LUTERO E LA SCOLASTICA (B)

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I. LUTERO E LA SCOLASTICA (B) (A)

a) Humilitas cristiana

L'idea di patto unilaterale avanzata da Lutero (definibile, si è visto, anche come un patto monopleurico) non comportava più, come si è detto, alcuna opera né alcun merito da parte dell'uomo, ed era quindi libera da qualsiasi condizione necessitante nella scelta di coloro a cui doveva essere impartita la salvezza.

Il patto era per questo non tanto una legge data da Dio agli uomini, quanto piuttosto una decisione che il Creatore aveva preso con se stesso.

Unica condizione posta per la salvezza dell'uomo era la fede, ovvero l'adesione al patto divino. Essa implicava che si credesse nel patto o nella promessa fatta da Dio.

A questo proposito, Lutero citava i passi biblici in cui veniva messo in risalto il valore della fede per la salvezza - oltre alla semplice affermazione secondo cui, se Dio fa una promessa, "non ci si accosta ad essa né con le opere, né con le proprie forze, né per merito alcuno, ma per mezzo della sola fede"(1): la fede era quindi, come tale, fede nella promessa divina.

Attraverso l'analisi del processo che sfocia nella fede si può dunque comprendere appieno il significato dell'humilitas nella teologia di Lutero, all'interno della quale tale concetto ha un ruolo preponderante.

Il significato dell'umiltà nel contesto della fede risiedeva nel fatto che, attraverso essa, l'uomo prendeva atto della propria condizione di limitatezza, e perciò anche del bisogno del soccorso divino.

L'humilitas comportava il riconoscimento del proprio stato intrascendibile di peccato, e poneva così le basi per quel volgersi extra nos che era alla base dell'incontro con Cristo (incontro nel quale consisteva appunto il volgersi dell'uomo verso la trascendenza divina).

Scriveva ancora Lutero, nel suo ultimo appunto a mano: "Siamo mendicanti. Questa è la verità."(2), intendendo in questo modo sottolineare l'inadeguatezza degli uomini davanti a Dio, e con ciò porre in cattiva luce i molteplici sforzi e tentativi fatti da questi, per interpretare il divino. Nella sua concezione, infatti, la natura di Dio era tale che maggiore era la presunzione di comprenderla e minore era l'effettiva capacità di farlo.

Seguendo la lezione dei Salmi, in cui è scritto: Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam, egli affermava dunque la necessità dell'umiltà di fronte a Dio, facendone il principio più profondo (come si vedrà) della propria teologia.

La sua opera infatti è interpretabile sin dagli inizi, con i Commenti ai Salmi e con le 95 tesi, come una predica in favore dell'umiltà dell'uomo coram Deo: in quanto essa è la condizione stessa della presenza della fede nell'uomo.

Nelle 95 tesi per esempio, a proposito dell'umiltà cristiana, Lutero scriveva: "1) Il signore Gesù dicendo: 'Fate penitenza' [Mt 4,17] volle che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza": mostrando così la centralità del valore della penitenza, o dell'umiltà, nella propria teologia.

E più avanti, nel punto 62, scriveva: "Vero tesoro della chiesa è il sacrosanto Vangelo della gloria e della grazia di Dio", e nel 63: "Ma questo tesoro è a ragione [leggi: per la ragione umana] odiosissimo perché dei primi fa gli ultimi": mostrando così con molta chiarezza la natura paradossale della fede, la quale - rovesciando i valori mondani - comportava il rifiuto consapevole della legge della sopraffazione del più debole, e della condizione naturale di peccato.

Già nelle 95 tesi del 1517, dunque, il discorso di Lutero (sebbene egli non fosse ancora giunto alla propria maturità teologica, e dipendesse quindi in molti aspetti del suo pensiero dalla teologia cattolica) voleva colpire e sradicare, attraverso la lotta contro la pratica delle indulgenze, la tendenza molto diffusa a sottovalutare gli aspetti spirituali e penitenziali della religiosità cristiana, mirando così a riaffermare il valore della contrizione o dell'humilitas.(3)

Ma il tema della condizione corrotta dell'uomo era presente già nella tradizione medievale, nella quale veniva espresso metaforicamente da termini come cloaca, stercus, latrina, contrapposti di solito a termini designanti l'evoluzione spirituale dell'uomo (attraverso cui questi si allontanava dallo stato di corruzione, e si elevava verso Dio).

