuovere, Leibniz la vuole conciliare proprio con il finalismo aristotelico e scolastico.

Le molte pagine di Leibniz sul problema del male non sono sempre convincenti, ma stimolano molto la riflessione. Possiamo continuarla con altre domande che la lettura di quelle pagine promuove.

  • Se Dio permette il male per ricavarne un bene più grande, perché l’avrebbe concentrato nel mondo umano?
  • La dannazione eterna di un numero “incomparabilmente più grande di quello dei salvati” può davvero “apparire quasi un nulla di fronte al bene, qualora si consideri la vera grandezza della Città di Dio”?
  • Il rapporto tra il bene e il male è puramente quantitativo?
  • Se i mali della porzione di mondo in cui ci tocca vivere sono “un quasi-nulla in confronto ai beni presenti nell’universo”, quale funzione a fin di bene può svolgere un quasi nulla di male rispetto al quasi tutto di bene?
  • Se “l’armonia del tutto è resa gradevole dalle dissonanze che vi sono interposte”, perché il male non è ugualmente distribuito in tutte le regioni dell’universo?
  • Come si può pensare che il male sia tutto in questa nostra insignificante parte di universo? Non è molto più sensata la posizione di Spinoza, per il quale, come scrive Leibniz con disapprovazione, “il bene e la perfezione” sono “tali solo in rapporto a noi”, e non a Dio?
  • Perché antropomorfizzare il principio e la causa dell’intero universo? Non è un eccesso di presunzione umana e d’insipiente superbia?

1 Boezio, De consolatione philosophiae, I, 4.

2 Leibniz, Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male, Bompiani 2005, pp. 235-237.

3 G. Leibniz, Dialoghi filosofici e scientifici, Bompiani 2007, pp.31-33.

4 Ib. p. 37.

5 Ib. p. 41.

6 Ib. p. 321.

7 Leibniz, Monadologia, Bompiani 2001, p. 77.

8 G. Leibniz, Dialoghi filosofici e scientifici, Bompiani 2007, p. 323.

9 G. Leibniz, Saggi di teodicea, Bompiani 2005, p. 231.

10 Ib. 227.

11 Ib. 207.

12 pp. 231-233.

13 La parola ottimismo, un neologismo destinato a molta fortuna, non è un’invenzione di Leibniz. Compare nel 1737, in un articolo dei Mèmoires de Trèvoux, una rivista dei gesuiti francesi, in riferimento alla suaTeodicea. Il suo opposto, la parola pessimismo lo conia il poeta romantico S. T. Coleridge nel 1795. Leibniz ha, invece, coniato la parola teodicea, presente nel titolo dell’opera del 1710 nella quale riprende, in età matura, il tema che l’ha interessato fin da giovane: la difesa di Dio dall’accusa di aver creato un mondo con tanto male.


ANNO ACCADEMICO 2012-13 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 8 aprile 2013

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

La critica

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015