MARX e ENGELS

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


LA MANIFATTURA

Parlando della manifattura (nel cap XII), cioè di quel tipo di cooperazione che è durato “all'incirca dalla metà del secolo XVI fino all'ultimo terzo del XVIII”(p.428), Marx non ha dubbi nell'affermare ch'essa consiste in un “evolversi dal lavoro artigianale”(p.430), per cui, rispetto a questo, essa rappresenta un grado superiore di organizzazione del lavoro.

Infatti, “da un lato -dice Marx- essa ha per punto di partenza la combinazione di mestieri di diverso genere, autonomi, che son ridotti a dipendenza e unilateralità fino al punto da non essere ormai che operazioni parziali e complementari del processo di produzione di un'unica e medesima merce”(pp.430-31). Nel senso che con la manifattura singoli e diversi mestieri artigianali, fatti in autonomia, divengono un semplice anello, cioè un'operazione particolare, di una catena di lavoro sotto la direzione di un unico capitalista in un medesimo luogo: l'officina.

“D'altro lato -prosegue Marx- essa [manifattura] parte dalla cooperazione di artigiani di ugual genere, decompone uno stesso mestiere individuale nelle sue diverse operazioni particolari, isolandole e rendendole indipendenti fino al punto che ognuna di esse diviene funzione esclusiva d'un particolare operaio”(p.431). Nel senso che un singolo artigiano non svolge più tutte le operazioni necessarie in tempi diversi, ma ne svolge una sola, mentre nello stesso tempo un'altra operazione viene svolta da un altro artigiano.

Nel primo caso si uniscono artigiani divisi, che lavorano separatamente; nel secondo si divide un mestiere “unito”, in sé completo, appartenente a un unico lavoratore.

Marx è contrario al lavoro individuale dell'artigiano: lo fa capire chiaramente. Nella manifattura l'artigiano perde, “insieme all'abitudine, anche la capacità di esercitare il suo antico mestiere in tutta la sua estensione. Ma d'altra parte la sua attività unilaterale riceve ora in questa sfera d'azione più ristretta [cioè nella manifattura] la forma più idonea al fine del proprio lavoro”(p.429). “La manifattura infatti genera il virtuosismo dell'operaio parziale...”(p.432), oltre al fatto che la merce prodotta è il frutto di un lavoro sociale, in quanto nessun operaio singolo può produrla.

Su questo tuttavia, nel § 5 Marx dirà esattamente il contrario, com'è d'altra parte nel suo stile, in virtù del quale egli esalta il capitalismo nel momento in cui parla del feudalesimo e lo contesta quando deve giustificare il socialismo. La manifattura -dirà alle pp.461-62- intacca “alle radici la forza lavorativa individuale. Essa deforma l'operaio in qualcosa di mostruoso, promuovendone come in una serra le abilità di dettaglio, tramite la soppressione d'una quantità di disposizioni e d'istinti produttivi... Non soltanto vengono suddivisi tra vari individui gli specifici lavori parziali, ma viene diviso l'individuo stesso, lo si trasforma in motore automatico d'un lavoro parziale”.

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Spesso Marx pone il lettore di fronte a un tipo di artigianato che in realtà non è mai esistito. Non a caso ad un certo punto egli mette tra parentesi l'eventualità che l'artigiano lavori “con l'aiuto di uno o due garzoni”(p.430).

Cerchiamo di spiegarci. Nel Medioevo lo sviluppo autonomo dell'artigianato, come professione a sé, è stato il frutto di una progressiva decadenza della vita rurale, troppo soggetta agli abusi del servaggio. In origine era lo stesso contadino (uomo o donna che fosse) a svolgere il mestiere dell'artigiano, insieme a quello del contadino e dell'allevatore. Se esisteva un artigianato separato dall'agricoltura, esso non lo era definitivamente, o comunque non si poneva in antitesi all'agricoltura. Per cui non ha molto senso sostenere -come vuole Marx- che “in origine l'operaio vende al capitalista la propria forza lavorativa in quanto gli mancano i mezzi materiali per la produzione d'una merce”(p.462). Tale mancanza non è casuale, ma voluta dallo stesso sviluppo del capitalismo. I mezzi li avrebbe (quelli tradizionali), ma il capitalismo glieli toglie.

