MARX E LA CRITICA DEL PROGRAMMA DI GOTHA

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


LA CRITICA DEL PROGRAMMA DI GOTHA

Premessa

La Critica del Programma di Gotha (1875) è in sostanza la critica delle posizioni lassalliane.

Ferdinand Lassalle (1825-64) fu un pubblicista piccolo-borghese tedesco che prese parte al movimento democratico nella provincia del Reno. All'inizio degli anni '60 si associò al movimento operaio e divenne uno dei fondatori dell'Unione Generale degli Operai Tedeschi (1863).

Nella "Prefazione" alla prima edizione del Capitale, Marx lo critica d'aver usato molte sue tesi senza mai citare la fonte e peraltro senza mai averle comprese adeguatamente. In particolare gli contesta la legge bronzea dei salari, secondo cui - come scrive Engels - "l'operaio riceve in media solo il minimo del salario perché secondo la teoria della popolazione di Malthus vi sono sempre troppi operai". Lassalle, con questa tesi, diede inizio all'opportunismo in seno al movimento operaio tedesco.

Engels dice di lui che si circondava di "gente sospetta e corrotta", era cinico nella scelta dei mezzi e rimase sino al 1862 "un democratico volgare specificamente prussiano con molte tendenze bonapartistiche", dopodiché "cambiò fronte improvvisamente per puri motivi personali e incominciò la sua agitazione". "Appena due anni dopo esigeva che gli operai prendessero le parti della monarchia contro la borghesia, e insieme con Bismarck, a lui affine di carattere, tesseva tali intrighi che avrebbero dovuto portarlo a tradire veramente il movimento, se per sua fortuna non fosse stato ucciso a tempo".

Il partito socialdemocratico operaio tedesco aveva chiesto a Marx ed Engels, otto giorni prima di riunirsi a Gotha, di aderire al programma di unificazione. Di tale richiesta essi, non informati da nessuno, neppure da Liebknecht, rimasero molto stupiti, in quanto, fino ad allora, il partito aveva rifiutato le loro offerte di collaborazione.

Siccome Bakunin e gli anarchici avevano sparso la voce che Marx ed Engels fossero responsabili di tutto quanto accadeva in Germania nell'ambito del movimento operaio (in sostanza che dirigessero il cosiddetto "partito eisenachiano"), essi si videro costretti a rispondere ufficialmente, in maniera molto critica, alle tesi del programma di Gotha. Anche perché - scrive Engels - il partito socialdemocratico operaio tedesco aveva sempre agito in totale autonomia e al massimo lui e Marx erano intervenuti, sul piano teorico, per correggere singoli errori.

In particolare essi ponevano alcuni temi da discutere come base programmatica per l'intesa:

  1. che si accettasse il programma di Eisenach del 1869, eventualmente aggiornato alle mutate condizioni storiche;
  2. che si ponesse fine al settarismo lassalliano, rinunciando cioè a considerare come "massa reazionaria" tutte le classi e i ceti non operai, a prescindere dalle specifiche condizioni di classe e dalle analisi delle forze in campo;
  3. che si rinunciasse all'aiuto statale per costituire le cooperative di produzione;
  4. che si affermasse il carattere internazionale del movimento operaio, soprattutto per la questione degli aiuti agli scioperanti di qualsivoglia nazione;
  5. che si considerasse del tutto fuori luogo la legge bronzea sul salario;
  6. che si prevedesse di istituire dei sindacati di categoria;
  7. che si accettasse l'idea della responsabilità personale da parte di tutti gli impiegati statali nell'esercizio delle loro funzioni;
  8. che la si smettesse di parlare di uno "Stato popolare libero", in quanto concetto privo di senso;
  9. che si rimettesse in discussione il principio della "totale uguaglianza sociale", in quanto le differenze dovute a contingenze storiche, naturali e ambientali sono inevitabili.

La Critica fu inviata da Marx a Wilhelm Bracke, uno dei fondatori ad Eisenach del Partito Operaio Socialdemocratico tedesco, affinché ne prendesse visione e gliela rinviasse dopo averla fatta leggere a Geib, Auer, Bebel e Liebknecht, tutti dirigenti del partito tedesco.