Lutero riprendeva questi termini, ma conferiva loro un significato molto differente da quello che ricoprivano nella tradizione teologica medievale.

Se infatti in tale tradizione essi indicavano ciò da cui l'uomo desiderava e doveva (attraverso la fede e le opere) tentare di allontanarsi - nella concezione di Lutero, al contrario, essi designavano la condizione a cui l'uomo non poteva sfuggire, e alla quale era ancorata la sua esistenza.

Da un significato interamente negativo, quindi, tali termini acquistavano per lui un significato parzialmente positivo, dal momento che, indicando all'uomo la sua reale condizione, essi preparavano contemporaneamente il processo di rigenerazione attraverso la fede.
Scrive a riguardo Lutero nel Servo arbitrio: "Queste dottrine [sulla fede] sono dunque divulgate a favore degli eletti, affinché, così umiliati e ridotti a nulla, essi siano salvati. Tutti gli altri [leggi: la Chiesa romana] si oppongono a questa umiliazione, anzi condannano che venga insegnata questa mancanza di speranza in se stessi, vogliono che sia lasciato loro qualcosa, anche se poco, che possano compiere da soli".(4)

E' chiaro da questo passo come l'humilitas non venisse da lui intesa come la condizione preparatoria in vista della grazia, ma al contrario - lo si è già detto - come lo stato costante dell'uomo nella fede.

L'uomo non avrebbe infatti potuto avere fede in Dio senza la consapevolezza della propria finitudine, cessata la quale anche l'aspirazione alla salvezza (e perciò la salvezza stessa) sarebbe inevitabilmente venire a mancargli.

Dunque, se nell'antropologia scolastica la cloaca, "fungendo da contraltare del fondo dell'anima, era il luogo in cui si annidavano il diavolo e il peccato, per Lutero essa diventa invece il luogo dell'avvento di Cristo".(5)

b) L'idea centrale della teologia luterana: simul iustus et peccator

Questa concezione, che faceva del riconoscimento del proprio stato di peccato un momento positivo nel cammino verso la salvezza, si può comprendere tuttavia solo alla luce del pensiero (proprio di Lutero) del duplex peccatum.

Secondo un tale pensiero chi, volendo giudicare se stesso, affermava di essere senza colpa, raddoppiava la sua colpa. Ed è per questo che l'azione salvifica di Dio iniziava col ricondurre il peccatore in stercus, e col mostrarne così l'umiliazione.

Per Lutero dunque la salvezza era ottenuta proprio dal disperare nella propria salvezza, e l'aspirazione verso Dio e verso la santità si ancorava sempre alla consapevolezza dello stato di peccato. Non a caso il principio riconosciuto della teologia luterana si può indicare, come si è già detto, con la formula: simul iustus et peccator.

L'idea che il peccato e la salvezza nell'uomo procedessero paralleli era, infatti, ciò che separava la teologia protestante da quella cattolica: quantomeno di quel periodo. Sostenendo che non fosse l'uomo a dover agire in direzione della salvezza, ma che suo compito fosse piuttosto di prendere atto del proprio stato di corruzione, il riformatore finiva per ricongiungere - differenziandosi quindi dalla teologia cattolica - i due temi della salvezza e della dannazione, che precedentemente erano stati considerati antitetici.

Tra le tantissime affermazioni fatte da Lutero a proposito di quest'idea, data la centralità di essa nel suo sistema, possiamo ad esempio citare un discorso a tavola del 1531, riportato dai suoi studenti, in cui si legge: "la più grande tentazione di Satana è quando dice: 'Dio odia il peccatore (...)'. Bisogna semplicemente negare la premessa maggiore: che è un fatto che Dio odi i peccatori. (...) se Dio odiasse i peccatori non avrebbe mandato suo Figlio per loro. Odia soltanto quelli che non vogliono essere giustificati, coloro cioè che non vogliono essere peccatori [leggi: i superbi]. (...) Ed ogni cristiano rifletterà che senza le tentazioni, non può conoscere Cristo." O ancora: "Dunque quando vediamo i nostri peccati, non abbiamo ragione di temere, bensì ne hanno quelli che non li vedono; quelli sì che hanno ragione di temere".(6)

La spiritualità di Lutero quindi, ruotava in modo essenziale - come si può capire da questi passi - attorno all'idea della compresenza o della simultaneità nell'uomo del bene e del male. E ciò dal momento che - come si è precedentemente dimostrato - il fondamento filosofico della sua teologia sosteneva che solo il riconoscimento da parte del soggetto della propria limitatezza, e quindi della propria assoluta distanza da Dio, solo una posizione così radicale avrebbe posto realmente il presupposto dell'incontro del fedele con Dio (ovviamente nei limiti delle possibilità umane, cioè attraverso la fede).