Marx non considera, in questo capitolo, la forma più semplice di artigianato, ma solo la sua specializzazione individuale. Per lui la divisione del lavoro che si ottiene con la manifattura è in grado di offrire il prodotto sociale di un'équipe di artigiani, in luogo del prodotto individuale offerto dall'unità del lavoro del singolo artigiano. Cioè a dire, mentre con la manifattura la socializzazione della merce è garantita dalla divisione sistematica del lavoro, con l'artigianato invece l'unità del lavoro riusciva a garantire solo un prodotto individuale.

Marx, in altre parole, non vede la socializzazione del lavoro nel Medioevo. Per lui tutti i prodotti pre-capitalistici sono o individuali (del singolo artigiano, più o meno capace) o insignificanti (perché valori d'uso che si dissolvono nell'autoconsumo).

Il suo ragionamento, per semplificare, è di questo tipo: l'artigiano ha fatto bene a staccarsi dal contadino (come la città dalla campagna), ma ora deve rassegnarsi a trasformarsi in operaio salariato, perché sul mercato esiste un capitalista in grado di comprargli la sua forza-lavoro. La socializzazione dell'operaio viene vista positivamente da Marx, benché essa, sin dall'inizio, sia in funzione dell'appropriazione privata del profitto.

A Marx sfugge completamente il significato di quel periodo storico in cui l'artigianato non era ancora staccato dall'agricoltura o, se lo era, continuava però a dipendere dalla vita rurale, mentre in questa dipendenza (che pur gli artigiani, col tempo, cercheranno di ridurre al minimo) si realizzava quella forma di socializzazione del lavoro che non aveva bisogno, per definirsi tale, di “rinchiudersi” in un'officina ove le mansioni erano completamente parcellizzate. Non era certo un puro e semplice “spazio fisico” a determinare il carattere di socializzazione del lavoro. (E non si dica che Marx non è interessato a questo perché il suo obiettivo è quello di descrivere la nascita del capitalismo: tantissime volte -incluso questo capitolo- egli fa digressioni sull'epoca classica, greco-romana, o sulla comunità primitiva dell'India).

A parte ciò, l'artigiano non ha mai lavorato da solo, ma sempre in una corporazione di più artigiani e garzoni, per cui il suo lavoro non era meno “sociale” di quello dell'operaio salariato. Questo artigiano ha forse combattuto contro il capitalismo con meno convinzione del contadino, ma certamente non l'ha fatto in maniera individuale. L'artigiano isolato, descritto da Marx, è un'immagine fittizia, usata per dimostrare la superiorità della manifattura (superiorità, peraltro, che Marx misura solo in termini strettamente economici, tralasciando volutamente quelli etico-sociali).

Marx non è preoccupato più di tanto quando costata, con occhi da “socialista”, che la superiorità produttiva della manifattura è stata ottenuta a prezzo di una profonda alienazione del lavoratore. “Un operaio, effettuando vita natural durante sempre l'unica e medesima operazione semplice, trasforma tutto il proprio corpo nello strumento, automatico e unilaterale, di tale operazione...”(p.431). In questo starebbe forse il suo “virtuosismo”? E' forse un vantaggio dell'operaio quello di dover “impiegare per il suo lavoro solamente il tempo necessario”(p.440)? E' forse un suo guadagno dover lavorare con “continuità...uniformità...regolarità...ordine...intensità...” (ib.)? Si vive forse per lavorare? Oppure Marx vuole sostenere che lo sviluppo della manifattura, portando inevitabilmente alla nascita del macchinismo e della grande industria, ha favorito la fine della fatica fisica, in quanto ha praticamente reso inutile l'intervento manuale dell'operaio? E' forse vero questo e, se lo fosse, non sarebbe ancor più insensato sostenere che il lavoro serve per realizzare la personalità umana?

In realtà la manifattura avrebbe potuto avere la sua ragion d'essere se fosse stata una scelta consapevole e democratica dell'intera collettività, ovviamente per produrre di più in un tempo minore, ma a seconda delle necessità del momento. Una scelta quindi che avrebbe dovuto essere tenuta sotto controllo collettivo, col quale si sarebbe dovuta garantire al singolo operaio l'esigenza della reversibilità, cioè la possibilità in ogni momento di tornare al modo tradizionale di produzione. La manifattura avrebbe avuto senso se fosse stata considerata come parte integrante di un sistema produttivo di tipo “socialista”.

