MARX: IL CAPITALE - I RAPPORTI STORICI TRA CAPITALE COMMERCIALE, USURAIO E INDUSTRIALE

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


I RAPPORTI STORICI TRA CAPITALE COMMERCIALE, USURAIO E INDUSTRIALE

I - II

(Marx, Il Capitale, Ed. Newton Compton, Roma 1976, III libro, cap. 36)

Premessa

Marx esordisce, nel cap. 36 del III libro del Capitale, dicendo che le forme antidiluviane del capitalismo sono il capitale commerciale e quello usuraio: in particolare senza il primo non ci sarebbe stato neppure il secondo. L'usuraio infatti è un tesaurizzatore di professione.

La presenza del capitale usuraio comporta due cose fondamentali: che "almeno una porzione dei prodotti venga convertita in merci" e "un certo sviluppo del denaro", una certa importanza attribuita all'uso del denaro. Ovunque esista un capitale commerciale, nessuno ha mai messo in dubbio la necessità di ricavare un interesse da un prestito finanziario.

In effetti, sono sempre esistite due forme di usura, che nella società schiavistica detenevano un ruolo molto importante e che invece sotto il capitalismo hanno un ruolo del tutto marginale: "l'usura tramite prestito di denari a grandi scialacquatori, soprattutto a proprietari terrieri" - ed è il caso praticato nel basso Medioevo; "l'usura tramite prestito di denaro a piccoli produttori, che mantengono nelle loro mani le condizioni del proprio lavoro [artigiano, contadino]". A queste forme si può aggiungere il prestito ai sovrani per le loro esigenze politiche o anche belliche.

Tutte queste forme di prestito non sono scomparse sotto il capitalismo, ma sono divenute forme subordinate di uso del denaro. A Marx, in particolare, non interessa far confronti etici sul modo di accettare o meno l'usura nell'evoluzione storica, ovvero di mostrare quando un prestito poteva essere considerato "usuraio" da rendere impossibile la restituzione dell'importo ricevuto, quanto piuttosto di far capire la differenza di priorità tra il capitale nel capitalismo e il capitale nel precapitalismo.

E a tale proposito scrive, significativamente: "Quanto tale processo [l'accumulo di grandi capitali usurai] faccia sparire il vecchio modo di produzione, come è accaduto nella moderna Europa [ma ciò vale anche per l'epoca schiavistica], e se faccia subentrare al suo posto il modo di produzione capitalistico, dipende completamente dal grado di sviluppo storico e dalle corrispondenti circostanze".

"Circostanze" che però Marx non ha mai individuato con precisione, proprio perché non erano economiche bensì culturali, connesse a una determinata concezione di vita. Infatti, a livello storico avrebbe dovuto essere del tutto naturale aspettarsi una transizione dall'economia schiavistica romana a quella capitalistica, visto che in quella schiavistica l'uso del denaro era molto più diffuso che nel corso del Medioevo. Perché questa transizione non avvenne? E perché nel Medioevo la ripresa del capitale commerciale e di quello usuraio si verificò anzitutto nell'Italia comunale?

Schiavismo

Marx afferma che "in tutte le forme in cui l'economia schiavistica... serve come mezzo d'arricchimento", lì esiste la possibilità che il denaro possa essere "valorizzato come capitale che rende interesse". Il periodo classico della Roma repubblicana e imperiale non si sottrasse a questa regola: infatti l'usura fu sempre tollerata, anche se si cercava di ridurre al minimo l'interesse annuale (entro il 4-5% sotto Traiano e Giustiniano).

Più in generale lo sviluppo del capitale usuraio cresceva col crescere della decadenza di quella civiltà (decadenza della fase repubblicana, che poi portò alla dittatura imperiale). E mentre questo capitale usuraio e quello per il commercio di denaro si svilupparono enormemente alla fine della repubblica, viceversa la manifattura si trovava "in condizioni assai inferiori allo sviluppo medio dell'antichità".

"Quando l'usura dei patrizi romani portò a un totale fallimento la plebe di Roma, cioè i piccoli contadini, questa forma di sfruttamento cessò e l'economia dei piccoli contadini dovette cedere il posto all'economia schiavistica vera e propria". I grandi proprietari fondiari si servirono dell'usura per spogliare dei loro beni i piccoli proprietari e anche per impadronirsi della loro persona.

Tuttavia, il capitale usuraio invece di sviluppare le forze produttive, le frenò, sicché l'economia schiavistica non fu un passo avanti rispetto a quella dei liberi artigiani e della piccola proprietà contadina, ma un passo indietro, che riuscì a sopravvivere - possiamo aggiungere - grazie alla continua espansione dell'impero o comunque grazie alla dittatura militare e alla corruzione politica.

L'usuraio distrugge l'economia tradizionale e riconverte nel peggio i capitali acquisiti. Divora tutto il plusvalore del piccolo produttore e senza reinvestirlo in una qualche attività produttiva. Se l'usura colpisce gli schiavisti o i latifondisti "il modo di produzione non cambia; solo si fa più pesante per chi lavora", cioè per lo schiavo o il servo della gleba.