L'impostazione appena descritta si poneva in netta antitesi rispetto alla tendenza del cattolicesimo dell'epoca, che affermava invece il ruolo soltanto preparatorio dell'humilitas per il conseguimento della salvezza.

L'umiltà, in tale visione, fungeva infatti da stimolo per il soggetto, affinché egli ponesse in atto tutti gli sforzi possibili alla sua natura al fine di superare (attraverso le opere) la condizione di peccato in cui si trovava. E anche se, alla fine, il superamento vero e proprio era dovuto alla magnanimità di Dio, che concedeva attraverso la grazia la liberazione dal peso del peccato (secondo la famosa teoria del patto sostenuta, tra gli altri, da Gabriel Biel (7)), tale liberazione dipendeva comunque in primo luogo dagli sforzi liberamente sostenuti dal soggetto: cioè dai suoi meriti personali .

Mentre dunque la teologia luterana poneva una assoluta distanza tra Dio ed uomo, quella cattolica viceversa vedeva nella buona volontà (ossia in quella che essa definiva 'umiltà') lo strumento attraverso cui l'uomo poteva riconquistare liberamente la fiducia e l'amore di Dio.

La contrapposizione tra una visione rigidamente teocentrica, che faceva di Dio implicitamente l'autore di ogni cosa (compresa la salvezza umana), si scontrava così con una visione 'umanistica', i cui sostenitori - come diceva Lutero - desideravano che all'uomo fosse concessa una naturale attitudine verso il bene e la salvezza (8).

Da questo punto di vista si può affermare che la concezione del duplex peccatum fu la manifestazione di un rinato fervore religioso, ossia di una fede profonda nella bontà del Creatore.

c) Le due teologie

Ma le differenti impostazioni che abbiamo appena descritto, si ponevano alla base anche di un'altra contrapposizione: quella tra teologia della gloria e teologia dell'humilitas. La prima si inverava nella tradizione cattolica scolastica, l'altra invece nella visione evangelica di Lutero.

L'origine di questa dicotomia stava secondo quest'ultimo nel fatto che, mentre la prima teologia "scorgeva nell'universo ordinato alla gloria di Dio un segno efficace della gloriosa partecipazione umana a quel disegno ideale"(9); l'altra viceversa non si richiamava all'idea di una partecipazione attiva da parte dell'uomo al disegno divino, ma si fondava piuttosto sul presupposto di una sottomissione totale, da parte dell'individuo, alla volontà di Dio.

Questo secondo tipo di teologia infatti, negava all'uomo qualsiasi capacità di penetrare (anche cognitivamente) il mistero della maestà divina, ponendo in primo piano le componenti affettive ed alogiche della fede - in contrasto con l'impostazione razionalistica scolastica.

L'importanza di questo tema per il riformatore, risalta chiaramente attraverso la considerazione del fatto che la lotta contro la teologia della gloria rimase costante (a partire già dagli scritti giovanili) nel corso di tutta la sua vita.(10)

A proposito della falsa teologia scolastica, si legge nella Cattività babilonese, laddove viene trattato il tema dell'eucaristia: "segui i ragionamenti del nostro abilissimo dialettico, per il quale il comandamento di Cristo e l'arbitrio della Chiesa sono la stessa cosa (...); costui dimostra così in modo geniale come ai laici si debba concedere la comunione sotto una specie per precetto di Cristo: cioè per decisione della Chiesa".(11)

Risulta allora chiaro, come Lutero considerasse fuorvianti tutti gli atteggiamenti speculativi e raziocinanti in materia religiosa. Anziché fornire una vera comprensione della Scrittura, l'impiego della ragione umana ne deformava il messaggio profondo, portando inoltre gli interessi dell'istituto ecclesiastico a 'coincidere' con il messaggio biblico.

La ragione dunque, che era stata il 'cavallo di battaglia' della cultura scolastica (all'inizio - come si sa - solo ad integrazione della fede, e successivamente anche come suo sostegno) viene bollata da Lutero, in materia di religione, come empia e come frutto della superbia umana.

