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MONTAIGNE RELATIVISTA

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Montaigne

Montaigne ha degli aspetti incredibilmente moderni nella sua filosofia, seppure collocati in un contesto regressivo, sfiduciato nei confronti della possibilità di cambiare le cose in maniera qualitativa, o di risolvere le principali contraddizioni sociali.

Generalmente viene considerato uno scettico o un relativista, ma solo perché in Europa occidentale si è spesso alle prese con filosofi o politici o economisti abbastanza unilaterali. Questo perché tali intellettuali, pur svolgendo in maniera laica il loro pensiero, risentono enormemente dei condizionamenti pregressi della teologia, cattolica o protestante che sia. Se in Europa fossimo stati abituati non a esportare (cioè a imporre) i concetti di democrazia, libero mercato, diritti umani, cristianesimo e quant'altro, uno come Montaigne non sarebbe stato considerato un relativista di poco conto, uno scettico impenitente, ma un intellettuale del tutto normale, e i critici avrebbero usato aggettivi come fanatico, integralista, assolutista... per tutti gli altri.

Bisogna tuttavia ammettere ch'egli, pur predicando il relativismo contro l'assolutismo, se aveva ragione sul piano teorico, aveva torto su quello pratico. E il motivo è molto semplice: aveva fatto del relativismo un nuovo assoluto. Il che significa - giusto per fare un esempio - che di fronte all'antagonismo sociale tra feudatario e servo della gleba o tra imprenditore e operaio, egli avrebbe relativizzato la contraddizione sociale, quand'essa in realtà aveva (e nel capitalismo ha ancora) le caratteristiche dell'assolutezza, in quanto non socialmente conciliabile, né umanamente accettabile.

Non è certo da Montaigne che verranno fuori i teorici della rivoluzione francese, eppure a lui si potrebbero far risalire le moderne scienze etno-antropologiche e psico-pedagogiche, almeno quelle basate sulla relatività degli usi e costumi o sulla necessità d'interpretare gli atteggiamenti soltanto in rapporto al contesto in cui si formano.

Questo perché egli non vede nell'essere umano alcuna coerenza di idee e comportamenti, e quando la vede, se ne preoccupa, in quanto teme d'essere in presenza di una forma di fanatismo, come quella delle lotte fratricide tra cattolici e ugonotti nella Francia del suo tempo, che dureranno quarant'anni.

Per lui l'uomo è un essere incostante di natura; lo è talmente che per poter giudicare adeguatamente il pensiero e le azioni di qualcuno in particolare, bisogna prima aspettare che muoia!

A quale tipo di uomo si riferisce nei suoi Saggi? Apparentemente sembra voler fare un discorso di tipo "generalista", diremmo oggi, riguardante l'uomo in quanto tale, ma è fuor di dubbio che il suo modello astratto non prendeva spunto né dai servi della gleba, né dagli operai delle manifatture a lui coeve, per i quali l'incostanza poteva, al massimo, essere considerata un lusso irraggiungibile. Egli aveva in mente ben altre categorie sociali, quelle interessate al potere, sia politico che economico. Aristocrazia, clero, borghesia... si preoccupano poco dell'incoerenza, quando ciò può servire per conservare o accrescere il loro potere.

Dire quindi che gli uomini sono incostanti per natura non vuol dire assolutamente nulla, se non si specifica, sociologicamente, a quale tipo di uomo si sta facendo riferimento. D'altra parte l'astrattezza, la genericità è spesso il limite più evidente di ogni forma di filosofia, e non si può dire che Montaigne ne vada esente, anche se saremmo in torto a pensare ch'egli vivesse completamente isolato nel suo castello nei pressi di Bordeaux. Per un certo periodi di tempo si dedicò anche all'attività politica, divenendo persino sindaco di quella città e mettendosi dalla parte dei cattolici per difenderla da un attacco degli ugonotti.

I Saggi non sono altro che un diario personale in cui si prendono in esame vari atteggiamenti o pensieri prevalenti nel suo tempo, cercando di mostrare che il modo migliore per affrontare la realtà era quello socratico, per il quale non esistono certezze assolute. In un certo senso anticipano, come genere letterario, i Diari di Kierkegaard.

L'idea d'incoerenza della natura umana gli viene da un'altra idea: secondo lui il genere umano è nato per caso e non ha alcun fine da perseguire. L'unica cosa che lo caratterizza in maniera costante è che cerca sempre di ottenere qualcosa che non ha. Non si comporta esattamente come gli animali, i quali, dopo aver soddisfatto le loro esigenze primarie, si accontentano.

Ciò comporta che l'uomo non è mai uguale a se stesso. Montaigne su questo non ha dubbi. Eppure, se davvero fosse così, l'idea stessa di scriverci dei Saggi sopra, per cercare di "definirlo", avrebbe dovuto considerarla vana in partenza. Cioè l'atteggiamento socratico, ostile a qualunque tipo di scrittura, avrebbe dovuto essere assunto sino in fondo. Invece Montaigne spese vent'anni della sua vita a scrivere dei Saggi che non volevano essere tanto un diario personale, quanto piuttosto una riflessione esistenziale destinata alla pubblicazione. Egli voleva dimostrare qualcosa a qualcuno, elaborando inevitabilmente una nuova forma di filosofia, che pur si avvaleva di molte teorie del mondo classico, di cui era un grande cultore.