Se il latifondista o lo schiavista non regge il peso dei debiti, può anche accadere che venga direttamente sostituito dall'usuraio, come nell'antica Roma fecero gli equites o cavalieri (ceto dei grandi commercianti, appaltatori e appunto usurai). "Al posto dei vecchi sfruttatori, il cui sfruttamento conservava un carattere in un certo senso patriarcale... subentrano nuovi ricchi, spietati e avidi di denaro", le cui funzioni di commercianti e appaltatori erano interdette all'aristocrazia senatoria. Il modo di produzione però resta lo stesso, anche in questo caso.

Per Marx insomma il paradosso sta in questo, che mentre in epoca romana il produttore era padrone dei propri mezzi e l'usura, facendolo diventare schiavo (a causa dei debiti), ne limitava anche la capacità produttiva; sotto il capitalismo invece lo schiavo salariato, pur ridotto così a causa dei propri debiti, contribuisce enormemente allo sviluppo della produzione.

"Solo allorché esistono anche le altre condizioni del modo di produzione capitalistico, l'usura rappresenta uno degli elementi che contribuiscono al sorgere del nuovo modo di produzione...". Marx tuttavia non spiega quali siano queste "altre condizioni". E' evidente infatti che lo sviluppo del macchinismo industriale fa parte, già di per sé, di una rivoluzione di mentalità.

"In tutti i modi di produzione precapitalistici, l'usuraio ha un effetto rivoluzionario solo in senso politico, in quanto distrugge e rovina le forme di proprietà sulla solidità della cui base, vale a dire la costante riproduzione nella medesima forma, poggia l'articolazione politica"(in Storia dell'economia politica, vol. III, Editori Riuniti 1993, p. 567). L'usuraio accumula, tesaurizza, ma non cambia il modo di produzione, se non peggiorandolo, cioè facendolo diventare schiavistico.

Infatti per cambiare questo modo di produzione occorre un rovesciamento di mentalità, di cui il mondo greco-romano non è stato capace: da schiavi in senso fisico (per debiti, per cause militari ecc.), il contadino, l'artigiano, il piccolo mercante diventeranno sotto il capitalismo schiavi in senso economico, in quanto giuridicamente verrà riconosciuta loro una personalità e quindi il diritto alla libertà.

Dunque il capitalismo non può nascere senza cristianesimo e in particolare non può nascere se non quando si è in presenza di una crisi strutturale di questa religione, tale per cui si possa continuare a parlare di libertà in sede teorica, mentre sul piano pratico si favorisce il suo contrario, la schiavitù, che questa volta è però salariata, cioè mediata dalla libertà formale e quindi da un formale contratto.

Feudalesimo

Marx cerca di trovare nel Medioevo le "altre condizioni" che favoriscono il passaggio dal capitale commerciale-usuraio a quello industriale, perché evidentemente non può trovarle nel modo di produzione antico (schiavistico o asiatico).

E fa alcune affermazioni apparentemente contraddittorie. "Nel Medioevo non esisteva in nessun paese un saggio generale dell'interesse. La chiesa proibiva a priori una qualunque forma di interesse. Leggi e tribunali proteggevano assai poco i prestiti". I divieti erano concentrati sull'idea di poter sfruttare il tempo per ottenere interessi senza lavorare.

Esisteva tuttavia l'usura, anzi proprio questi divieti facevano sì che il saggio d'interesse (privato) fosse particolarmente alto, al punto che era proprio il saggio usuraio dell'interesse a regolare il saggio di profitto del mercante, tanto più che il traffico commerciale e bancario erano molto ridotti. Anzi, ad un certo punto le università cattoliche ritennero "legittimo l'interesse per i prestiti commerciali".

Tali apparenti contraddizioni sono dovute al fatto che Marx non fa quasi mai differenza tra "alto Medioevo" (che per lui assomiglia troppo all'economia schiavistica perché meriti d'essere preso in considerazione) e "basso Medioevo", dove l'economia effettivamente passa da un livello semi-borghese, quando si riaprono i commerci con l'oriente, una volta conclusa l'ondata espansiva musulmana, a un livello di capitalismo commerciale e per molti versi anche manifatturiero (specie nell'Italia comunale e delle città marinare, ma anche nei territori delle Fiandre).

Nell'alto Medioevo l'usura era un retaggio del sistema schiavistico. Là dove domina il valore d'uso e l'autoconsumo l'usura ha ben poco senso. Può averne solo per i grandi proprietari fondiari che vogliono godersi la vita in maniera esagerata, ma questo è già un atteggiamento condizionato dalla mentalità borghese, non nel senso che i borghesi fossero scialacquatori, ma nel senso che le ricchezze da loro introdotte nella società portavano i ceti politicamente egemoni (quelli fondiari) a esibire ancora di più la loro ricchezza, i loro poteri.

Viceversa nell'alto Medioevo, una volta appagata l'esigenza di potere con la conquista delle terre e la soggezione dei contadini, non accadeva mai che le classi nobiliari si trasformassero, autonomamente, in agenti interessati a uscire dall'economia naturale. Era troppo forte la sfiducia che si aveva nelle attività mercantili, ritenute per definizione "disoneste".

Non può pertanto essere sufficiente sostenere che il capitalismo sia nato, sul piano etico, perché ci si voleva opporre al dissanguamento dell'economia provocato da un'usura dilagante. E' vero che le banche sono nate per prestare soldi ai ricchi, con interessi inferiori a quelli usurai, ma questo atteggiamento faceva già parte di una mentalità capitalistica consolidata. Il denaro prestato infatti doveva servire per produrre plusvalore. Da dove dunque viene questa mentalità?