In seguito alle critiche del programma di Gotha, i lassalliani - scrive Engels - rimasero come "rovine isolate" al di fuori della Germania e il programma fu abbandonato Congresso di Halle del Partito socialdemocratico tedesco, il primo tenuto dopo l’abrogazione delle leggi eccezionali contro i socialisti, dove si decise il 16 ottobre 1890, su proposta di W. Liebknecht, il principale tra gli autori del Programma di Gotha, di preparare per il Congresso seguente un nuovo progetto di programma che venne poi approvato nell’ottobre 1891 al Congresso di Erfurt (“Programma di Erfurt”).

La critica di Marx

  1. Particolarmente fine l'osservazione di Marx, secondo cui, mentre per un borghese il lavoro è fonte di valore a prescindere dal rapporto con la natura, proprio in quanto egli si serve dello sfruttamento del lavoro altrui; per un socialista invece sarebbe più giusto affermare che il valore non proviene solo dal lavoro ma anche dalla natura, che offre al lavoro tutti i mezzi. Cioè allo sfruttamento del lavoro altrui un socialista dovrebbe opporre lo sfruttamento soltanto della natura, di cui è proprietario.
    Il testo del programma socialdemocratico è quindi astratto, troppo generico. Dire che il lavoro è fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà, senza specificare che anche per la borghesia è la stessa cosa, all'ovvia condizione che non si metta in discussione la proprietà privata dei mezzi produttivi, è dire cosa quanto meno riduttiva.
    Qui oggi dovremmo aggiungere che non solo al lavoro bisogna associare la natura (come fonte della ricchezza), ma anche che il lavoro è stato fonte di lavoro per tutte le civiltà, incluse quelle non antagonistiche, cioè le comunità primitive, per quanto in tali civiltà il "valore" non fosse unicamente determinato dalla sfera economica.
    In tali civiltà la natura era considerata come "fonte di ricchezza" senza che si avvertisse il bisogno di sottometterla come un proprio oggetto di sfruttamento. Questo per dire che alla pur giusta, circostanziata critica di Marx al concetto idealistico di lavoro che avevano i lassalliani, andrebbe aggiunta oggi la considerazione che se la natura è fonte di tutte le ricchezze, l'uomo è soltanto una di esse. Quale ente di natura, l'essere umano non può ritenersi "proprietario" della medesima natura.
    Va detto tuttavia che Marx, citando Rousseau, nega che possa esistere un lavoro "utile" soltanto nelle "civiltà", poiché proprio nelle civiltà anche un lavoro "inutile" e persino "dannoso" può diventare fonte di ricchezza.
    Marx insomma stava chiaramente maturando l'idea che esisteva una netta frattura tra "civiltà" (fondata sul lavoro) e "comunità primitiva", dove un qualunque lavoro facilmente diventava "utile" (dalla raccolta del cibo alla caccia), pur non producendo esso alcun valore di scambio.
    Questo per dire che quando si afferma che un lavoro è "utile" per la società, va sempre precisato non tanto il tipo di "lavoro" quanto piuttosto il tipo di "società", essendo evidente che la fetta più grossa nella distribuzione della ricchezza prodotta dal lavoro, se la accaparrano i proprietari dei mezzi produttivi e ovviamente coloro che tutelano la loro proprietà. E come noto chi è proprietario vive sulle spalle del lavoro altrui.
  2. Marx ha sufficientemente chiara l'idea che una società socialista, da lui immaginata "industrializzata", senza alcuna concessione al ruralismo autogestito, basato sull'autoconsumo, deve essere organizzata come una società capitalista, salvo il concetto di "proprietà dei mezzi produttivi", che deve essere "pubblica".
    Il che implica conseguenze rilevanti su tutti quegli aspetti che sotto il capitalismo vengono considerati marginali, come p.es. la scuola e la sanità gestiti dall'ente pubblico, l'assistenza per i lavoratori e la previdenza per gli anziani, i disabili ecc.
    Marx qui vuole dimostrare ai seguaci di Lassalle che il socialismo, quando viene presentato in maniera astratta e utopistica, non può mai costituire un'alternativa al capitalismo, anzi il capitalismo se ne servirà per far sopravvivere se stesso.
  3. Marx sostiene che in una società socialista uscita dal capitalismo (cioè non ancora comunista) la legge dell'equivalenza dei valori ha come punto di riferimento diretto il lavoro e non la merce. L'operaio riceve dalla società l'equivalente di ciò che ha prodotto, salvo le detrazioni relative a ciò che serve per la produzione e per la società nel suo complesso.
