IL PROBLEMA DELLA RIVOLUZIONE SOCIALISTA NEL PENSIERO DI MARX

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


IL PROBLEMA DELLA RIVOLUZIONE SOCIALISTA NEL PENSIERO DI MARX

Dalla Introduzione alla "Critica dell'Economia politica" di Karl Marx (1859)

Il primo lavoro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel, lavoro di cui apparve l'introduzione nei Deutsch-französische Jahrbücher pubblicati a Parigi nel 1844. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di "società civile"; e che l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica. Avevo incominciato lo studio di questa scienza a Parigi, e lo continuai a Bruxelles, dove ero emigrato in seguito a un decreto di espulsione del sig. Guizot. Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.

Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.

Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.

Ecco perchè l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perchè, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.

Commento e critica

Marx individua nella necessità storica la base della trasformazione del regime capitalistico in regime socialista.

La sua concezione storicistica si basa sull'idea che il livello di sviluppo delle forme produttive e sociali sia la causa dello sviluppo delle forme politiche e dei rapporti di proprietà. Se le prime sono il modo in cui in un dato contesto sociale la produzione è organizzata, le seconde sono invece l'espressione sui piani sovra economici delle prime. Servono a consolidarle dando loro un fondamento politico, costituzionale e ideologico.

Poiché le prime (le forme produttive, e le gerarchie sociali che esse implicano) sono strutturali all'interno di un contesto dato, cioè sono alla base della sua stessa esistenza, le seconde (le forme organizzative: istituzionali e politiche) sono sovra strutturali perché loro funzione è contribuire a consolidare le prime.

Per sopravvivere l'uomo deve procurarsi quel che gli necessita; per farlo - al di fuori dello stadio animale e naturale - deve (almeno a partire dalle forme sociali più evolute) organizzarsi in modo non naturale, ossia basando l'organizzazione della società in cui vive sulla divisione del lavoro.

Tale divisione comporta una gerarchia sociale, che a sua volta comporta l'esistenza di una classe (ovvero di una parte della popolazione) privilegiata poiché posta su un piano di comando, e di un'altra parte che vive in una condizione di subalternità.

Questo vale in tutte le forme produttive passate (se si escludono le forme più primitive come il clan e la tribù in cui, data la loro semplicità strutturale, non esiste ancora divisione del lavoro e quindi nessuna gerarchia sociale):

1. nelle società asiatiche, dove vi è contrapposizione tra casta dei funzionari e contadini;
2. nelle società schiavili, dove vi è contrapposizione tra schiavi e liberi cittadini;
3. nelle società feudali, dove vi è contrapposizione tra feudatari e servi;
4. nelle società capitalistiche, dove vi è contrapposizione tra proletari e capitalisti.

Il logoramento di ogni forma produttiva (causato dalle sue contraddizioni interne, irrisolte) porta come conseguenza la nascita di una nuova forma produttiva, come forma alternativa a quella precedente.

Tuttavia non è mai l'una o l'altra classe che si trova all'interno della precedente forma a far nascere un nuovo stadio dell'organizzazione economica e produttiva, tutt'al più essa dà un apporto o un contributo positivo alla sua affermazione (verosimilmente sarà la classe sfavorita a trarre dei vantaggi dalle nuove forme di organizzazione, e quindi facilmente anche ad alimentarne lo sviluppo).

Gli schiavi non hanno decretato la fine del sistema schiavile, che è stato piuttosto minato dalle sue contraddizioni interne (tra le quali il problema della carenza di schiavi…); ne hanno piuttosto beneficiato migliorando la propria condizione, ossia diventando coloni (in ogni caso sono stati convertiti in un'altra classe, in cui per altro sono confluiti anche altri strati sociali, ad esempio il proletariato cittadino e in generale le classi depauperate.)

Nello stesso modo, i servi della gleba non hanno creato la società borghese, ossia il modo di produzione borghese; al più lo hanno alimentato, poiché in molti per sfuggire alla condizione servile si sono riversati nelle città.