Viceversa, per Marx la nascita della manifattura è parte di un processo storico inevitabile, come nella triade hegeliana l'antitesi usciva da una tesi “formalizzata”, che per potersi veramente affermare aveva prima bisogno di negarsi. “Questo processo di scissione -dice a p.463- ha inizio nella cooperazione semplice, in cui il capitalista rappresenta di fronte ai singoli operai l'unità e la volontà del corpo lavorativo sociale”. Marx, in altre parole, non si chiede come nasce il capitalista, ne costata semplicemente l'esistenza, nonché la sua indiscussa superiorità rispetto alle figure sociali del passato.

E' strano ch'egli non si renda conto che la necessità di “trasformare il lavoro parziale nel mestiere a vita d'un uomo”(p.432) -come accadeva nella caste, nelle corporazioni medievali ecc.- rispecchiava una forma di società in cui le differenze di classe erano già notevoli. Se la manifattura può essere considerata un'”evoluzione” dell'artigianato, non può certo essere considerata come un'alternativa positiva all'”involuzione” dell'artigianato verso il privilegio di classe o di casta o di corporazione. Al contrario, la manifattura può essere considerata come una risposta negativa alla mancata soluzione della crisi dell'artigianato.

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Il Marx del Capitale dà continuamente per scontato che un'appropriazione adeguata del significato della vita dipenda anzitutto e soprattutto da un aumento della produttività, ovvero dal benessere di tipo materiale. Sono relativamente pochi i momenti in cui egli parla come un economista “socialista” e, dove lo fa, le conclusioni politiche sono sempre di scarso rilievo.

Prendiamo ad es. le pp.447-48. Marx sa bene che nella manifattura “cala il valore della forza lavorativa”, in quanto si risparmiano le spese d'apprendistato dell'operaio, essendo sufficiente anche un operaio senza abilità. Naturalmente chi trae i maggiori vantaggi da tutto ciò è il capitalista. Ebbene, l'analisi di Marx, in sostanza, si ferma qui. Al massimo egli invoca la necessità della rivoluzione politica, al fine di sostituire l'imprenditore privato con uno collettivo, ma non arriva mai a chiedersi se per caso il precedente modo di produzione non avesse degli aspetti positivi da non meritare d'essere completamente distrutti dal capitalismo.

Marx giustifica questo suo profondo scetticismo verso i modi di produzione pre-capitalistici semplicemente perché li ritiene responsabili della nascita del capitalismo: non in senso etico (poiché Marx esclude il ruolo della libertà nella transizione da una formazione all'altra), ma in senso economico, in quanto il “passato” è necessariamente responsabile del “presente”. Dunque, se il capitalismo esiste è perché non si è stati capaci d'impedirne la nascita, e quindi esso è necessario. Per capire questa tesi di Marx basta leggersi il § 4 di questo capitolo, laddove egli parla, con grande forza sintetica e dialettica, della differenza tra la divisione del lavoro nella manifattura e quella nella società.

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Quando scrive il Capitale, Marx ha una conoscenza molto approssimata della comunità primitiva, non solo perché gli studi di allora erano scarsi, ma anche perché lo stesso Marx non vi aveva attribuito un'importanza particolare ai fini della stesura della sua opera. Engels si sentirà in dovere, nella terza edizione del Capitale, di sottolineare in una nota questa lacuna, anche se neppure egli saprà trarne le dovute conseguenze.

Queste conseguenze sono importanti perché, nella lotta politica contro il capitalismo -se non si tiene in dovuta considerazione il potenziale contestativo delle forze pre-capitalistiche- si rischia di assumere degli atteggiamenti settari, ideologici, che le stesse forze del capitale possono facilmente neutralizzare. Oggi naturalmente è impossibile recuperare queste forze nell'ambito dell'Occidente industrializzato. Tutta l'agricoltura è stata intaccata dal capitalismo.

Il pregiudizio di Marx (che è in fondo di derivazione hegeliana) nei confronti di queste forze, lo si nota anche nel suo modo di considerare la tribù come una conseguenza logica, naturale, dello sviluppo della famiglia. Il determinismo con cui Marx considera “necessarie” tutte le formazioni economiche della società, ognuna delle quali costituisce un progresso rispetto all'epoca che l'ha preceduta e un limite rispetto a quella che le subentrerà, risente in modo palese dell'influenza dell'hegelismo. Lo stesso Marx d'altra parte non ha mai nascosto che quanto al “metodo di lavoro” egli si serviva a piene mani della Logica di Hegel.

