MARX: IL CAPITALE - Il plusvalore 4

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


IL PLUSVALORE

I - II - III - IV

IL PLUSVALORE RELATIVO

Il cap. X apre la IV sezione, invece di chiudere la III, come avrebbe tranquillamente potuto fare senza danneggiare l'architettura del Capitale, proprio perché questo capitolo ha la funzione d'introdurre il discorso sul macchinismo e la rivoluzione tecnologica e industriale vera e propria.

Il plusvalore relativo è infatti quello estorto sulla base della modificazione del processo lavorativo, in senso strutturale, e non più sulla base del prolungamento della giornata lavorativa: cosa, quest'ultima, che nell'analisi di Marx non implica un mutamento sostanziale nell'uso della tecnologia tradizionale. “In un primo momento il capitale sottomette il lavoro nelle condizioni tecniche, date dallo svolgimento storico, in cui lo trova. Per questo non modifica subito il modo di produzione”(p. 392).

Già abbiamo detto, a tale proposito, che, a nostro avviso, non si può parlare di “capitalismo moderno” se non si presuppone un diverso modo di usare la “figura tramandata storicamente” del processo lavorativo (p. 399). Il capitalismo non nasce solo come trasformazione del denaro in capitale, ma anche, contemporaneamente, come trasformazione del lavoratore in uno strumento “vivo” che deve innestarsi in altri strumenti tecnici lavorativi. Per Marx invece la “rivoluzione nelle condizioni di produzione”(p. 398), ovvero l'aumento della forza produttiva del lavoro, avviene solo dopo che il capitalista ha costatato l'impossibilità (a causa della legislazione statale) di prolungare la giornata lavorativa.

Il sorgere del plusvalore relativo è in realtà una conseguenza delle lotte operaie per la riduzione della giornata lavorativa; è cioè uno dei modi del capitale di riprendersi quello che era stato costretto a cedere in precedenza. Marx non la vede così, perché nella sua analisi il plusvalore relativo è soltanto un altro modo che il capitalista ha di sfruttare l'operaio. E' anzi il modo più intelligente, più razionale, poiché nel mentre si potenzia la forza produttiva del lavoro, si diminuisce il valore della forza-lavoro.

Il valore della forza-lavoro -Marx non si stanca mai di ripeterlo- è pari al tempo di lavoro necessario che occorre per riprodurlo. “Supponendo che un'ora di lavoro si esprime nella massa d'oro di mezzo scellino, ossia 6 pence, e che il valore della forza lavorativa è di 5 scellini per ogni giorno, l'operaio deve lavorare 10 ore al giorno per rimpiazzare questo valore giornaliero della sua forza lavorativa pagatagli dal capitale...”(p. 396)

Quanto poco “valore” abbia la definizione di Marx circa il “valore” della forza-lavoro, in un contesto capitalistico, è determinato, in questo caso, anche dall'esempio astratto ch'egli ha proposto. In effetti, se la forza-lavoro fosse pagata “in natura”, sarebbe immediatamente evidente la corrispondenza reale o illusoria tra il suo valore e il salario ricevuto. Siccome però essa viene pagata in denaro, tale corrispondenza diventa automaticamente molto relativa (anche prescindendo dal plusvalore non retribuito).

L'uso del denaro come equivalente universale, imposto dalla classe capitalistica, comporta una forma ulteriore di sfruttamento della manodopera salariata. Nel senso che solo astrattamente noi possiamo ipotizzare che col salario ricevuto la forza-lavoro è in grado di riprodursi. Concretamente infatti il “salario reale” è cosa assai diversa da quello “nominale”, poiché il capitalista può sempre far leva, più o meno arbitrariamente, sul rincaro dei prezzi dei beni di prima necessità. Dice Marx: “qualora sia determinato il valore dei mezzi di sussistenza, è determinato anche il valore della forza lavorativa”(p. 396). Ebbene, se nel capitalismo c'è qualcosa di altamente “indeterminato”, questo è proprio il valore dei mezzi di sussistenza.

Paradossalmente, neppure l'operaio sa quale sia l'esatto valore della sua forza-lavoro, poiché non può fare riferimento, sul mercato, a una stabilità di lunga durata dei prezzi che maggiormente gli interessano. Egli, in sostanza, al momento della contrattazione, può decidere solo in maniera approssimativa il salario da chiedere. E se è abituato a prendere bassi salari, egli, adeguando la propria vita a quelli già ricevuti, si convincerà che per sopravvivere non ha bisogno di un salario molto più elevato. Tale convinzione ovviamente viene meno quando i prezzi lo portano ai limiti della sopravvivenza.