Ogni forma produttiva nasce dalle contraddizioni che minano l'esistenza di quella precedente, indebolendola e infine facendola cadere (oppure rendendola fortemente instabile); ma la forma produttiva successiva, destinata a rimpiazzarla, è qualcosa di diverso che non nasce dal seno della prima: la borghesia non ha nessuna relazione genetica con i servi e con i feudatari, nasce spontaneamente, anche se certo è favorita dalla loro debolezza.

La società feudale sorge come nuova forma produttiva che rimpiazza l'economia schiavile antica, ma certo non ne è 'figlia' (avendo difatti presupposti molto diversi rispetto a essa); a meno che con ciò non si intenda dire che nasce e si afferma per riempire un vuoto: quello lasciato dalla precedente.

Lo stesso vale per ogni macro- trasformazione storica.

Il nuovo nasce dalle ceneri del vecchio ma non come un suo prodotto, bensì come un qualcosa che lo sostituisce (che certo tiene conto delle scoperte e delle strutture del periodo precedente, anche perchè sorge dal suo medesimo terreno).

Se quindi gli schiavi non producono l'economia feudale o servile, se i servi non producono la borghesia e l'economia capitalistica moderna, se le caste non producono l'economia commerciale basata sulla proprietà privata, perché i proletari dovrebbero produrre una nuova forma di organizzazione economica?

Ogni nuova forma è come un nuovo e autonomo seme di civiltà, che niente ha da spartire con il precedente! E' un nuovo discorso, influenzato magari dal precedente, ma in ultima analisi originale e quindi indipendente rispetto a esso.

Allora, su tali basi, come si può postulare che il proletariato possa porre i presupposti atti a sviluppare il socialismo?

Al più potrà essere un fattore alla base del fenomeno della decadenza capitalistica, ovvero determinarne l'indebolimento a livello strutturale. Tuttavia, secondo tale logica, non potrà essere il motore del nuovo: così come la classe schiavile non ha prodotto l'economia servile, né quella servile ha prodotto quella borghese, e le caste orientali non hanno prodotto la società classista occidentale.

Marx invece postula che debba essere proprio il proletariato a creare e a instaurare il nuovo regime socialista. Mentre, in base a quella dialettica storica che lui stesso ha delineato, la classe oppressa potrà essere - con la sua ipertrofia - il sintomo della decadenza di un sistema economico sociale (ovvero del suo essere impotente a risolvere le proprie contraddizioni interne) ed esserne quindi, ma solo in senso passivo (ovvero in quanto 'fattore-zavorra'), causa fondamentale o parziale del suo collasso. Tuttavia mai potrà, in quanto è già parte di un sistema, creare una nuova struttura sociale.

In questo senso condivido l'analisi storica di Marx solo fin dove egli afferma che il proletariato, crescendo come classe in modo esponenziale (e con esso anche il divario tra ricchi e poveri) sarà - o potrà essere, dico io - la causa del declino del sistema capitalista; ma non mi trovo d'accordo quando egli sostiene che tale classe debba essere la sorgente stessa da cui scaturirà una nuova forma di organizzazione sociale: e per di più socialista.

In questi due passaggi Marx dimostra di non saper sostenere un'analisi rigorosa del futuro.

Parlando in termini khuniani, ogni nuovo sistema appare come un nuovo 'paradigma', che nasce a causa del (o viene comunque favorito nella sua affermazione dal) declino e dalla morte di quello precedente (il quale infatti lascia morendo un 'vuoto organizzativo' da colmare); che sorge sulle sue ceneri (spesso anche riprendendone e sviluppandone alcuni motivi interni e strutturali); che lo sostituisce e in un certo grado può per i posteri avere con esso delle affinità (poiché non sempre tra vecchio e nuovo avviene un brusco distacco); che infine spesso ne raccoglie l'eredità storica e ne conserva la memoria!