Marx ha ragione quando afferma che nelle comunità primitive la divisione del lavoro aveva “un fondamento meramente fisiologico”(p.449), essendo basata sulle “differenze di sesso e d'età”(ib.). Ed ha anche ragione quando afferma che, in origine, lo scambio dei prodotti avveniva tra famiglie, tribù ecc., reciprocamente indipendenti, e non tra persone private. “L'ambiente naturale offre alle diverse comunità diversi mezzi di produzione e diversi mezzi di sussistenza”(ib.).

Tuttavia, egli ha torto quando sostiene che questa economia “spontanea e naturale”(ib.) era destinata a evolvere, in maniera altrettanto “spontanea e naturale”, verso il capitalismo. Solo un economista che non si preoccupa di conoscere motivazioni culturali sottese ai processi socio-economici può sostenere un determinismo così assoluto. In realtà, è difficile pensare che una comunità antica, basata sull'autoconsumo, giungesse, ad un certo punto, nel commercio con altre comunità, a negare la propria autonomia per affermare l'interdipendenza “d'una produzione generale sociale”(ib.) tra diverse comunità.

Il passaggio dal prodotto alla merce non è affatto spontaneo, come non è affatto naturale che dalla divisione fisiologica del lavoro si passi alla progressiva decomposizione degli “organi particolari”(ib.) della singola comunità. Certo, se la comunità fosse composta da individui singoli, se la tribù non fosse che la somma di tante famiglie, sarebbe inevitabile la disgregazione degli elementi singoli dopo aver affermato la divisione del lavoro. Il fatto è però che nella comunità antica, molto più forte della divisione del lavoro, era il legame culturale (assiologico, normativo) che teneva uniti i suoi vari componenti. Difficilmente si sarebbe permesso che una semplice attività economica potesse stravolgere “spontaneamente” i principî fondamentali su cui si reggeva l'intero edificio comunitario.

E' dunque assurdo pensare che “la produzione e la circolazione delle merci [siano] il presupposto generale del modo di produzione capitalistico”(p.451). E' vero anzi il contrario, che senza “spirito borghese” non c'è produzione di merci, ma solo scambio di prodotti. Ecco perché dobbiamo necessariamente credere che in origine lo scambio dei prodotti non andasse mai oltre un certo livello: non tanto perché le comunità erano limitate sul piano economico, quanto piuttosto perché esse erano gelose della loro autonomia sul piano sociale e culturale (anche se la cultura non era scritta). In questo senso la separazione tra città e campagna va considerata come una delle più grandi disgrazie dell'umanità, a cui è difficile pensare che le varie comunità siano giunte -come invece vuole Marx- a causa di un semplice aumento della densità della loro popolazione (p.450).

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Per Marx il passaggio dalla società pre-capitalistica a quella capitalistica (manifatturiera) non è che il passaggio da un modo di produzione individuale e indipendente a un modo di produzione sociale e dipendente. “La divisione del lavoro nella manifattura presuppone la concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani di un unico capitalista, la divisione del lavoro nelle società [leggi: pre-capitalistiche] presuppone la dispersione dei mezzi di produzione tra molti produttori di merci che sono reciprocamente indipendenti”(p.454). Paradossalmente, seguendo con coerenza questo ragionamento, si dovrebbe finire col sostenere che la produzione di merci va intesa in senso lato e, in questo senso, essa va considerata presente anche in civiltà non-capitalistiche: tant'è che il capitalismo si forma solo se la divisione del lavoro si trova “già a un certo grado di maturità”(p.451).

Per dimostrare la tesi dell'”evoluzione”, in antitesi a quella del “salto” o della “rottura”, tra una formazione economica e l'altra, Marx finisce col delineare una storia dell'umanità che da uno stadio primitivo di capitalismo è passata a forme di capitalismo sempre più sofisticate. Il “pre-capitalismo” non sarebbe che un aspetto rozzo e primitivo della manifattura, con cui inizia il capitalismo vero e proprio. In questo quadro il Medioevo, dopo il “capitalismo commerciale” del mondo greco-romano, rappresenta una sorta di gigantesco “buco nero”, meritevole d'essere analizzato solo in quella parte che tratta dello sviluppo comunale e delle corporazioni. Ma questo per dire, ancora una volta, che la manifattura, grazie alla “rivoluzione degli strumenti di lavoro”(p.467), ha saputo superare la fissità dei mestieri tradizionali delle corporazioni, i quali, pur essendo basati sulla divisione del lavoro, offrivano sul piano produttivo risultati assai modesti.