Gli stessi prezzi rincarati, tuttavia, pur non portando un impiegato statale verso la medesima soglia di povertà, indurranno quest'ultimo a chiedere l'aumento dello stipendio, anche se, prima della richiesta, esso fosse già il doppio del salario dell'operaio. Dunque, pur con due retribuzioni molto diverse, sia l'operaio che l'impiegato lotterranno, a livello sindacale, perché la propria forza-lavoro venga pagata al suo valore, cioè per non scendere al di sotto che quello che entrambi, con due metri di misura diversi, considerano il “minimo vitale”.

Ecco perché una politica che si limita alla contrattazione sindacale lascia, alla lunga, il tempo che trova. Non foss'altro che per una ragione: gli aumenti retributivi che i sindacati riescono a strappare in favore di una categoria sociale, vengono pagati con i bassi salari di un'altra categoria sociale (ivi incluse quelle del Terzo mondo). Non solo, ma se gli operai prendono dei salari da fame, mentre le altre categorie di lavoratori, rispetto a quei salari, prendono degli stipendi discreti o almeno sufficienti, sul mercato i prezzi si rapportano a questi stipendi e non a quei salari, per cui la classe operaia non viene sfruttata solo dai capitalisti, ma, indirettamente, anche dagli impiegati.

Per Marx, al contrario, “contruibuiscono al ribassamento del valore della forza lavorativa l'aumento della forza produttiva e la conseguente riduzione di prezzo delle merci nelle industrie che forniscono gli elementi materiali del capitale costante, vale a dire i mezzi e i materiali di lavoro per la produzione dei mezzi di sussistenza necessari”(p. 399). Cioè a dire, il valore della forza-lavoro diminuisce se calano i prezzi dei beni di prima necessità e i prezzi dei mezzi produttivi che occorrono per questi beni.

Il ragionamento di Marx, di tipo matematico, ha valore solo in quanto astratto. Se le merci calano di valore perché per produrle occorre meno tempo di lavoro, è per lui una conseguenza logica che cali di valore anche la merce per eccellenza che le produce: la forza-lavoro. Anche se il salario “nominale” resta uguale, il capitalista realizza un maggiore plusvalore, poiché è diminuito il salario “reale”.

Qui non si discute il valore di questo ragionamento, ma semplicemente il fatto che il valore della forza-lavoro diminuisca solo perché diminuisce il valore delle merci di prima necessità e dei mezzi per produrle. Il realtà il valore della forza-lavoro diminuisce anche perché, dopo essersi conquistato un mercato più grande in virtù della riduzione dei prezzi di quelle merci necessarie, il capitalista, ottenuto il monopolio, si sente libero di alzare i prezzi delle merci (necessarie e facoltative) mantenendo inalterato il salario nominale dell'operaio. Cioè egli cercherà di strappare il massimo guadagno possibile facendo leva, in un secondo momento, proprio sul rincaro dei prezzi, tenendo sotto pressione i salari e gli stipendi con i quali i lavoratori devono comunque essere in grado di acquistare determinate merci.

Inoltre Marx, insistendo nell'equiparare il valore della forza-lavoro al valore dei mezzi necessari alla sua riproduzione, non si rende conto che nel capitalismo questa equiparazione, alla lunga, non ha alcun significato, poiché in assoluto non può essere vero che “l'aumento della forza produttiva non modifica affatto il valore della forza lavorativa nei rami della produzione che non forniscono né mezzi di sussistenza necessari, né mezzi di produzione adatti alla loro fabbricazione”(p. 399).

L'uso di un'analisi astratta ha portato Marx a credere che nel capitalismo l'imprenditore sia indotto a dare più peso alle cose necessarie alla riproduzione della forza-lavoro, che è poi quella che gli permette di realizzare il plusvalore. In realtà, una convinzione del genere il capitalista può averla solo agli albori del capitalismo. Infatti, appena egli si è impadronito, non tanto come individuo singolo ma come classe sociale, dei mezzi che producono i beni di prima necessità, il suo interesse, questa volta di individuo singolo (che può permettersi di fare certi investimenti, anche con l'aiuto dello Stato), verte prevalentemente su quelle merci che gli permettono il massimo valore aggiunto. Tanto è vero che la produzione dei beni di prima necessità viene affidata alle aziende minori, o addirittura trasferita dal capitalismo metropolitano verso la periferia coloniale (a meno che un'azienda non sia così grande da gestire rami produttivi di genere completamente diverso).

Di conseguenza l'operaio che produce merci non strettamente necessarie ma di alto valore tecnologico (ad es. un automobile o un computer), pur avendo, in proporzione al valore della sua merce, un salario assai ridotto, risulterà comunque un “privilegiato” rispetto all'operaio che produce altri beni, inclusi quelli cosiddetti “necessari” alla sua riproduzione, benché questo operaio prenda un salario più proporzionato al valore dei beni prodotti. Marx non poteva immaginare che il capitalismo, una volta diventato “sistema dominante”, sarebbe caduto in contraddizioni sempre più assurde; però poteva evitare di perdere del tempo prezioso ad analizzare delle contraddizioni che per essere risolte devono soltanto essere superate politicamente.