    La differenza è che mentre nel capitalismo egli non riceve affatto l'equivalente del suo lavoro, se non in una media statistica nazionale, che concretamente non dice nulla, nel socialismo invece riceve un equivalente che tiene conto della sua realtà di singolo lavoratore. In sostanza il lavoro garantisce la democrazia solo se la proprietà è comune.
    E democrazia non vuol dire considerare "tutti uguali", ma soddisfare le esigenze specifiche di ognuno. Il diritto deve necessariamente essere "disuguale", se si vuole assicurare la democrazia. Ma per soddisfare esigenze specifiche non si può considerare il lavoro come metro di misura del valore che uno produce. Posta l'abolizione della proprietà privata dei mezzi produttivi, nella fase del socialismo maturo un lavoratore darà secondo ciò che potrà dare e riceverà secondo i suoi bisogni.
  4. Quanto tutte le idee occidentali di socialismo siano lontanissime dal realizzare un socialismo davvero democratico è dimostrato dal fatto, secondo Marx, ch'esse s'interessano esclusivamente della distribuzione della ricchezza e non anche della sua produzione. Esse cioè non mettono più in discussione la proprietà privata dei mezzi produttivi, ma soltanto il fatto che il valore ottenuto dalle forze produttive non è equamente distribuito. In tal modo il socialismo occidentale, nel migliore dei casi, non fa che "umanizzare" il capitalismo, contribuendo a illudere gli operai che le contraddizioni antagonistiche possano essere "mediate" o addirittura risolte.
  5. Rispetto a Lassalle che considera astrattamente "reazionarie" tutte le classi non proletarie, Marx riconosce alla borghesia un carattere "rivoluzionario" rispetto ai ceti feudali. Non solo, ma lo riconosce anche a quei ceti medi in via di proletarizzazione, all'ovvia condizione che siano capaci di organizzarsi in senso anticapitalistico.
    Marx è lontanissimo dall'ipostatizzare un ruolo rivoluzionario al solo proletariato industriale. Storicamente lo riconosce anche alla borghesia e politicamente lo riconosce anche alla piccola borghesia (contadini, artigiani, piccoli imprenditori) in procinto di essere rovinata dalla grande industria.
    Marx critica Lassalle di essersi in realtà voluto alleare con la classe feudale (agrari) contro la borghesia qua talis, e ciò allo scopo di accattivarsi le simpatie di Bismarck.
  6. Contro le posizioni di Lassalle, Marx sostiene che se è vero che, nelle forme specifiche, la lotta di classe va combattuta a livello nazionale, è anche vero che nella sostanza essa va internazionalizzata, proprio perché il capitalismo è "commercio mondiale". Di qui la necessità di dotarsi di un organo internazionale. L'Associazione Internazionale degli Operai fu il primo tentativo in tale direzione, che si dovette chiudere dopo la sconfitta della Comune parigina.
    Non si può pensare che l'internazionalizzazione del movimento operaio sia una conseguenza automatica delle lotte nazionali condotte contro il capitale. Il capitalismo ha degli aspetti "mondiali" contro i quali bisogna porsi da subito in maniera "mondiale".
    Si pensi in effetti al ruolo che oggi svolgono le banche o gli istituti finanziari che concedono crediti ai paesi in via di sviluppo vincolandoli a condizioni capestro, favorevoli soltanto ad aumentare la loro dipendenza economica nei confronti dell'occidente.
    Peraltro accentuare il momento "nazionale" rispetto a quello "internazionale" è sempre molto pericoloso, come ha dimostrato il tradimento della II Internazionale in occasione dello scoppio della I guerra mondiale.
  7. La posizione tipica della corrente fondata da Lassalle, allora predominante tra i socialisti tedeschi, costituiva una deviazione "statalista" nel movimento operaio, in quanto si concepiva lo Stato come entità sovrastante le classi e quindi si cercava il suo appoggio persino nello sviluppo delle organizzazioni operaie e cooperative. Nel contempo si sottovalutava, anzi si ostacolavano le lotte economiche e le coalizioni sindacali, in quanto - si diceva - distoglievano dal lavoro organizzativo e intralciavano i rapporti politici col governo.
    L'errore teorico sulla natura e il ruolo dello Stato, che per Lassalle era "l'unità degli individui in un tutto morale", portava a privilegiare singoli ipotetici risultati della lotta di classe piuttosto che il percorso antagonista generale. Ad una faticosa e difficile costruzione di legami di massa si preferiva la scorciatoia, per lo più illusoria, del rapporto col governo prussiano.