Marx può avere ogni ragione quando cerca di legittimare la transizione dal capitalismo commerciale a quello industriale, ma non ne ha alcuna quando cerca di legittimare la transizione dalle società pre-capitalistiche a quella capitalistica. Anzi, a ben guardare, la sua stessa immagine di “capitalismo commerciale” andrebbe rivista, poiché sia questa che quella delle società pre-capitalistiche sembrano essere delineate unicamente allo scopo di giustificare la transizione al capitalismo e, di conseguenza, da questo al socialismo, il quale altro non è -nell'ottica marxiana- che un sistema sociale (al pari del capitalismo) e indipendente (nel senso che il lavoro dipende solo da se stesso e non dal capitale).

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Anche quando parla della comunità antica, Marx (che ha in mente soltanto quella “indiana” delle caste) non fa che giustificare il superamento di questa organizzazione da parte di un'altra di tipo capitalistico. Nel Capitale Marx non riesce assolutamente a equiparare (simbolicamente s'intende!) il futuro socialismo col socialismo delle comunità antiche, pre-schiavistiche. Per lui la comunità antica (“indiana”, nella fattispecie) era sì caratterizzata dalla socializzazione del lavoro, ma in maniera costrittiva, cioè esisteva sì la “proprietà comune della terra”, una “diretta connessione tra agricoltura e mestiere artigiano”, nonché “una stabile divisione del lavoro”(p.456), ma anche un forte autoritarismo statale. Al cospetto di questa forma di autoritarismo Marx ha sempre preferito l'affermazione del singolo, che recide il “cordone ombelicale” che lo lega alla comunità. Delineato il quadro in questi termini, Marx purtroppo si è precluso la possibilità di apprezzare adeguatamente gli “organismi di produzione autosufficienti”(p.457), ovvero il fatto che in tali comunità “la gran massa dei prodotti sorge per l'appagamento degli immediati bisogni della comunità...”(ib.).

Per Marx è limitativo il fatto che solo “l'eccedenza dei prodotti”(ib.) si trasformi in merce. In queste condizioni la manifattura non può sorgere non tanto perché lo impediscono la cultura, i valori, lo stile di vita, quanto perché il mercato è troppo ristretto. Si tratta di una causa meramente estrinseca, quantitativa, incidentale. Non ci può essere manifattura che là dove lo scambio delle merci ha raggiunto un certo livello di estensione. Anche qui Marx riprende la legge hegeliana del passaggio dalla quantità alla qualità.

A un sistema di vita dove tutto si riproduce “costantemente nella medesima forma”(p.458), Marx ha sempre preferito il continuo rivolgimento dei mezzi e delle condizioni produttive che si verifica sotto il capitalismo.

A tale proposito, tuttavia, è bene precisare che le società asiatiche -cui Marx si riferisce- non erano affatto così “immutabili” dal punto di vista economico. Egli infatti è convinto che tale immutabilità non abbia nulla a che vedere con “la continua ricostituzione degli Stati asiatici e col perenne alternarsi delle dinastie”(p.459).

In realtà politica ed economia erano strettamente legate anche nell'antica Asia. Con una differenza però, rispetto alle regioni occidentali dell'Europa e degli USA, che si può capire ponendosi una semplice domanda. Posto che in Asia i rivolgimenti politici erano, come in Occidente, il frutto di contraddizioni socio-economiche (anche se Marx parla delle società asiatiche come se fossero prive di lotte e di conflitti di classe), per quale ragione in Asia, in seguito alle lotte di classe, non è nato il capitalismo?

A questa domanda Marx non è stato in grado di dare una risposta convincente proprio perché egli aveva concentrato tutti gli studi sull'economia e non anche sulla cultura (filosofia, religione, ideologia politica, arte dei Paesi orientali). Se l'avesse fatto si sarebbe accorto di due cose: 1) che per l'Oriente l'uomo è parte della natura, per cui non avrebbe mai potuto esserci uno sviluppo tecnologico particolarmente forte o un'esigenza di sistematico sfruttamento delle risorse naturali; 2) che la mancata diffusione della religione cristiana non ha permesso ai popoli asiatici di sviluppare il senso profondo della libertà umana.