Scriveva difatti poco più avanti, sempre nella Cattività babilonese, che Alveld (il teologo contro il quale stava sostenendo la disputa) "è un teologo seguace di Anassagora, anzi di Aristotele, per il quale nomi e parole tolti di posto e collocati altrove significano sempre la stessa cosa, anzi: qualsiasi cosa !"(12)

In ambito teologico, dunque, la ragione (rappresentata in questo passo, chiaramente, da Aristotele e da Anassagora) si contrapponeva all'umiltà - così come l'umiltà, sempre in ambito di fede, veniva identificata con l'opposto della ratio: ovvero col sentimento. E ciò dal momento che la ragione offuscava la chiarezza del messaggio delle Scritture (13).

La teologia dell'humilitas allora, rimandava ad una conoscenza di Dio di natura emozionale, basata essenzialmente su un'esperienza del tutto personale e irripetibile, che spesso non escludeva passioni laceranti (14).

Veniva così messo nuovamente in primo piano, in ambito religioso, il valore originario della spontaneità e della semplicità della fede (attraverso la sua natura sentimentale); e veniva contemporaneamente superata una rigida impostazione razionalistica, che tendeva ad avvicinare l'uomo a Dio anche su di un piano conoscitivo (appunto con la theologia gloriae).

In questo senso, d'accordo con quanto sostiene Roland Bainton a proposito delle intenzioni che muovevano Lutero, credo si possa dire che la teologia del riformatore tentò di riportare alla luce l'originaria semplicità della spiritualità cristiana: cioè di tornare a quella visione della fede che era stata propria della Chiesa delle origini (15).

Emerge inoltre come, attraverso la valorizzazione dei temi del sentimento e dell'interiorità nella fede cristiana, Lutero avesse posto l'accento sulla passività dell'uomo di fronte a Dio, e come l'atteggiamento semi-pelagiano (che per Lutero, vista la sua indole intransigente, equivaleva a pelagiano) della chiesa cattolica fosse in realtà l'obbiettivo di fondo della critica impietosa del riformatore.

d) "gemitus" ed "extra nos"

Il discorso di Lutero dunque si poneva, nei suoi aspetti più profondi, come un tentativo di riaffermare l'idea della trascendenza assoluta di Dio. Difatti il concetto che stava alla base di tutta la sua teologia, era che nell'esistenza terrena dell'uomo vi fosse da una parte un assoluto bisogno della presenza divina, e dall'altra una profonda mancanza di essa (data la condizione di peccato in cui l'uomo si trovava a vivere).

Rimaneva quindi, in quest'ottica, un vuoto incolmabile di cui solo alcuni, cioè i credenti, si rendevano conto. Questa consapevolezza era per l'appunto l'humilitas o il sentirsi in stercore, che produceva invariabilmente la disperazione o il gemitus, ovvero il desiderio inappagato del divino.

E' interessante vedere come per Lutero questo gemito, cioè questo grido di dolore dell'anima, fosse già una prima forma di conoscenza solo negativa di Dio (si pensi alla tradizione della teologia negativa dell'Aeropagita, che aveva influenzato Lutero).

Il concetto di gemitus, nella teologia di Lutero, era dunque molto vicino a quello che già abbiamo visto analizzando l'humilitas: ovvero alla radicale proclamazione della propria miseria, che preparava la ricerca della verità e della giustizia fuori da noi stessi: il rivolgersi a ciò che è al di fuori di noi (extra nos) per affidarsi a questo principio esterno.

Il gemitus tuttavia non indicava il nostro uscire da noi stessi attraverso l'invocazione della trascendenza divina: quest'idea infatti non rimandava tanto a quella di una fede conquistata attraverso la disperazione, quanto piuttosto a quella di una fede ricevuta attraverso di essa.