Ma non è possibile che il nuovo venga generato passivamente dal vecchio. Esso è infatti un'altra cosa, del tutto nuova e autonoma.

Quindi come farebbe il proletariato, classe interna al sistema capitalista a fare sorgere dal proprio seno il nuovo, nella fattispecie il socialismo?

E poi perché ciò (o qualcosa di simile) non è stato realizzato dalle precedenti classi oppresse, che si trovavano in una condizione strutturalmente simile alla sua, seppure in una differente compagine sociale?

Mi sembra che già queste osservazioni mettano in crisi la linearità della deduzione marxiana della società senza classi.

Ve ne sono poi altre, non legate alla componente evolutiva, ma a quella interna.

Ma voglio chiarire ulteriormente in che senso, secondo me, un paradigma sociale nasce autonomamente, sebbene non indipendentemente da quello che lo precede e che va lentamente a rimpiazzare.

Non si può parlare di sviluppo indipendente, in quanto i due sistemi sopravvivono l'uno a fianco dell'altro, almeno per un certo periodo: fino a quando cioè il vecchio sistema non è per così dire 'evaporato' definitivamente, lasciando del tutto il campo al nuovo.

Inoltre, cosa forse ancora più importante, non vi è mai indipendenza totale tra i due perché l'uno nasce da quelle stesse condizioni che fanno morire l'altro! In questo senso, essi 'c'entrano' l'uno con l'altro - e per questa ragione inoltre si sovrappongono temporalmente e fisicamente.

Ma sono comunque due fenomeni ben distinti tra di loro: si basano infatti su assunti differenti (ad esempio, la società schiavile si basa sull'utilizzo degli schiavi come manodopera soprattutto per la produzione, e quindi come base per il commercio e la ridistribuzione dei prodotti nei confini dell'Impero; viceversa l'economia feudale e servile chiusa, si basa sul fatto che una classe di coloni legati alla propria terra d'affitto produca il necessario per la sopravvivenza di se stessa e dei suoi superiori, siano essi valvassori, vassalli o gli stessi feudatari). Diciamo che il secondo sistema produttivo nasce e si afferma sempre per una maggiore capacità di rispondere alle esigenze determinate da una nuova situazione di fatto, creatasi proprio nel corso dell'evoluzione del sistema precedente.

Ma, si badi bene, non sono le classi oppresse interne ad un sistema - ad esempio quello schiavile - a creare il nuovo orizzonte sociale economico e produttivo.

Esse difatti, pure se sono classi oppresse e quindi interessate a un cambiamento, non possono che ruotare - magari in modo 'autolesionistico', per così dire - attorno ai principi di tale sistema e obbedire a essi, un po' come le mosche (mi si passi il paragone) girano attorno alla luce di una lampadina, che infallibilmente le attrae, prima di esserne bruciate.

Le trasformazioni che saranno alla base del successivo sistema si trovano solo in quest'ultimo!

* * *

Ma anche questa affermazione ha bisogno di essere spiegata ulteriormente. Non è la classe dei servi a fare nascere la società borghese, né quella degli schiavi a fare nascere il mondo servile.

E' piuttosto proprio la nuova e sorgente realtà a riqualificare i vecchi soggetti sociali, trasformandoli ad esempio da schiavi (o da proletari depauperati, in cerca di un rifugio più sicuro della antica città) in servi; oppure da servi in fuga dai propri feudatari e dal loro dominio in cittadini borghesi, che alimenteranno quindi l'economia delle città.

Il che dimostra come i due sistemi economici si sovrappongano inevitabilmente nel tempo e nello spazio - ovvero anche nelle persone, poiché la stessa persona può diventare da schiavo servo e passare così da un paradigma all'altro - ma (questo è fondamentale) senza per questo avere egli creato la condizione servile. E' piuttosto quest'ultima ad averlo preso in carico, accogliendolo per così dire nel suo grembo e mutando i connotati della sua identità sociale.