L'Oriente asiatico, essendo più vicino al modo di produzione pre-capitalistico, è rimasto fedele alla socializzazione del lavoro, ma, non avendo accettato il cristianesimo, non è riuscito a sviluppare il lato storico della personalità umana. Le lotte di classe quindi c'erano, ma avevano appunto lo scopo di conservare lo stile di vita culturale, naturale e pre-schiavistico contro il potere di coloro che invece puntavano ad accentuare gli aspetti del servaggio (che in Oriente si è sempre manifestato come “servaggio di Stato”). Non a caso l'Asia (fa eccezione, in parte, l'India, perché qui lo sviluppo delle caste è sempre stato molto forte) è passata dalla crisi del feudalesimo al socialismo (quanto democratico o autoritario non è qui il luogo per discuterlo. Interessante comunque resta il fatto che proprio attraverso il socialismo europeo l'Asia ha acquisito, indirettamente, i contenuti fondamentali del cristianesimo, laicizzati appunto dal socialismo. Grazie a questa acquisizione si può parlare, per la prima volta, di “storia universale dell'uomo”).

Il giudizio di autoritarismo (politico) che Marx ha rivolto alle società asiatiche, vale, a suo parere, anche per il feudalesimo. Parlando delle corporazioni di arti e mestieri, ciò che Marx non sopporta è appunto la costrizione cui esse erano sottoposte. “Le leggi delle corporazioni...impedivano sistematicamente la trasformazione del mastro artigiano in capitalista, limitando il più possibile il numero dei garzoni ch'egli potesse impiegare”(p.459). Detto altrimenti: là dove esiste costrizione, lì, per Marx, esiste dittatura, per cui, in luogo all'artigiano, è preferibile il “capitalista commerciale”, l'unico veramente libero, nel Medioevo, di “acquistare il lavoro come merce”(ib.).

Il ragionamento di Marx non è sbagliato quando afferma che là dove c'è costrizione non c'è democrazia e quindi la costrizione è inutile, perché, prima o poi, il sistema verrà rovesciato. Ma è sbagliato quando aggiunge che, affinché gli uomini capiscano l'importanza della democrazia, occorre ch'essi si liberino dal peso di tutte le costrizioni sociali e che sviluppino la loro individualità. In seguito, dalle contraddizioni che emergeranno, a causa dell'anarchia produttiva, della sfrenata concorrenza e dell'autoritarismo in fabbrica, i lavoratori comprenderanno che la società capitalistica deve necessariamente passare al socialismo.

Purtroppo è proprio sulla base di questo ragionamento che noi dobbiamo addebitare al socialismo marxista (non meno che al liberalismo borghese) la responsabilità della fine immeritata di tutti gli aspetti positivi che esistevano nel sistema feudale. Non era forse positivo il fatto che “generalmente l'operaio e i suoi mezzi di produzione rimanevano nel complesso congiunti tra di loro...”(p.460)? Il socialismo non chiede forse la stessa cosa? Il crollo del cosiddetto “socialismo reale” non è forse stata la più lampante dimostrazione che le teorie di Marx, in questo campo, erano sbagliate?

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Ora bisogna fare un'osservazione sul concetto di “divisione del lavoro”. Essere contrari, in assoluto, alla divisione del lavoro, sarebbe come porsi fuori della storia. Tuttavia, Marx ha torto quando afferma che “la cooperazione basata sulla divisione del lavoro, ossia la manifattura, è originariamente una creazione spontanea e naturale”(p.467); ha torto perché la manifattura già rientra nello “spirito capitalistico”. Egli potrebbe aver ragione se si considerasse la divisione del lavoro in senso lato, come un'attività che ha riguardato qualunque comunità sociale, anche quelle più antiche.

E' incredibile che un uomo del “sospetto” come Marx, abituato a vedere la realtà con grande criticità e disillusione, non si sia accorto come il passaggio da una semplice cooperazione fondata sulla divisione del lavoro alla manifattura vera e propria, abbia comportato una rottura traumatica fra il vecchio e il nuovo. Dire che “allorché [la cooperazione] ha raggiunto un certo grado e una certa consistenza, diviene la forma consapevole, metodica e sistematica del modo di produzione capitalistico”(ib.), è come dire che gli uomini (ad eccezione naturalmente dei capitalisti) erano così ciechi che soltanto dopo molto tempo avrebbero potuto capire i grandi limiti del capitalismo, cioè che in origine la transizione venne accettata nella consapevolezza di realizzare un aumento del benessere per tutta la collettività!

Marx quindi è nel giusto quando afferma che la manifattura è “un raffinato e civilizzato mezzo di sfruttamento”(p.468), ossia “un particolare metodo per procurarsi plusvalore relativo, cioè per accrescere a spese degli operai l'autovalorizzazione del capitale”(ib.). Ma è nel torto quando sostiene che la manifattura “appare come un progresso storico e un momento necessario dell'evoluzione del processo di formazione economica della società”(ib.).