Marx avrebbe dovuto analizzare in profondità i nessi tra economia e cultura feudale. Egli p.es. non dice nulla del fatto che per secoli la corte pontificia venne finanziata dalla vendita "a tariffe" delle indulgenze. Nel Cinquecento le lettere di indulgenza avevano assunto la caratteristica di moneta vera e propria, spendibile ovunque. Che cos'era questo se non un modo di fare usura speculando sulla credulità delle masse? Non era anche questo un modo di sfruttare il tempo, seppur quello dell'aldilà? Il credente qui non chiede denaro ma perdono, remissione di colpe, per sé o per i suoi parenti, ed è disposto a pagare una certa somma di denaro o a compiere determinate azioni di devozione, utili anch'esse ad aumentare il prestigio della chiesa romana, la quale si serviva del proprio potere politico per estorcere i risparmi di larghe masse popolari. Un favore concesso all'anima pagato materialmente.

Ma vediamo meglio se Marx dà una definizione di usura in rapporto all'epoca feudale. A p. 809 del III libro del Capitale cita i dati di K. D. Hüllman (1765-1846), riportati in Storia delle città nel Medioevo (1826). Sono tutti relativi ai tempi di Carlo Magno (in cui era considerato usuraio un tasso del 100%) e arrivano sino al XIV sec. Gli usurai generalmente erano gli ebrei, esclusi dagli uffici pubblici, e le disposizioni non si riferivano ai cristiani, per i quali era vietato un qualunque prestito che prevedesse un interesse (almeno sino a quando non compariranno i monti di pietà, anticamera delle banche).

Un freno alla piaga dell'usura verrà offerto dal moderno sistema creditizio, ma in questo caso - dice giustamente Marx - si è già in presenza del sistema capitalistico. Sicché l'unico freno "medievale" all'usura saranno i montes pietatis, che però venivano incontro non ai produttori ma ai consumatori. E in tal senso tali istituzioni pubbliche si configuravano come una forma di strozzinaggio legalizzato per i più poveri, per quanto a tassi inferiori a quelli privati. Marx qui è sarcastico: essi sono l'esempio più eloquente di come delle pie intenzioni si possano trasformare nel loro opposto appena vengono applicate.

Altri freni potevano essere le requisitorie etico-religiose di taluni personaggi del clero. Sono famosi nella storiografia medievale quei mercanti pentiti divenuti santi, come Godrich von Finchale, Omobono da Cremona, Giovanni Colombini... Da notare, peraltro, che l'idea di purgatorio, strettamente connessa a quella di indulgenza, nasce proprio da determinate premesse mercantili: il borghese può risparmiarsi l'inferno se, di tanto in tanto, compie opere di bene (lasciti, donazioni, testamenti a favore di situazioni di bisogno, ecc.).

E bisogna sottolineare anche un'altra cosa: gli ideali del predicatore urbano (appartenente a uno dei maggiori ordini mendicanti) erano completamente diversi da quelli monastico-rurali dell'alto Medioevo. Gli ordini cosiddetti "pauperistici", pur essendo nati contro la borghesia, finiscono col giustificarne l'operato, trovandole quelle motivazioni utili per continuare a svolgere loschi affari senza per questo smettere di sentirsi cristiana.

L'illusione generale di quel periodo fu quella di credere di poter ovviare ai pericoli del capitale usuraio senza rinunciare a quello commerciale. Responsabile principale di questa illusione fu la chiesa romana, che nei suoi vertici, a partire dal processo dell'urbanizzazione, dalla riscoperta universitaria dell'aristotelismo e dal fenomeno delle crociate, cominciò a tollerare ampiamente la trasformazione dell'economia naturale in economia mercantile, che a livello di politica estera si esprimeva secondo i canoni del colonialismo.

Il commercio venne ammesso a condizione che tutti rispettassero le stratificazioni sociali precostituite, le gerarchie tra i ceti. La chiesa romana tendeva a escludere a priori che i mercanti potessero servirsi della loro ricchezza per rivendicare un potere politico con cui ridimensionare quello clericale. La chiesa (e con essa il proprio braccio secolare: l'aristocrazia terriera) fece leva sull'egemonia politica di cui fruiva, nella convinzione di poter controllare agevolmente lo sviluppo del mercantilismo sul terreno sociale. La controriforma subentrò solo quando essa si accorse che questa convinzione non trovava un vero fondamento nella realtà.

Dopo aver perseguitato gli usurai, che col loro smodato guadagno mandavano in rovina gli onesti lavoratori, il predicatore cattolico (molti secoli prima di Lutero) fece due cose: 1) ammise la possibilità di un profitto equo, dando per scontata la presenza di una certa disonestà di fondo, intrinseca ad ogni business, in quanto l'acquirente di una merce non è in grado di stabilire con esattezza il margine di guadagno del mercante; 2) chiese semplicemente al borghese di compiere delle opere di carità, favorendo con la propria liberalità e magnanimità istanze provenienti dal mondo del disagio e della sofferenza. Cioè dopo aver elevato gli interessi materiali al rango di adempimenti di prescrizioni divine, il predicatore non riteneva più la disonestà dei mercanti rischiosa per il livello morale della società.