Chi l'ha creata dunque quella nuova dimensione sociale? Si può forse dire che essa si è creata da sé, come soluzione che gradualmente si è affermata in sostituzione del precedente paradigma sociale, senza tuttavia (quantomeno di solito) il consenso volontario e consapevole degli individui che entrano a farvi parte.

Ovviamente, col tempo le nuove classi sociali arrivano a maturare una vera e propria autocoscienza e quindi anche a decidere di scalzare le ultime vestigia (essenzialmente politico culturali) del vecchio sistema.

E' questo meccanismo a dare l'avvio per esempio alla Rivoluzione francese, evento attraverso cui la classe borghese si libera degli ultimi residui (politico culturali, più che economici) della società aristocratica e feudale.

Così come Carlo Magno, nel fondare il Sacro Romano Impero nel Natale dell'800 segna il trionfo politico definitivo della logica feudale, già da molto tempo comunque prevalente a livello sia economico sia politico su quella urbana commerciale dell'antico mondo.

E' chiaro, da quanto si è detto, come il declino di un 'mondo' (chiamiamo così un sistema complessivo di organizzazione della società e delle sue forme produttive) sia effettivamente concomitante allo sviluppo di un nuovo mondo, ma sia anche profondamente diverso da esso.

Mi sembra che l'errore di valutazione di Marx si collochi proprio in questa mancata distinzione.
Egli sostiene difatti che sarà proprio il proletariato, ovvero la classe il cui accrescimento quantitativo è dovuto a un meccanismo interno all'economia capitalistica, a dare l'avvio a un nuovo sistema produttivo: quello socialista.
Tuttavia tale classe, essendo interna al sistema (seppure come ceto oppresso), non può costitutivamente uscire da esso. Infatti è al suo interno che essa riceve la sua stessa identità e il suo destino - che consiste in una vasta gamma di possibili comportamenti, tanto a favore quanto a sfavore del sistema stesso.

Insomma il proletariato può essere espressione dello squilibrio insito nel sistema, la manifestazione di una contraddizione che lo indebolisce e che lo logora, ma non può essere capace per se stesso di proporre un'alternativa a tale logica: ovvero non può creare un 'mondo' diverso.

Non può farlo, non più di quanto potessero le altre classi oppresse.

L'unica emancipazione possibile per il singolo proletario sta nell'uscire dalla condizione di proletario, non nell'eliminazione del proletariato come classe oppure nell'inserimento di esso (il che è poi lo stesso) in una nuova logica produttiva in cui non sia più classe oppressa ma classe dominante e unica.

Nello stesso modo gli schiavi, molti secoli fa, non hanno potuto eliminare lo schiavismo ma - al massimo - emanciparsi singolarmente dalla propria condizione, diventando dei liberti; oppure partecipare a rivolte schiavili. E ciò con esiti sempre (presto o tardi) tragici, poiché tali rivolte sono sempre rimaste per forza di cose mere ribellioni senza poter mai diventare rivoluzioni, non sono cioè mai riuscite a creare nuovi contesti sociali e economici: nuovi sistemi.

Quel che voglio dire è che la rivoluzione è sempre il suggello finale del graduale sviluppo di un nuovo paradigma sociale, e delle classi (soprattutto di quelle dominanti) al suo interno. Essa non può essere quindi il prodotto della ribellione di un ceto (sia pure oppresso) situato all'interno di un determinato sistema economico e produttivo.

Quest'ultimo infatti, al massimo potrà ribellarsi alla propria condizione ma non riuscirà a instaurare un nuovo sistema (se riuscirà a concepirne uno, questo resterà comunque semplice utopia o sogno).

Facciamo ora un paragone: secondo Marx come la borghesia ha cancellato (con le sue rivoluzioni politico sociali) il predominio politico della classe aristocratica, il proletariato dovrà fare prima o poi qualcosa di simile nei confronti del sistema capitalista borghese.