Dunque, è vero, non ha senso essere contro la divisione del lavoro, ma solo a condizione di evitare ogni determinismo storico, poiché con questo si finisce col giustificare una qualunque divisione del lavoro, inclusa quella capitalistica. Gli uomini possono anche specializzarsi in un determinato settore produttivo (se vogliono), ma non debbono sentirsi obbligati a farlo. Essi cioè devono sempre restare liberi di non abbandonare quelle condizioni che permettono loro di sentirsi moralmente soddisfatti anche se non sanno produrre alla perfezione alcun oggetto particolare.

In ogni caso è assurdo pensare che debba esserci una divisione del lavoro che un pugno di capitalisti impone a tutta la collettività. Si possono fare lavori diversi se i diversi lavoratori si riconoscono reciprocamente nel loro ruolo, cioè se assegnano liberamente un valore ai loro rispettivi lavori. Il valore di un lavoro non può essere imposto con la forza, neanche se questa forza è di tipo economico e non fisico, come nell'antichità.

A proposito di “antichità”, Marx sbaglia anche quando afferma che “gli scrittori dell'antichità classica...considerano esclusivamente la qualità e il valore d'uso”(p.469). Egli infatti non s'accorge che per gli antichi greci, romani ed egizi il concetto di “valore d'uso” (che può essere applicato solo alle comunità autarchiche) era in antitesi a quello di “qualità”. Essendo il loro un regime schiavistico, il concetto di “valore d'uso” non aveva alcun vero contenuto democratico. Lo dimostra appunto il fatto che un oggetto aveva tanto più valore d'uso quanto più forte era la divisione del lavoro, e quindi quanto meno era d'uso sociale. In una società schiavistica un oggetto aveva un grande valore d'uso solo per i ceti benestanti.

In tal senso non esisteva il moderno concetto di “valore di scambio” semplicemente perché non esisteva ancora quella spersonalizzazione volontaria e consapevole dell'individuo post-cristiano, che sola può permettere, attraverso l'uso delle macchine, di ottenere ricchezza puntando sulla quantità (e quindi sui bassi prezzi) invece che sulla qualità (cioè sugli alti prezzi). L'uomo classico non avrebbe mai potuto attribuire a una “macchina” la fonte della sua ricchezza, né avrebbe mai accettato di sacrificare la sua vita per accumulare capitali.

A parte questo, il concetto di “valore d'uso” delle società schiavistiche non era molto diverso dal concetto moderno di “valore di scambio”: la differenza stava nel fatto che allora lo scambio poteva avvenire solo fra un numero ristretto di persone (quello di “qualità” poi fra un numero assai esiguo).

Naturalmente anche nel mondo classico si usava la spersonalizzazione del lavoratore per accumulare capitali (non dimentichiamo che lo schiavo era una “cosa parlante”). Tuttavia la spersonalizzazione era imposta dalla classe dominante alle masse, non era una caratteristica della stessa classe al potere. Il potere economico anzi serviva per affermare il primato della individualità. Nel capitalismo invece il capitalista sacrifica la propria individualità a vantaggio del capitale, che è diventato un'entità a se stante.

“Platone -dice Marx nella nota 80 di p.470- spiega la divisione del lavoro...con l'unilateralità delle inclinazioni spontanee degli individui”, cioè in realtà la spiega con una “falsità” dettata dai suoi interessi di classe, quegli stessi interessi che lo portarono ad affermare “che l'operaio -sono ancora parole di Marx- deve conformarsi al lavoro e non il lavoro all'operaio”(stessa nota). Singolare che Marx non abbia nulla da dire in merito a questa “coercizione economica”, ma ciò si spiega pensando che anch'egli ha tutto l'interesse a far vedere come già nell'antichità classica il concetto di “divisione del lavoro” era acquisito, per cui tra una formazione economica e l'altra non c'è alcuna soluzione di continuità.