Finito di esaminare il Medioevo, la domanda fondamentale che Marx si pone è la seguente: perché il capitale usuraio medievale, pur potendo in taluni casi possedere il modo di sfruttamento del capitale, non riuscì a possederne anche il modo di produzione? Cioè per quale ragione il capitale usuraio non è stato capace neppure nel Medioevo di trasformare un bene prodotto dal lavoro in merce?

Capitalismo

Nel capitalismo -spiega Marx- non c'è bisogno, per arricchirsi, di separare il produttore dai suoi mezzi di produzione, come quando dominava l'usura; ma si parte proprio da questa separazione e la si sfrutta ammassando gli schiavi salariati all'interno di un'officina ove domina un processo lavorativo meccanizzato.

Quindi è assurdo sostenere, come fa H. C. Carey (1793-1879), che il capitalista sia migliore dell'usuraio o che il capitalismo sia un sistema meno esoso, meno violento, più democratico di quello schiavista. Anzi, secondo Marx, il capitale usuraio è, paradossalmente, meno "esoso" di quello capitalistico, proprio perché ha solo la pretesa di distruggere, favorendo una "situazione precaria in cui la produttività del lavoro sociale non è sviluppata".

Non a caso è proprio sotto il capitalismo che l'usura smette d'essere vietata, con la differenza che ora il produttore può rivolgersi alle banche. "Non è dall'anatema contro il capitale che rende interesse, ma invece dal suo riconoscimento che prendono le mosse gli iniziatori del moderno sistema creditizio". Marx tuttavia non spiega come sia potuto avvenire il passaggio dal "divieto" al "riconoscimento", perché qui sarebbe occorsa un'analisi di tipo storico-culturale.

Egli però riconosce che le prime associazioni creditizie sono antecedenti al sistema capitalistico vero e proprio, in quanto si ritrovano a Venezia e a Genova già nel XII secolo, quindi in ambienti cattolici borghesi proto-capitalistici. Esse venivano incontro alle esigenze del commercio marittimo (e di quello all'ingrosso), che voleva liberarsi dall'oppressione degli alti tassi usurai. Tali associazioni servivano anche ai commercianti che le avevano fondate per accrescere il loro già alto potere nelle città in cui risiedevano.

Questa pratica si sviluppò poi in Olanda nel XVII secolo e in Inghilterra nel XVIII. In particolare Marx sostiene che proprio in Olanda avviene la piena apologia dell'usura e la prima sottomissione del capitale produttivo d'interesse a quello industriale. Successivamente in Inghilterra non si polemizza più contro l'usura in sé, ma solo contro la grandezza dell'interesse, ed è qui che nascono le prime forme creditizie pubbliche. Nel XVIII sec. Bentham riconosce la libera usura come elemento della produzione capitalistica.

Ora però bisogna fare una precisazione. Sembra che Marx non faccia differenza tra "usura" e "capitale produttivo d'interesse", e in ogni caso afferma che quando il capitalismo s'impone l'usura e il capitale produttivo d'interesse vengono subito legittimati, cioè vengono riconosciuti come "un rapporto di produzione necessario" alla nascita del capitalismo, in quanto - dice Marx nelle Teorie sul plusvalore - l'usura è "un potente fattore della separazione delle condizioni di produzione dal produttore"(p. 566).

La differenza "etica" infatti secondo Marx non esiste, come non esisteva per Lutero, contrariamente a quanto pensava Proudhon: usura significa "prestare soldi"; capitale produttivo d'interesse significa "comprare soldi" per poterli investire. Anche questa seconda attività è una forma di usura da parte di chi presta il denaro.

A proposito di questo, Marx sostiene che Lutero aveva già capito che mentre nel mondo antico (Aristotele) si era in via di principio contrari all'usura, in quanto era sbagliato calcolare in anticipo un eventuale danno subito dal concedere un prestito, nel mondo cristiano invece ad un certo punto si cominciò a ritenere l'interesse un giusto compenso per il servizio prestato. Lutero, nel 1540, scriveva che l'usura era diventata in Germania un fenomeno così dilagante da apparire non un vizio ma una virtù, una forma di servizio alla collettività.

E tuttavia da questa usura, che rovina sia la ricchezza e la proprietà feudale che la produzione dei piccoli borghesi, artigiani e contadini, non nasce il capitalismo industriale (persino nella Germania luterana ciò avverrà molto tempo dopo rispetto a Olanda e Inghilterra, tant'è che si dovrà ricorrere a due guerre mondiali per recuperare il tempo perduto; stesso discorso ovviamente vale per l'Italia). Da notare comunque che se Lutero era contrario all'usura, Calvino invece non lo era affatto.

Dunque per quale ragione ad un certo punto il capitale che rende interesse viene subordinato a quello industriale? Per quale ragione si prese a regolare il saggio usuraio di interesse su quello del profitto dell'imprenditore? Marx dice che la motivazione è proprio quella di combattere l'usura. Grandi riserve di denaro vengono immesse sul mercato per renderne facile l'acquisto, e il monopolio usuraio dell'oro (da parte degli orefici) viene combattuto trasformando il denaro in una merce come altre merci, che può persino essere sostituito da forme di credito circolante non monetarie o che non hanno un equivalente in senso stretto con l'oro (banconote, cambiali ecc.).