Si dimentica - a mio avviso - che la borghesia al momento della rivoluzione è padrona dei mezzi economici di produzione, se non a livello giuridico quantomeno in senso sostanziale, poiché detiene le vere leve del potere produttivo all'interno della società (che non a caso è già da tempo una società borghese); il proletariato invece non è padrone dell'economia capitalistica, ne è invece il mezzo attuativo, lo strumento pratico, senza per questo essere minimamente in possesso delle leve decisionali di quest'ultima.

Egli quindi è succube della stessa logica in cui il suo sistema lo pone, ed è proprio tale logica a rendere impossibile da parte sua l'esproprio della proprietà borghese (se non come sogno o ideale).

In altri termini Marx confonde la classe emergente interna a un nuovo paradigma, con una che di un vecchio e oramai stabilizzato paradigma è semplicemente parte. O meglio, la sua teoria vive sull'illusione che la classe oppressa di un paradigma, quello capitalista, possa essere anche la classe propositiva che ne afferma uno nuovo.

E tale contraddizione, sebbene non sia forse del tutto evidente, è tanto più reale poiché interna alla stessa dialettica materialista che dovrebbe sostenerla.

Ho cercato quindi di mettere in chiaro per quali ragioni secondo me la dialettica marxista se da un lato è uno strumento di interpretazione validissimo per il passato, non supporta tuttavia (nel suo corretto utilizzo) le previsioni storiche fatte da Marx sulla rivoluzione del proletariato, attraverso la ribellione all'oppressione del sistema capitalista e la creazione da parte di quest'ultimo di un mondo nuovo, quello socialista.

  • Sistema vecchio o consolidato:

si basa sull'organizzazione gerarchica di alcune classi sociali ------------------à

Le classi dominanti ne traggono beneficio a spese di quelle dominate.
Ma in tal modo molti sistemi produttivi accumulano squilibri produttivi, ai quali col tempo non riescono a dare una vera risposta: ciò determina il loro crollo finale
  • Sistema nuovo:

si basa su una organizzazione del lavoro nuova, più rispondente alla nuova condizione sociale e alle reali possibilità organizzative e produttive che si sono venute a creare ---------------------------à

Anche in esso vi sono classe dominanti: ma nuove; esso è emergente nel suo complesso, ma prima di tutto è un mezzo di affermazione per le classi dominanti al proprio interno, le quali - giunte a un certo grado di sviluppo - guideranno una rivoluzione volta ad affermare totalmente il proprio sistema e a scalzare quel che ancora sopravvive del vecchio

La nascita di un nuovo sistema economico e sociale non può partire quindi dall'iniziativa della classe proletaria, ma dall'iniziativa di una classe costitutiva di un nuovo sistema produttivo, che sia alternativo a quello capitalistico.
La rivoluzione a mio avviso avverrebbe, secondo un corretto impiego della dialettica marxiana, dopo che tale nuovo sistema si fosse emancipato dai vincoli di quello vecchio e lo avesse ormai definitivamente superato. Ma il proletariato è come tale classe del e nel sistema capitalista.
Ovviamente a rigor di logica anche questa nuova forma produttiva sarebbe limitata, al pari delle altre. Cioè avrebbe una fine, che molto probabilmente sarebbe il prodotto delle proprie stesse contraddizioni interne.

Un'altra prova: il feudalesimo non ha usato la borghesia per i propri fini intrinseci, ma ha convissuto con essa sin dall'inizio. Poi, col tempo, ne è stata estromessa dal potere politico oltre che da quello economico.
Il sistema schiavile antico è stato soppiantato da quello servile e feudale, ma non ha mai utilizzato i servi: casomai nel momento in cui gli schiavi sono divenuti servi non hanno più fatto parte di un sistema schiavile.
Nel momento infine in cui le caste si sono piegate alla logica del commercio e della proprietà privata, hanno automaticamente smesso per questo di essere caste.
In altri termini tutti i paradigmi 'uscenti' sono prima affiancati e successivamente spodestati dai paradigmi 'entranti'.
Se ciò è vero, perché il proletariato dovrebbe, pur facendo parte - come mezzo produttivo - di un sistema, generarne un altro? Perché dalla logica capitalistica dovrebbe nascere una nuova logica, mentre la stessa dialettica materialista dimostra come questa possa sorgere soltanto al di fuori del sistema vigente?