In altri termini, l'atto di credere non era il prodotto di una nostra libera intuizione (come per esempio: "se Dio non è in me, allora posso trovarlo solo fuori da me stesso") bensì della stessa misericordia divina, che veniva in nostro soccorso proprio e soltanto nel momento della più profonda disperazione, quando cioè l'individuo aveva ormai perduto del tutto la speranza nell'incontro con Dio ("In primo luogo, Dio ha di certo promesso la sua grazia agli umili, cioè a coloro che si ritengono perduti e disperati [I Pie. 5], l'uomo d'altra parte non può umiliarsi completamente finché non sa che la sua salvezza è del tutto al di fuori delle sue forze (...), ma dipende interamente dall'arbitrio, dalla decisione, dalla volontà, e dall'opera di un altro, e precisamente di Dio soltanto. Questo perché, fin quando è convinto di poter dare anche il più piccolo contributo alla propria salvezza, l'uomo (...) non dispera interamente di se stesso; pertanto non si umilia di fronte a Dio (...)"(16): passo da cui emerge come solo la disperazione assoluta, ovvero il gemitus, induca Dio a donare la sua grazia all'uomo).

Anche il termine gemitus (come quello di humilitas, di cloaca, e come altri ancora) era in uso già da tempo presso i teologi occidentali. Lutero tuttavia ne mutò il significato, in modo tale che esso si inserisse come una parte della sua originale visione teologica.

Per formarsi un'idea della trasformazione che egli apportò a un tale concetto, può essere utile (sulla base delle ricerche svolte da H. A. Oberman, il quale porta l'esempio di un teologo di quegli anni: un certo Schatzgeyer (17)) confrontare l'uso che di quello stesso termine facevano i teologi cattolici, con quello che adottò invece il riformatore.

Secondo il giudizio di Oberman, il concetto di gemitus si ricollegava nella concezione tradizionale ad un'altra idea della filosofia medievale: quella di synderesis(17bs).

I teologi cattolici infatti sostenevano che la sinderesi, in quanto abito incorrotto dell'anima, producesse appunto il gemitus: ovvero una lamentazione dello stato di decadenza e di perdizione che era proprio dell'anima: essi sostenevano che, a causa di tali gemiti, Dio decidesse d'intercedere in favore degli uomini (soltanto di coloro, però, che prima si fossero volti liberamente e volontariamente ad ascoltare i 'gemiti inenarrabili' prodotti dalla 'scintilla' della propria coscienza).

Questo concetto quindi, all'interno della teologia cattolica, era connesso all'idea che nella natura umana fossero presenti sia una certa libertà d'arbitrio, sia qualcosa di assolutamente incorrotto (una 'scintilla', ovvero una retta volontà). Tale era, appunto, la concezione ottimistica della fede contro la quale si scagliava Lutero.

La posizione di quest'ultimo, difatti, non vedeva tanto nel gemitus un'espressione a livello emozionale della synderesis, ma piuttosto il segno della debolezza dell'essere dell'uomo, e quindi quello della sua dipendenza da Dio.

Il gemito non era, in tale visione, la base per un possibile sforzo della parte incorrotta dell'anima umana per raggiungere Dio, bensì una lamentazione dello stato di decadimento terreno che era proprio dell'anima come tale.

Il concetto di gemitus non aveva perciò, secondo Lutero, un valore positivo, né era di per sé l'inizio di una purgatio libera e volontaria dell'uomo peccatore: esso era visto al contrario come un ricadere di questi nella propria reale condizione di peccato. Tale concetto non rinviava ad alcuna idea di salvezza acquisita attraverso i meriti personali ma, all'opposto, a quella di un soccorso che non poteva che provenire dall'esterno del soggetto (ossia extra se).

Espressioni come gemitus, humilitas, extra nos rinviavano perciò, nel pensiero e nella dottrina di Lutero, alla prima fase di quel processo interno che portava l'uomo alla grazia e alla fiducia nel patto con Dio: rinviavano cioè a quel momento preparatorio nel quale l'uomo avvertiva il proprio stato di peccato e di lontananza da Dio (e da cui usciva attraverso il dono della grazia e della fede).

Se dunque il rapporto che Lutero stabiliva fra Dio ed uomo era segnato dall'assenza totale del primo nella dimensione umana (e anche però dal bisogno imprescindibile di tale presenza), questo bisogno era tuttavia soddisfatto in parte dalla presenza in essa del patto e della fede.

e) il ruolo di Cristo

Si è già visto come l'uomo non potesse in nessun modo conoscere il Dio trascendente (in quanto esso era totalmente oscuro), ma solo il Dio che si era fatto uomo: cioè incarnato e rivelato. Ciò avveniva appunto con la fede in Cristo, ossia nel figlio rivelato del Vangelo.