    Sul piano economico Lassalle sosteneva l'inutilità della lotta sindacale in forza della cosiddetta "legge bronzea dei salari", secondo la quale anche se "la congiuntura propizia è generale e durevole, l'aumento dei salari che si verifica a poco a poco genera un tale aumento di matrimoni e di famiglie operaie e un tale aumento di domanda di lavoro che, di regola, viene compensata con ciò la crescente offerta di lavoro, e il salario cade di nuovo al suo antico livello o sotto di questo" (F. Lassalle, Capitale e lavoro, ed. Samonà e Savelli, 1970).
    Engels, in una lettera ad August Bebel del 18 marzo 1875, scrive che la "legge bronzea" riposa sulla falsa ed antiquata teoria della popolazione di Malthus, mentre "Marx ha ampiamente dimostrato nel Capitale che le leggi che regolano il salario sono molto complicate; che a seconda della situazione prevale ora l'una ora l'altra di esse, che esse non sono quindi per niente bronzee, ma al contrario molto elastiche".
    Egli poi nota che, conseguentemente, Lassalle "non fa parola dell'organizzazione della classe operaia come classe a seguito dei sindacati di mestiere. E' questo un punto molto essenziale, perché questa è la vera organizzazione di classe del proletariato, in cui esso combatte le sue lotte quotidiane contro il capitale, in cui si addestra".
    Il propagarsi degli scioperi in quegli anni lacererà l'organizzazione lassalliana. Secondo la descrizione che ne fa Franz Mehring, nella sua Storia della socialdemocrazia tedesca, pur tesa a rivalutare i lassalliani, risulta che Schweitzer, succeduto al fondatore dopo la tragica morte di Lassalle, arriva a battersi tra i suoi per promuovere i sindacati. Egli si limita però a considerarli un utile mezzo per "risvegliare dal letargo una popolazione operaia" e, continuando a ritenerli "necessariamente senza risultato dal punto di vista economico", ne deduce che "essi non erano da approvare là dove la classe operaia agiva già apertamente per i suoi ultimi obiettivi". Al massimo ne discende per lui "la conseguenza di abbreviare il più possibile con una giusta organizzazione degli scioperi questo stadio di passaggio".
    In realtà Engels, nel Sistema del salario del 1881, ha presente un quadro molto più dialettico, poiché, entro certi limiti, la legge del salario non è inflessibile, anzi "sempre (salvo nei periodi di grave depressione), e in ogni ramo d'attività, esiste un certo margine all'interno del quale il livello dei salari può essere modificato in base al risultato della lotta condotta dalle due parti nemiche. In ogni caso i salari vengono fissati mediante una trattativa, durante la quale chi resiste meglio e più a lungo ha maggiori speranze di ottenere qualcosa di più di quanto gli spetterebbe".
    Qual è la differenza fondamentale tra la scuola marxista e la variante statalista? Alla domanda se gli scioperi e i sindacati risolvano definitivamente i problemi della classe, entrambe rispondono di no. Alla successiva domanda se gli scioperi comunque servano, ancora entrambe, questa volta, rispondono di sì. Poi si divaricano. Gli statalisti operano per dimostrare che gli scioperi sono inefficaci, almeno sul piano economico, e che bisogna, al più presto, utilizzare e dirottare l'agitazione delle masse verso una soluzione politica in sede governativa: un'apertura del governo prussiano, oppure, oggi, un'interrogazione parlamentare o un futuro governo del polo progressista.
    I marxisti, invece, intervengono per dimostrare ai lavoratori che ci si può organizzare per ottenere una transizione al socialismo. In Salario, prezzo e profitto del 1865, Marx si pone un problema di metodo che è un'indicazione di lavoro rivoluzionario nei sindacati: "la volontà del capitalista consiste nel prendere quanto più è possibile. Ciò che noi dobbiamo fare non è parlare della sua volontà ma indagare la sua forza, i limiti di questa forza e il carattere di questi limiti". In tal modo Marx rispondeva agli argomenti puerili circolanti all'epoca, secondo i quali gli scioperi per aumenti di salario si sarebbero risolti semplicemente in aumenti dei prezzi.
    Nella conclusione, molto nota, del suo lavoro, Marx, dopo aver stimolato la classe a "non cedere per viltà nel suo conflitto quotidiano", avverte che essa "non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta", ma battersi per la soppressione del sistema del lavoro salariato, lottare per il comunismo.