Questo a prescindere dal fatto che lo stesso sistema creditizio è costretto, per poter funzionare, a dotarsi di grandi riserve di metalli pregiati. Di fatto "il carattere sociale del capitale - dice Marx - viene permesso e attuato dal pieno sviluppo del sistema creditizio e bancario". Con le banche la produzione capitalistica supera i propri limiti individualistici e si socializza.

Quindi in sostanza se per un certo tempo l'usura era stata prevalentemente praticata dagli ebrei, specie dopo l'entrata in vigore del divieto ufficiale del 1176, che colpiva i cristiani, ora invece quest'ultimi si riorganizzano in una attività economica (quella bancaria) che apparentemente sembra svolgere un'azione benefica alla collettività, in quanto ne incrementa la produttività. Il cristianesimo, essendo una religione più evoluta dell'ebraismo, più capace di doppiezza (in quanto sa scindere, senza escluderli, i valori dall'interesse), si rivela essere la base ideologica più idonea per realizzare il passaggio dal capitalismo commerciale e usuraio a quello industriale.

Marx tuttavia non approfondisce la cosa, trovandosi, come spesso gli succede, in un circolo vizioso: com'è possibile infatti che il sistema creditizio sia stato un fattore propulsivo per lo sviluppo del capitalismo quando proprio il capitalismo ha legittimato tale sistema? Se il sistema creditizio porta al capitalismo, perché in Italia, che ha preceduto di alcuni secoli le altre nazioni europee, sul piano del capitalismo commerciale, non si è sviluppato alcun capitalismo industriale sino alla fine dell'Ottocento (da noi non solo si passò da un capitalismo commerciale avanzato all'orticoltura - come già disse Marx - ma addirittura molti mercanti, per sottrarsi ai rischi connessi alla loro professione, preferirono diventare usurai, dopo aver investito i capitali accumulati in beni immobili).

Per uscire da questa enpasse andava fatta un'analisi culturale delle sovrastrutture, in particolare di quelle religiose. Cioè andava affrontato il complesso tema del rapporto tra aspetto collettivistico (in ambito rurale) della religione cattolico-romana in contraddizione con l'aspetto individualistico (monarchico, autoritario) del potere politico ecclesiastico, e del rapporto tra aspetto individualistico (anarchico) sul piano sociale della religione protestante, in contraddizione con la socializzazione forzata ottenuta nella produzione capitalistica industriale. Marx, venendo da un paese protestante, vede solo il secondo aspetto e non approfondisce i nessi del protestantesimo col capitalismo, limitandosi a porli.

Il capitalismo infatti può nascere solo dalla decadenza di una società in cui la cultura dominante è in contraddizione con la pratica sociale. La prima contraddizione è quella politica, tra la gestione clericale del potere e gli ideali religiosi; la seconda contraddizione, che si forma lottando senza successo contro la prima, è quella sociale, in cui la pratica del dualismo (tra valori professati idealmente e interesse privato mostrato nella vita pratica) si diffonde a macchia d'olio in tutta la società civile. Il capitalismo trova quindi le sue basi politiche nel cattolicesimo e quelle sociali nel protestantesimo.

I nessi di economia e religione, peraltro, s'intrecciano in maniera molto complessa con lo sviluppo della tecnologia, strettamente inerente al fatto che lo sfruttamento capitalistico deve ora operare nei confronti di un soggetto anomalo: un povero giuridicamente libero. Occorre cioè sviluppare una mediazione che superi il limite del rapporto personale (quasi patriarcale), in cui lo schiavo o il servo della gleba era sì di proprietà del padrone, ma che, proprio a causa di tale dipendenza, rendeva il rapporto di lavoro o molto difficoltoso o poco produttivo.

E' anche grazie alla tecnologia che il rapporto di lavoro, da personale diventa contrattuale, in modo che l'operaio ha la percezione, illusoria, di sentirsi libero, di accettare liberamente la propria schiavitù, dalla quale, altrettanto liberamente, può illudersi di uscire.

Dunque il capitalismo non solo eredita e contribuisce a distruggere la proprietà personale dei mezzi produttivi del piccolo produttore, ma subordina a sé ogni forma di lavoro, sviluppando un sistema di relazioni che favorisce sempre più non solo l'espropriazione, ma anche lo sfruttamento del lavoro altrui e quindi il progressivo accumulo di capitali. Le banche concedono prestiti proprio a chi è disposto, investendoli, ad appropriarsi di lavoro non retribuito.

Sicché in epoca moderna il ricorso al capitale usuraio "tradizionale" è tipico solo del piccolo produttore, non dell'operaio salariato, il quale al massimo ricorre al monte dei pegni. Il motivo per cui il piccolo produttore si rivolge all'usuraio è che le banche preferiscono far credito (cioè fare "usura legalizzata") a clienti che offrono garanzie. Questo non significa che l'usuraio presti i soldi solo ai poveri; egli infatti li presta anche ai ricchi, solo che continua a non avere un reale interesse a che gli usurati li investano con profitto, benché egli non disdegni, sotto il capitalismo, la possibilità di diventare imprenditore proprio grazie ai capitali accumulati con la pratica dell'usura. Viceversa il salariato può mettersi nelle mani dell'usuraio al massimo come consumatore, per ricevere più di quanto potrebbe offrirgli il monte dei pegni.