Cristo era dunque il Dio conosciuto ai fedeli, e conosciuto non solo come una presenza esterna all'io ma anche misticamente, in modo che "Cristo e l'anima divengono un corpo solo, uniti nella buona come nella mala sorte e in tutte le cose, e ciò che Cristo possiede diviene proprio anche dell'anima credente, e ciò che l'anima possiede diviene proprio di Cristo". (18)

Si può parlare infatti in quest'ottica di un matrimonio tra l'individuo e Cristo, cioè del superamento di una precedente separazione, in cui consiste la fede dell'uomo.

La ricerca del Padre allora, che tormentava tanto l'uomo prima di ricevere la fede, passava in questo momento successivo in secondo piano.

Cristo difatti rigenerava l'uomo e lo avvicinava (per quanto era possibile in questa vita) al Padre celeste, di modo che: "Cristo ha tutte le beatitudini ed i beni, ed essi divengono propri dell'anima", mentre "l'anima ha tutti i vizi e i peccati su di sé, ed essi divengono propri di Cristo. Principia in tal modo l'amoroso baratto e la lieta disputa".(19) Se Cristo era presente, il peccato dell'uomo se ne andava, nel senso che veniva preso sulle spalle di Cristo che se ne assumeva il peso.

La differenza di tale discorso, rispetto alla teologia cattolica, stava quindi nel diverso rapporto fra l'uomo e Cristo: e quindi anche tra l'uomo e Dio.

Per la Chiesa romana, il compito dell'individuo era quello di giungere a Dio attraverso la Chiesa, che rappresentava il Cristo in terra. Per mezzo della Chiesa e dei suoi precetti dottrinali (ovvero di quelle che Lutero chiamava le buone opere: pellegrinaggi, messe, indulgenze, ecc.), l'individuo doveva infatti guadagnare la grazia divina e la salvezza eterna. Questo discorso però implicava che l'uomo potesse influenzare la scelta dello stesso Dio trascendente, dal momento che quest'ultimo era il vero dispensatore della grazia agli uomini. I meriti quindi erano ciò con cui il fedele superava Cristo attraverso Cristo stesso, guadagnando così la certezza della grazia divina.

Questa prospettiva si rovesciava in Lutero, secondo il quale non era data assolutamente all'individuo, almeno in questa vita, una tale certezza del ricongiungersi o del riposare (nella prossima) in Dio. Egli doveva fermarsi, nel suo itinerario spirituale verso il Principio del tutto, alla sola manifestazione terrena di questa realtà originaria: il fedele non poteva quindi ottenere la certezza della salvezza eterna e della grazia divina, ma solo sperare e credere di riceverla.

Non gli era dato, in altre parole, di possedere la certezza (per quanto relativa essa dovesse essere considerata) d'aver ottenuto da Dio, attraverso le opere, la gloria celeste. Egli poteva, di conseguenza, soltanto aver fede nel patto o nella promessa divina: ovvero in Cristo (e non a caso il riformatore citava spesso nei suoi scritti il versetto biblico: "Il giusto vivrà della sua sola fede": S. Paolo, Ad Rom).

La fede dei cattolici stava a indicare 'le buone opere' (i rituali della salvezza), che sempre di più, quantomeno nella visione corrente, tendevano a dare la garanzia agli uomini della salvezza eterna; mentre la fede luterana, con una radicale inversione di rotta, riportava l'idea del 'credere' ad un significato più letterale.

Il credere consisteva per essa soltanto nella speranza che quest'unione con Dio si sarebbe realizzata in futuro secondo la promessa - anche se, essendo ovviamente Dio non menzognero, la promessa da lui fatta ai fedeli non avrebbe potuto essere smentita dai fatti oltreterreni.

Rimaneva, tuttavia, il dato fondamentale che Cristo non veniva più inteso in questa visione come un 'mezzo' per l'uomo onde risalire già in questa vita fino al Padre, poiché il Figlio incarnato (ossia il Verbo rivelato) era l'unica realtà di Dio con all'uomo era dato di confrontarsi nella condizione carnale.