Montaigne critica qualunque forma di antropocentrismo. Se deve scegliere tra uomo e natura, preferisce la natura. Gli animali li trova molto meno curiosi, sicuramente non orgogliosi, né schiavi delle passioni: non si fanno uguali a dio, poiché sanno qual è il loro limite. Sembra qui di vedere un'anticipazione di idee ambientaliste e animaliste.

Ma scrivendo queste cose chi aveva di mira? Davvero l'uomo qua talis o invece una qualche, specifica, categoria di persone? Noi lo consideriamo un intellettuale del Rinascimento, anche se una parte del periodo in cui visse (1533-92) fu caratterizzato dalla Controriforma e, particolarmente in Francia, da una lunga e sanguinosa guerra civile, a livello nazionale, tra cattolici e protestanti. Cosa che in Italia non avvenne.

In uno dei suoi viaggi soggiornò a Roma (1580-81), di cui dovette avere una pessima impressione, poiché a quel tempo la libertà di pensiero in Italia era finita da un pezzo. Forse fu anche per questo che arrivò a elaborare una teoria antropologica così moderna che ancora oggi facciamo fatica ad accettare. Egli infatti non solo denunciò le azioni delittuose compiute dai conquistatori europei nel Nuovo mondo, ma criticò anche con grande acume i pregiudizi della cultura europea nei confronti degli usi e costumi degli abitanti delle Americhe. Aveva praticamente posto le basi delle future correnti più progressiste dell'etno-antropologia, che dovranno, a loro volta, passare per la filosofia roussoviana.

Nella sua analisi i pregiudizi, oggetto di critica, consistevano sostanzialmente in questo: 1. giudichiamo negativamente il "diverso" appunto perché non simile a noi; 2. il giudizio negativo ci serve per legittimare la subordinazione del "diverso" alla nostra volontà; 3. attribuiamo un carattere di limitatezza ad atteggiamenti conformi a natura, senza renderci conto che gli artifici umani non raggiungono mai la perfezione della natura; 4. molte delle popolazioni non europee, incontrate coi viaggi sui mari, non erano colonialistiche come noi non perché tecnologicamente arretrate, ma proprio perché vivevano con la natura un rapporto equilibrato, basato sulla soddisfazione dei bisogni, senza ricercare il superfluo; 5. la vera tolleranza sta soltanto nel confronto tra le "diversità", anche quando si è convinti di possedere la verità delle cose. In sostanza quindi "civiltà" e "barbarie" sono termini che vanno rovesciati.

Ciò che soprattutto lo scandalizza sono i supplizi inferti agli eretici, bruciati vivi sui roghi. Il che però non lo porterà mai ad apprezzare alcunché della fede protestante. Secondo lui le idee di Lutero e Calvino non facevano altro che fomentare disordini e guerra, portando addirittura a un "esecrabile ateismo". Teoricamente quindi Montaigne sosteneva l'equivalenza di tutte le religioni, in quanto per lui non esisteva un criterio razionale per decidere quale di esse fosse l'unica vera; di fatto però, tendendo a preferire quella del passato, data dalla tradizione, finiva col negare la libertà di coscienza.

Conseguenza di ciò è che la verità, per Montaigne, non esiste, essendo soltanto frutto di abitudini e convenzioni. Ed è qui che sta il suo limite. Cioè proprio nel momento in cui scopre che i primitivi possono essere più saggi degli europei civilizzati, non ne trae spunto per una battaglia politica o culturale, ma semplicemente usa questa riflessione per sostenere la relatività delle culture o delle idee.

Il confronto tra le diversità diventa, in un certo senso, fine a se stesso. Si rispettano gli altri soltanto per essere lasciati in pace, per non essere ostacolati nel perseguimento dei propri interessi. Egli arriva persino a dire che se, in coscienza, uno può giudicare liberamente ogni cosa, è meglio però che in pubblico si conformi allo stile di vita dominante, alle consuetudini, poiché i mutamenti troppo repentini o troppo radicali portano sempre con sé degli aspetti negativi. Oggi un atteggiamento del genere l'avremmo definito opportunistico o quietistico, anche perché contraddittorio con l'idea, positiva, della relatività delle culture. Infatti, non solo ciò che è assoluto, ma anche ciò che è relativo, se appare negativo, va modificato.

La ragione, nella sua filosofia, non è uno strumento di conoscenza oggettiva, pertanto è vano usarla per cercare la verità delle cose. Gli eventi storici non possono essere oggetto d'interpretazione unitaria, in quanto non sono collegati da un preciso disegno. Al massimo si può trovare una verità, ma nella consapevolezza che è soltanto una tra tante. In questo atteggiamento così rassegnato, l'unica vera via alla salvezza è, secondo Montaigne, quella di attendere la morte con molta serenità, senza farsi cogliere di sorpresa.

Fonti

Testi di Michel de Montaigne

Testi su Michel de Montaigne


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 22-09-2015