    Insomma dopo aver mostrato che la lotta per il salario è inseparabile dalle leggi che regolano il mercato delle merci; dopo aver chiarito che un rialzo generale dei salari si può ripercuotere sui profitti e non avere influenza sui prezzi, Marx mette in guardia dal cadere nel praticismo sindacale. Lo scopo di tutto l'opuscolo è una spiegazione dei meccanismi di funzionamento del mercato per chiedere ai lavoratori un impegno concreto. Rivendicando cose ottenibili secondo la stessa logica del capitalismo, gli operai impareranno a condurre al meglio le loro battaglie e, per questo, capiranno di dover andare oltre.
    Ecco quello che scrive sulle Trade-Unions: "esse compiono un buon lavoro come centri di resistenza contro gli attacchi del capitale; in parte si dimostrano inefficaci in seguito ad un impiego irrazionale della loro forza. Esse mancano, in generale, al loro scopo perché si limitano ad una guerriglia contro gli effetti del sistema esistente". Questo per dire che la presenza dei comunisti nelle lotte economiche e nelle organizzazioni sindacali non può essere solo di denuncia della volontà del capitalista, o della incapacità e del tradimento dei vertici burocratici.
  8. Marx si pone in modo del tutto contrario all'idea di poter costituire delle cooperative di produzione (o anche di consumo) in cui risulti decisivo il ruolo riconosciuto allo Stato. Gli pare assurdo pretendere che lo Stato finanzi ciò che potrebbe nuocergli o chiedere aiuto al "nemico" per continuare ad esistere e per svilupparsi. (L'idea dell'aiuto Lassalle l'aveva presa dal repubblicano borghese Buchez, che però in Francia l'aveva usata contro i socialisti).
    Peraltro in questa maniera si rischia di distogliere le proprie forze dalla lotta politica vera e propria. Anche perché lo Stato non è in grado in alcun modo di costruire una "nuova società" ma soltanto di difendere quella esistente.
    Marx non è contrario alle società cooperative in sé, ma ritiene ch'esse vadano costruite in totale autonomia, nei confronti sia della borghesia, come classe, che dei governi, sul piano politico. Queste realtà hanno un loro senso solo se sono finalizzate al superamento delle condizioni di produzione borghese.
  9. Marx non crede ai concetti di "Stato democratico" o di "Stato libero". Lo Stato dovrebbe restare subordinato alla società fino a scomparire del tutto. Esso non può essere considerato come un ente indipendente dalla società, cioè non può mai essere più "libero" della società che rappresenta.
    Mentre la società è, in tutti gli Stati, di tipo capitalistico, gli Stati invece possono assumere forme diverse dettate dalle circostanze (centralisti, federalisti ecc.). Tutti gli Stati tutelano la società di cui sono espressione e che in sostanza li ha generati.
    Uno "Stato democratico" per Marx esiste già in Svizzera, negli Usa, molto meno autoritario di quello tedesco o russo.
    Per Marx è impossibile sapere cosa resterà, nella società socialista, dell'odierno Stato borghese. L'unica cosa certa è che nella transizione deve esserci una dittatura del proletariato che impedisca alla borghesia di utilizzare le leve dello Stato per riaffermare la proprietà privata.
    In tal senso le rivendicazioni dei lassalliani non sono molto diverse da quelle della borghesia: si vuole soltanto una democratizzazione più avanzata di uno Stato che nella sostanza resta capitalista.
    Un socialista rivoluzionario non dovrebbe limitarsi a chiedere legalmente una cosa che un governo borghese un minimo avveduto non avrebbe difficoltà a concedergli.
    Per Marx addirittura, quanto più uno Stato borghese si democraticizza (p.es. favorendo un'imposta progressiva sul reddito), tanto più il passaggio al socialismo deve giocarsi sulla base della lotta di classe. Infatti quanto più esso si democraticizza, tanto più le classi meno abbienti finiscono col pagare le spese per l'istruzione, la sanità, la previdenza ecc. anche alle classi che se le dovrebbero pagare per conto proprio.
    Peraltro una "scuola statale", controllata dal governo, era per Marx una cosa inaccettabile tanto quanto una scuola controllata dalla chiesa. Egli voleva sì una scuola "pubblica", non "privata", ma autogestita dai lavoratori, i quali non dovevano pagare con le loro tasse l'istruzione per i figli della borghesia.
  10. Netta anche la critica della libertà borghese di coscienza, la quale non fa che tutelare ogni forma di libertà religiosa, mentre la vera libertà è quella "da" ogni religione.

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015