Tutto ciò veniva ribadito spesso dal riformatore nelle sue opere, e soprattutto nel Servo Arbitrio (scritto in cui egli aveva trattato approfonditamente il suo punto di vista teologico). In esso, ad esempio, si legge: "Ora, noi dobbiamo guardare alla sua [di Dio] parola e lasciar perdere la sua volontà imperscrutabile. (...) Ci basta sapere che esiste in Dio una certa volontà imperscrutabile. Che cosa, perché e fin dove essa voglia, questo non è per nulla lecito chiederlo (...); dobbiamo solamente temerla e adorarla."(20)

Cristo era dunque, per Lutero, il segno (attraverso la fede) della presenza di Dio nell'uomo: di una presenza, inoltre, che pur manifestandosi anche esteriormente (attraverso le azioni) era prima di tutto interiore: era infatti solo la fede interiore in Cristo a poter fondare la salvezza individuale (come scriveva l'apostolo Paolo: "E' solo la fede del cuore che ci fa giusti e pii", Ad Rom.)

Inoltre, se il rapporto del fedele col Cristo rivelato non era più un rapporto 'strumentale', per il quale quest'ultimo era colui che dava la garanzia già in questa vita della salvezza futura, l'unione mistica diveniva in quest'ottica una prima forma terrena di salvezza (e ciononostante l'uomo restava peccatore, destinato come tale alla punizione divina).

L'ultima osservazione che vorrei fare riguardo al tema della fede nella teologia luterana, è il fatto che ogni elemento estraneo ad essa (ovvero al matrimonio tra Cristo ed uomo) venisse rigidamente escluso da questo rapporto.(21)

Questa unione mistica, perciò, escludeva per poter esistere qualsiasi interferenza dall'esterno (intendo, chiaramente, le opere ed i meriti ottenuti attraverso la devozione per Cristo), e si collocava quindi totalmente all'interno della coscienza individuale.

La religione diveniva così un fatto puramente interiore e spirituale: un rapporto con l'invisibile, come scriveva Wilhem Dilthey.

I meriti o le buone opere, infine, riapparivano come un prodotto della fede: una manifestazione necessaria e inevitabile di essa fuori dell'uomo.

Note

1 M. Lutero, La cattività babilonese, in: Opere politiche, ed. cit., p.255: si tratta della parte sulla messa, che continua subito dopo dicendo: "Dove c'è la parola di Dio che promette è necessaria la fede dell'uomo che accetta; è chiaro che la salvezza dell'anima dipende dalla fede con cui ci si accosta alla parola di Dio, il quale, prescindendo da ogni nostro merito, con misericordia del tutto gratuita e immeritata, ci viene incontro offrendoci la parola della sua promessa".

2 WAT 5,318, 2sg.; n. 5677 (citato in: H. A. Oberman, op. cit., cap. IV, par.1, p.88).

3 Giuseppe Alberigo, La riforma protestante (origini e cause), Brescia, Queriniana 1977, p.47 ss.

4 Martin Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.120.

5 H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., cap. IV, par. 2, p.99.

6 M. Lutero, Discorsi a tavola, Torino, Einaudi 1969, trascrizioni di Veit Dietrich, pp.34-35.

7 Cfr. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., cap. IV, par. 3, p.102.

8 Cfr. M. Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.120.

9 Francesca Cantù, Ich bin hindurich. Orientamenti e problemi della ricerca contemporanea su Lutero, in: Storia e politica: rivista trimestrale, Milano, A. Giuffrè 1962, AnnoXXII, fasc. IV, 1984.

10 A proposito del periodo in cui Lutero iniziò la sua lotta contro la teologia romana, scrive Francesca Cantù (nel suo articolo Ich bin hindurch, p.757) che, secondo alcuni studiosi, quello della teologia crucis, o 'antispeculativa', è il tema sotto il cui riflesso il riformatore avviò la battaglia contro le indulgenze nelle 95 tesi.
Riguardo alle lezioni sui Salmi, invece, la stessa autrice scrive che molti studiosi fanno risalire la scoperta teologica di Lutero del sola fide (e quindi anche l'opposizione alla teologia romana e cattolica) agli anni dal 1513 al 1515: quelli delle lezioni sui Salmi, appunto.
Infine, sempre in merito all'inizio della lotta contro la teologia romana - e più precisamente sulla presenza del valore dell'humilitas già nella prima lezione sui Salmi -, rinvio al 1° punto del 3° paragrafo.