Tuttavia, prosegue Marx, non tutti i mali vengono per nuocere. "I lavoratori, prima isolati, vengono ammassati in grandi officine, in un'attività ripartita e concatenata". Là dove c'era l'isolamento del produttore individuale, ora c'è il collettivismo forzato di molti ex-produttori, cioè di salariati nullatenenti. Il capitalismo "non permette più il frazionamento degli strumenti di produzione relativo alla piccola proprietà, così come non permette più l'isolamento dei lavoratori". Questo aspetto, secondo Marx, giustifica storicamente il passaggio dal feudalesimo al capitalismo.

Considerazioni

La sintesi che Marx fa di tutto il suo ragionamento è la seguente:

  1. "tanto l'usura quanto il commercio sfruttano un modo di produzione già esistente, non lo generano...", anzi l'usura tende a renderlo più miserevole.
  2. "Quanto più irrilevante è il ruolo sostenuto dalla circolazione nella riproduzione sociale, tanto più estesa è l'usura".
  3. "L'usura genera insieme al ceto commerciale una ricchezza monetaria indipendente... getta sul lastrico il possessore delle vecchie condizioni di lavoro, essa svolge una funzione importantissima nel creare i presupposti del capitale industriale".

Come è facile accorgersi queste tesi si contraddicono a vicenda e in definitiva non fanno capire l'origine della mentalità capitalistica, i suoi presupposti culturali. Marx infatti non riesce a spiegare due cose:

  1. com'è possibile che possa esistere usura là dove domina il primato del valore d'uso e dell'autoconsumo? L'usura presuppone sempre la presenza del capitale commerciale, ma questo a sua volta presuppone l'esistenza di una mentalità già orientata verso il mercato, che non ha bisogno dell'usura per diventare capitalistica, e che non diventa capitalistica solo per il fatto d'essere commerciale;
  2. cioè come è possibile che l'usura diventi un presupposto per la formazione del capitalismo quando proprio tale presupposto è contrario a qualunque rivoluzione del modo di produzione?

Marx dà per scontato che entrambe le figure "usurate", proprietario terriero e piccolo produttore, andando inevitabilmente in rovina, finivano col permettere la concentrazione di "grandi capitali monetari". Tuttavia egli sa bene che questa concentrazione non è sufficiente, di per sé, a favorire la nascita del capitalismo, altrimenti questo avrebbe già potuto nascere in epoca greco-romana o anche in un territorio diverso da quello dell'Europa occidentale.

La transizione "dipende completamente dal grado dello sviluppo storico e dalle corrispondenti circostanze" - ha scritto Marx, precisando che ci vogliono "altre condizioni" (p. 808 del III vol. del Capitale), ma quando fa l'elenco delle condizioni che possono permettere all'usura di trasformarsi in uno dei mezzi di formazione del capitalismo, nelle Teorie sul plusvalore (vol. III, pp. 563 ss.), esse sono tutte conseguenze di uno stile di vita che è sostanzialmente già borghese: il lavoro libero (non legato al servaggio né alla proprietà dei mezzi produttivi), il mercato mondiale (conseguente alle conquiste coloniali), il dissolvimento della vecchia struttura sociale (feudi e comunità di villaggio), lo sviluppo del lavoro fino a un certo livello (grazie alla tecnologia), lo sviluppo delle scienze, ecc.

Proprio in quell'eccetera mancano le condizioni culturali. E se non si trovano queste condizioni si finisce inevitabilmente in un circolo vizioso, poiché da un lato si è costretti ad affermare che l'usura in sé non genera il capitalismo, e dall'altro ch'essa, poste certe premesse, ne rappresenta uno dei presupposti fondamentali.

Non solo, ma da un lato il capitalismo deve porsi contro l'usura, onde dimostrare il suo lato positivo (etico e pratico), dall'altro però la ufficializza attraverso le banche, oppure trasforma i capitali tesaurizzati in capitali produttivi, da investire in attività di sfruttamento della manodopera salariata. Come sia possibile che avvenga il passaggio da una forma di sfruttamento passivo o distruttivo (l'usura) a una forma di sfruttamento attivo, che produce ricchezza (plusvalore), Marx non lo spiega in termini ontogenetici, ma si limita a costatarne l'evento analizzandolo come un fenomenologo della società.

Marx cioè non ha saputo spiegare che l'usura è stata economicamente possibile proprio perché politicamente era dominante il clericalismo del cattolicesimo-romano, ovvero la concezione che faceva della religione cristiana l'ideologia in grado di permettere un'ambigua separazione tra i principi professati e la loro pratica applicazione.

Il clericalismo, che è l'espressione politica della fede, abituò i credenti a vedere teoria e prassi come due forme distinte, per molti versi opposte, di esperienza della fede. Questa alienazione fece poi sì che si formassero dei ceti, proto-borghesi, in grado di mostrare che la loro attività pratica, commerciale e/o usuraia, poteva risultare compatibile con le idee cristiane professate in sede teorica.