Infelice infine è la conclusione del capitolo. Resosi conto probabilmente delle patenti contraddizioni fra ciò che di positivo la manifattura sembrava volesse dare al lavoratore e ciò che di negativo di fatto essa ha dato, Marx cerca di ridimensionare il peso dei suoi limiti, sostenendo che: 1) “sebbene essa...conduca allo sfruttamento produttivo di donne e bambini, tale tendenza generalmente non raggiunge lo scopo, scontrandosi con le abitudini e con la resistenza degli operai maschi adulti”(p.473). (Marx tuttavia non spiega se la resistenza dipenda dall'indignazione morale o dalla paura della concorrenza sul mercato del lavoro); 2) “sebbene la decomposizione dell'attività di tipo artigiano faccia diminuire le spese d'apprendistato e di conseguenza il valore dell'operaio, per certi lavori più complessi si richiede necessariamente un periodo di tirocinio più lungo...”(ib.). (Marx però non aggiunge che tali lavori appartenevano a una ristretta categoria di persone); 3) “il capitale si trova a dover lottare in continuazione con l'insubordinazione degli operai”(ib.). (E' la prima volta che Marx, in questo capitolo, ne parla. A p.464 aveva invece parlato di “degrado intellettuale” dell'operaio parcellizzato, arrivando persino a ricordare che “intorno alla metà del sec. XVIII in alcune manifatture s'impiegavano preferibilmente per certe operazioni semplici dei mezzo idioti...”(ib.). Dunque quali operai si ribellavano alla manifattura?).

Marx in realtà afferma tutto questo non per sottolineare l'importanza della lotta di classe, ma per dimostrare i limiti della manifattura, ovvero l'esigenza storica ch'essa fosse superata dalla “grande industria”. “Quando ebbe raggiunto un certo grado di sviluppo, la sua ristretta base tecnica entrò in contraddizione con i bisogni di produzione che essa stessa aveva generato”(p.474).

Qui insomma siamo da capo. Il macchinismo è subentrato per superare i difetti strutturali della manifattura, e nessuno s'è accorto che in realtà esso peggiorava la condizione non solo dell'operaio, ma, questa volta, dell'intera società!

IL SENSO DELLA MANIFATTURA

La manifattura implica un diverso concetto del lavoro, una diversa cultura della vita lavorativa: non si lavora più per vivere, ma perché obbligati da un contratto, per permettere all'imprenditore di accumulare capitali.

Se non ci fosse questa nuova cultura (borghese e schiavistica allo stesso tempo, che il cristianesimo cattolico e protestante ha legittimato), non ci sarebbe neppure la necessità di trasformare il lavoratore in uno strumento del lavoro, da usare il massimo possibile.

Il fatto di poter produrre di più in un tempo minore nel capitalismo costituisce la regola non l'eccezione, nel senso cioè che questo modo di produrre non viene fatto in previsione di una particolare avversità (ad es. la carestia), ma viene fatto allo scopo d'incrementare quanto più possibile il capitale investito, a prescindere dalle condizioni esterne (ambientali) del lavoro.

Questa riduzione dell'operaio a “strumento di lavoro” era possibile nel mondo antico perché si partiva dal presupposto che lo schiavo, non avendo i diritti del cittadino, potesse essere trattato come una “cosa”. Questo modo di vedere il lavoro era stato sottoposto a critica dal cristianesimo, il quale poneva liberi e schiavi sullo stesso piano di fronte a dio. Il servo della gleba non voleva essere considerato un “oggetto” del feudatario, e lottava -come lo schiavo dell'epoca romana- per la propria emancipazione.

La differenza stava nel fatto che lo schiavista romano (almeno finché non divenne cristiano) preferiva uccidere lo schiavo piuttosto che concedergli dei diritti; il feudatario invece, di fronte alle dure rivendicazioni dei contadini, poteva anche scendere a compromessi. Era cambiata la cultura.

Nel capitalismo, paradossalmente, l'operaio appare più vicino allo schiavo che non al servo della gleba, poiché risulta essere un mero strumento lavorativo, e tuttavia in tale condizione l'operaio salariato non finisce perché “catturato in guerra” o perché ha accettato consapevolmente, non avendo alternative, di rinunciare a una parte dei propri diritti e di vivere un rapporto di dipendenza personale, ma vi finisce nella pienezza della propria libertà, anzi a causa di questa stessa libertà.

Sotto il capitalismo infatti il lavoratore diventa schiavo del capitale dopo che ha acquisito la piena libertà giuridica, cioè i diritti civili e politici. Egli è personalmente libero, anche se questa libertà non è supportata da alcuna forma di proprietà: è una libertà “totale”, ma solo perché “da tutto”.

Quindi solo una particolare cultura poteva accettare un dualismo così netto tra libertà formale e schiavitù sostanziale: questa cultura non poteva essere che il cristianesimo e, in modo particolare, il protestantesimo.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015