Il valore sociale di una merce, nel capitalismo maturo, non è più costituito “dal tempo di lavoro necessario socialmente per la sua produzione”(p. 402), bensì dalla volontà del capitalista, che detiene il monopolio in un ramo industriale, di trasformare in “sociale” il valore individuale di una determinata merce. Per farlo egli si avvale della forza produttiva del lavoro, la quale, potenziandosi o specializzandosi ulteriormente, può ridurre i costi di una singola merce, poiché “il valore delle merci è in ragione inversa della forza produttiva del lavoro”(p.404). Ma, una volta realizzata tale riduzione, al capitalista non resta che innescare quei meccanismi di persuasione (pubblicità ecc.) utili a far diventare un prodotto individuale di costo medio o medio-basso un prodotto sociale a costo elevato.

In regime di monopolio il costo effettivo di certe merci fabbricate con tecnologie sofisticate è di molto inferiore a quello che l'imprenditore realizza sul mercato. Perché il costo di queste merci si ribassi occorre che sul mercato si affacci un altro monopolista di forza equivalente. Ma anche in questo caso la nozione di “tempo lavorativo socialmente necessario” continua a non avere senso, poiché la necessità si riduce qui a un confronto di due colossi, non avendo nulla a che fare con le esigenze reali dei consumatori.

Il capitalista quindi, nella fase monopolistica, non sente affatto “l'obbligo di vendere la propria merce a un valore minore di quello sociale...”(p. 404), per realizzare (col maggior numero di merci vendute) un profitto maggiore. La sua esigenza in realtà è un'altra: quella di diminuire il valore individuale della merce aumentandone nel contempo, in maniera arbitraria, finché gli è possibile, il suo valore sociale. Questo perché “il valore assoluto della merce, considerato in se stesso, è indifferente al capitalista che la produce. A lui non interessa altro che il plusvalore racchiuso nella merce e che può realizzare con la vendita”(p. 405).

Marx non ha saputo trarre le conseguenze più estreme da questa sua pur giusta conclusione. Se al capitalista interessa unicamente il plusvalore, egli cercherà di realizzarlo non solo nel momento della produzione, ma anche in ogni altra fase del processo economico (dall'acquisizione della materia prima alla distribuzione del prodotto finito).

Quindi, quel capitalista che, “intento unicamente alla produzione di valori di scambio, cerca in continuazione di far scendere il valore di scambio delle merci”(pp. 405-6), sarebbe uno stupido se, dopo essersi in tal modo creato uno spazio sul mercato, non alzasse il valore di scambio delle sue merci. Infatti, dal momento in cui egli ha cercato d'imporsi al momento in cui vi è riuscito, egli si sarà dotato di mezzi sufficienti per difendersi dalle rivendicazioni operaie di maggiori salari.

Sarà stato lo stesso operaio che, non avendo reagito subito, politicamente, al proprio sfruttamento, avrà dato al capitalista la possibilità di potenziare economicamente le proprie risorse, parte delle quali potranno essere spese per allestire un sistema poliziesco con cui tenere sotto controllo il movimento operaio.

Ecco perché l'operaio, nel momento stesso in cui accetta una riconversione tecnologica dei mezzi produttivi, dovrebbe esigere, nello stesso momento (come minimo), un aumento sostanzioso del proprio salario, evitando di lasciarsi intrappolare nel ricatto del capitale per il quale con gli aumenti salariali non ci può essere ristrutturazione e senza questa c'è disoccupazione. Di fronte al persistere di un ricatto del genere, l'operaio dovrebbe reagire non sindacalmente ma politicamente.

A volte insomma si ha l'impressione che il capitalista descritto da Marx sia un individuo tenuto a rispettare le regole di un proprio galateo (beninteso “da vampiro”), ovvero che la “libera concorrenza” sia una legge che, rispettando certe condizioni, potrebbe anche funzionare. In realtà, il capitalista non si sente tenuto a rispettare altra regola che quella del massimo profitto col minimo sforzo.

Con un ultimo esempio cercheremo di dimostrarlo. Il capitalista, sapendo benissimo che, oltre un certo limite di tempo, la macchina, a causa del logorio, non può più trasmettere lo stesso valore alla merce, non si pone soltanto il problema di come sfruttare meglio la forza-lavoro nel momento della produzione, ma si pone anche il problema di come sfruttarla meglio nel momento della commercializzazione del prodotto. La macchina cioè deve essere sfruttata al massimo anche per “ingannare” il mercato (il che può comportare dei rischi sono se non si fruisce di una posizione monopolistica). Ingannare il mercato significa appunto produrre falsi bisogni, beni che hanno solo un valore effimero, apparente, o il cui valore di scambio è del tutto sproporzionato al loro effettivo valore d'uso. Oggi questa è una strada non meno praticata di quella che vede le aziende produrre beni di qualità, limitando al massimo le rivendicazioni salariali.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015