11 M. Lutero, Cattività babilonese, in: Opere politiche, ed. cit., p.230.

12 Ivi, p.232.

13 Il tema della contrapposizione tra la fede e la ragione - quali mezzi di comprensione del testo sacro - è presente in tutte le opere di Lutero e in special modo nel Servo Arbitrio, in cui esso gode di una centralità quasi assoluta.
Ne sono esempi i seguenti passi: "(...) Pietro nel capitolo 1 della sua seconda epistola dice: 'Abbiamo pure la parola profetica, più ferma, alla quale fate bene a prestare attenzione, come a una lampada splendente nel giorno più oscuro' [II Pie. 1,19]. Qui Pietro fa della Parola di Dio una lampada splendente e di tutto il resto tenebre. E noi invece da questa parola vogliamo produrre oscurità e tenebre? (Lutero scrive qui in riferimento ad Erasmo)"; e in un altro punto dice: "Tutti gli articoli di fede dei cristiani devono infatti essere non solo certi di una certezza assoluta, ma anche fondati sui passi della Scrittura (che sono) così evidenti e chiari da tappare la bocca a tutti gli avversari (...)" (Servo arbitrio, ed. cit., p.163 e p.167)
Il motivo, infine, per il quale la Scrittura appare oscura all'uomo naturale, sta nel fatto che il "libero arbitrio - o meglio il cuore umano - è talmente oppresso [dal peccato] (...), che se l'uomo non viene ridestato dallo Spirito Santo di Dio, con le sue sole forze non è in grado né di vedere né di intendere ciò che gli sta davanti agli occhi [leggi: la chiarezza delle Scritture]" (ivi, p.172).

14 Scrive F. Cantù, op. cit., pp.747-748, che non si può comprendere la figura di Lutero "se non a partire dal grande, movimentato edificio della sua teologia, dove per altro l'esaustività e la chiarezza della costruzione sistematica, lo straordinario corredo concettuale non di rado cedono il passo al tumulto dell'esperienza, al calore dei sentimenti, alla passionalità del temperamento."

15 Cfr. R. Bainton, La riforma protestante, Einaudi, Torino 1958, pp. 26-33.

16 Martin Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.120.

17 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., cap. III, par. 4, pp.81 ss.

17bs Vi sono molteplici sfumature di significato nel termine synderesis, anche se con esso in generale bisogna intendere quel che resta nell'uomo attuale della natura che gli era propria prima del peccato: quindi dell'impulso originario verso il bene.
Per definire il significato di questo termine, cfr. The Cambridge history of later medieval philosophy (edited by N. Kretzman, A. Kenny, J. Pinborg; Cambridge, Cambridge University Press 1982, pp.690-695), in cui si mostra la somiglianza di significato con il termine latino conscientia: entrambi infatti significano 'conoscere in comune con'. Tuttavia il termine synderesis acquista un significato distinto, dal momento che conscientia designa tra gli autori medievali la 'sinderesi' più il libero arbitrio. A riprova di questa idea, vengono citati alcuni brani di Filippo il Cancelliere in merito a questo problema. Egli sostiene che quod erat syndereos erat immutabile et non dictabat nisi bonum; sed illum coniunctum cum eo quod erat rationis dictabat peccatum. Sic ergo synderesis cum ratione liberi arbitrii facit conscientiam rectam vel erroneam; et conscientia se tenet ex partis rationis (...). La sinderesi guida dunque il libero arbitrio e la ragione solo se questi le danno la possibilità di farlo, tuttavia essa in se stessa non è mai in errore; e per tale ragione, essa viene definita dall'autore anche come un 'mormorio' costante dell'anima in opposizione al peccato (synderesis movet liberum arbitrium dictando bonum et cohibendo a malo, et movet in bonum commune qod invenitur in isto bono aut illo). La synderesis è allora la controparte dell'impulso dell'anima verso il peccato, una piccola 'luce' che guida l'uomo verso Dio (ne non esset ex toto ratio ad temporalia inclinata vel incurvata). In essa consiste la potenzialità originaria dell'anima verso ciò che è buono.

18 M. Lutero, La libertà, in: Opere politiche, ed. cit., p. 373.

19 Ibidem.

20 M. Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.227.

21 Non a caso Lutero parlava, in riferimento alla sua teologia, di theologia crucis, per designare la centralità del Cristo in essa. Anche la formula: Sola fide, solo Christo attesta la presenza di questa idea in Lutero. La nozione di fides Christi, quindi, rimanda all'idea secondo cui Cristo vive e opera nel credente sotto il segno della croce e lo rigenera totalmente.

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Aggiornamento: 26-04-2015