Marx sostiene che il proletariato è il 'becchino' del capitalismo borghese, come se il sistema borghese si distruggesse e ricreasse dal suo interno, mentre ogni sistema si indebolisce da solo ma viene sostituito da un altro sistema!

L'errore di Marx - a mio avviso - sta nel porre il proletariato sia come classe interna al sistema borghese, sia come classe esterna ad esso e quindi potenzialmente rivoluzionaria.
Egli formula la sua teoria partendo dal presupposto, non supportato dalla sua stessa dialettica, che tale classe sia destinata al tempo stesso a obbedire alle regole del proprio sistema e nondimeno a trovare in se stessa anche il modo per riformarlo, ponendosi cioè al di fuori di esso e della sua logica, e ciò perché essa riveste al suo interno una posizione marginale.
Se questo fosse vero, dovrebbero avere fatto una rivoluzione (o qualcosa di simile) anche le classi oppresse dei precedenti sistemi!
Tali classi invece sono rimaste per forza di cose passive e non hanno creato alcun nuovo mondo, anche se hanno contribuito (di solito inconsapevolmente) al crollo di quello in cui si trovavano, ormai logorato dalle contraddizioni che lo minavano dall'interno.

Non voglio dire con questo che il proletario o che alcuni proletari, o qualsiasi classe interna al sistema capitalista, non possa contribuire attivamente alla sua fine e allo sviluppo nuove di forme di convivenza. Voglio dire che ciò non può avvenire in quanto egli o essi sono proletari (o qualsiasi altra appartenenza di classe abbiano in questo sistema), ma in quanto uomo/uomini radicalmente nuovo/i rispetto agli schemi dell'antico sistema.

Marx invece sostiene che nel proletariato debba risiedere - proprio in quanto proletariato - la molla, il motore di un nuovo sistema produttivo, l'inizio della rivoluzione socialista.

Certo egli ribatterebbe alla mia critica affermando che esso, prima di fare la rivoluzione, si sarebbe trasformato in una classe nuova, sotto lo sguardo miope dei capitalisti. E che - avvenuta una tale trasformazione - troverebbe in sé la forza per ribellarsi all'oppressione dei padroni.

Ma come è possibile che esso sostenga il proprio ruolo sociale di proletariato (ovvero di ceto interno al capitalismo) e maturi contemporaneamente una coscienza di classe che lo pone al di fuori del paradigma in cui si trova e che gli dà (in senso anche morale) un'esistenza?

Se ciò fosse possibile, penso che una rivoluzione l'avrebbero già fatta le precedenti classi oppresse, avrebbero cioè maturato una coscienza della propria condizione e vi si sarebbero ribellate.

Io invece penso - come ho già detto - che ciò non possa avvenire, poiché il muoversi e il vivere (bene o male) in un sistema e di un sistema, ancori inevitabilmente un gruppo sociale a quel sistema e gli impedisca di pensare e di mettere in atto alternative che siano attuabili o possibili per lui, cioè all'interno di quel sistema.

Solo una classe nuova, che si muova sin dal suo inizio al di fuori degli assunti di fondo di tale paradigma, può affermarne uno nuovo! E ciò perché essa è vergine da quei condizionamenti a cui invece l'altra classe (che vi è ancorata sin dal suo inizio) non può sfuggire che astrattamente, ovvero con la fantasia.

Adriano Torricelli


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 26/04/2015