L'ambiguità di questa posizione verrà poi denunciata dal luteranesimo, ma per essere estesa a livello sociale, come patrimonio di tutta la collettività, che in tal modo non l'avrebbe più avvertita come una negatività. Il luteranesimo infatti non ha mai rappresentato un'alternativa reale alla crisi sociale del cattolicesimo-romano.

Marx era arrivato vicinissimo a capire questa cosa nella conclusione del capitolo 35 del Capitale, ove dice: "Il sistema monetario è intimamente cattolico -scrive Marx-, il sistema creditizio intimamente protestante... Come carta l'esistenza monetaria delle merci ha solo un'esistenza sociale [non materiale, come nella tesaurizzazione]. E' la fede... nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale che si autovalorizza [di qui, si può aggiungere, l'innegabile componente ateistica nel protestantesimo, ovvero la sfiducia nel valore sacramentale degli oggetti religiosi]. Ma come il protestantesimo non riesce ad emanciparsi dalla base cattolica, così il sistema creditizio non si emancipa dal fondamento del sistema monetario".

Quest'ultima frase, che avrebbe dovuto indurlo a riscrivere tutto il cap. 36, è come buttata lì, senza ulteriori spiegazioni. Infatti la chiesa cattolica medievale, ad un certo punto, aveva preso ad arricchirsi proprio col divieto all'interesse. Essa vietava una cosa sul piano teorico, mentre su quello pratico aggirava il principio, e lo faceva comportandosi da approfittatrice di chi era in necessità di affidarle in gestione o addirittura di vendere le proprie sostanze per saldare i debiti contratti.

Fu proprio la chiesa romana a fondare l'istituzione della "manomorta" (*). Quando tale prassi divenne la regola nel mondo ecclesiastico (nelle corporazioni religiose, negli istituti regolari ecc.), il mondo laico non poteva restarvi indifferente: o la eliminava con la forza o l'assumeva come propria.

Marx insomma aveva intuito chiaramente che per comprendere la nascita del capitalismo c'era di mezzo l'ideologia, ma non ha mai approfondito il nesso che la legava all'economia. Questo lo si vede bene anche quando chiosa alcuni passi di Lutero relativi all'usura. Probabilmente il suo disinteresse per le questioni religiose era dipeso proprio dall'incapacità del protestantesimo di approdare a una chiara visione laica e umanistica della vita.

E ciò lo portò poi non solo a sottovalutare l'importanza culturale (di consenso sociale, di legittimazione teorica di pratiche non cristiane) della sovrastruttura religiosa, ma anche a fraintendere la situazione delle comunità di villaggio feudali (alto Medioevo), facendo egli coincidere un modo tecnico di produzione economica con un modo di gestione sociale dell'economia (specie là dove dice che il capitalismo ha associato dei lavoratori dispersi, isolati).

In realtà, il fatto che il contadino medievale andasse da solo a lavorare la terra non significava ch'egli vivesse da isolato nel contesto della comunità di villaggio. Era molto più isolato l'operaio di fabbrica, che quando tornava dal lavoro si trovava a vivere in edifici urbani anonimi (veri e propri dormitori pubblici) di cui non conosceva neppure il vicinato, senza considerare che nel mentre lavorava in fabbrica la socializzazione extraeconomica coi "colleghi" risultava tempo sottratto alla produttività (cosa che d'altra parte ancora oggi è così). L'associazionismo operaio è stato in realtà una reazione alla massificazione coatta, all'estraniazione sociale.

Inoltre il fatto che gli strumenti produttivi di un contadino siano "primitivi" va messo unicamente in relazione con quelli adottati dal capitalismo, ma non può di per sé voler dire che fossero inadeguati alla produzione, in quanto questa necessita di un rapporto equilibrato con la natura, la quale ha precise esigenze riproduttive. Queste due sviste: di natura sociorurale e di natura ecologica, comprensibili per il periodo storico di Marx, oggi sarebbero imperdonabili.

E ora l'ultima osservazione. Le prime rivoluzioni politiche della borghesia (olandese nel 1579, inglese nel 1688, americana nel 1776, francese nel 1789) sono avvenute dopo molti secoli di attività socioeconomica borghese, la quale, come noto, è andata affermandosi all'interno della società feudale, facendosi largo tra un'economia naturale basata sull'autoconsumo.

E' stato un processo lungo e faticoso, che ha sconvolto completamente non solo l'economia europea, ma quella di tutto il mondo; ed è stato un processo che non ha coinvolto in maniera lineare o parallela gli stessi paesi l'hanno intrapreso. P. es. il superamento dell'economia naturale è iniziato nell'Italia comunale, ma con l'incapacità della borghesia nazionale di creare un unico mercato nazionale, un unico Stato politico e amministrativo, un'ideologia emancipata dal cattolicesimo-romano, l'Italia nel XV sec. inizia una decadenza economica da cui non si risolleverà più per almeno tre secoli.

L'iniziativa commerciale le verrà decisamente sottratta da Olanda, Francia e soprattutto Inghilterra, la vera artefice della rivoluzione industriale, la quale, dopo la sconfitta napoleonica, sarà anche la vera dominatrice del mondo, almeno sino a quando la rivoluzione americana non porrà le basi per un ulteriore sviluppo del capitalismo industriale in un territorio non europeo.

Oggi invece assistiamo a una nuova fase del capitalismo avanzato, condotta questa volta in zone geografiche che addirittura non sono occidentali, ma asiatiche, come la Cina e l'India, che insieme fanno 1/3 dell'umanità. E che non hanno quasi mai avuto a che fare col cristianesimo. Qui il capitalismo è un prodotto di importazione, mediato in India dal liberalismo borghese (importato prima dagli inglesi, poi dagli americani) e dall'induismo nazionale, e in Cina dal socialismo maoista "riveduto e corretto".

Si ha come l'impressione che in questi territori lo sviluppo del capitalismo non abbia bisogno di quelle doppiezze così tipiche dei paesi di religione cristiana...


(*) Dal latino "manus", cioè il diritto di alienare e trasmettere, cui però se si aggiunge "morta", significa "incapace, impotente di trasmettere". Era quindi lo stato dei servi della gleba o dei vassalli che, in forza di antichi diritti feudali relativi alla forma della subordinazione personale, erano privati della facoltà di disporre dei propri beni per testamento, quando non avevano discendenti maschi diretti: in tal caso, alla morte del subordinato, il signore diventava erede legittimo di tutti i suoi beni.
Fin dai primi secoli del Medioevo venne altresì designato un insieme di beni che, in quanto appartenenti a un ente, in genere ecclesiastico (perché affidati in gestione da un privato), non si trasmettono per successione, e raramente per atto tra vivi, e sfuggono perciò alle relative imposizioni fiscali.
I beni ecclesiastici, soggetti a manomorta, erano quindi legati da un vincolo di inalienabilità, e le disposizioni ad essi relative furono poi applicate agli stessi enti proprietari di questi beni.
L'età moderna sarà poi caratterizzata dallo scontro tra lo Stato, le cui entrate fiscali erano danneggiate dall'immobilità di questi beni, e la chiesa, che richiedeva la totale esenzione fiscale per il proprio patrimonio. Dopo la Rivoluzione francese e la Restaurazione si posero dei limiti alle esenzioni ecclesiastiche: in particolare in diversi Stati europei fu istituita, tra XIX e XX secolo, una tassa di manomorta.
L'abate Rosmini, fin dal 1832, denunciò apertamente la "servitù dei beni ecclesiastici" pubblicando un libro (Delle cinque piaghe della Santa Chiesa) che gli attirò l'odio dei gesuiti.
L'imposta di manomorta era in vigore in alcuni Stati italiani prima dell'unificazione nazionale ed aveva lo scopo di impedire l'eccessiva concentrazione delle ricchezze a favore degli enti ecclesiastici. Fino al 1929 questa imposta si applicava con un'aliquota del 7,20% sulle rendite degli enti ecclesiastici, e con un'aliquota dello 0,90% sulle rendite degli istituti di carità, di beneficenza e di istruzione. Per effetto della "equiparazione" concordataria, anche sulle rendite degli enti ecclesiastici venne applicata l'aliquota dello 0,90% (circolare del 10 aprile 1930). Le società anonime, costituite per l'amministrazione degli immobili appartenenti ad associazioni di culto non legalmente riconosciute, vennero esentate nel 1938 dall'imposta straordinaria sul capitale delle società commerciali stabilita con decreto 19 ottobre 1937, n. 1729. Ed ancora, il decreto 9 gennaio 1940, n. 2 esentò dall'I.G.E. le oblazioni fatte a favore di istituti religiosi. Considerata la pratica impossibilità in cui si trovava la pubblica amministrazione di esercitare qualsiasi controllo nel settore delle frodi fiscali, le zone di privilegio concesse alla Chiesa consentivano spesso ai privati, affaristi e plutocrati, di trarne profitto pagando una tangente sugli affari conclusi o sulle somme sottratte agli accertamenti fiscali, dietro il paravento delle organizzazioni ecclesiastiche. E siccome anche l'irrisoria aliquota dello 0,90% dava fastidio il regime democratico-cristiano provvide ad abolirla con la legge 21 luglio 1954, n. 608.
In sintesi, il clero cattolico ha sempre ritenuto immorale pagare le imposte. Questo modo di pensare ha origini remote e risale all'epoca in cui la Chiesa, autoproclamatasi "società perfetta", rivendicava il diritto al "privilegium immunitatis". Bonifacio VIII, nella costituzione "Clericis Laicos" del 1296, attribuì un carattere sacro alle esenzioni tributarie irrogando la scomunica a chiunque avesse osato imporre tributi ai beni posseduti dagli ecclesiastici. Per effetto di questa disposizione pontificia il clero e la nobiltà fecero accettare dai sovrani il cosiddetto "principio di perequazione", in virtù del quale i sacerdoti s'impegnavano a collaborare con le preghiere, i nobili con le spade ed i popolani con il denaro. Era inevitabile che, con l'andare dei secoli, la chiesa accumulasse un patrimonio assai rilevante di manomorta.

DEL GIUDICE V., Manuale di diritto ecclesiastico, Giuffrè 1955
ZINGALI G., I rapporti finanziari fra Stato e Chiesa, Vallardi 1943
MORELLO V., Il conflitto dopo la Conciliazione, Bompiani 1932
CONTI G., Preti e frati non pagano tasse, "Il Mondo", 14/5/1957
GRILLI G. Le finanze vaticane in Italia, Editori Riuniti 1961

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015