PLOTINO

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PLOTINO

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Alberto Monasterolo

Fuga da solo a solo

Per ciò che riguarda la vicenda personale di Plotino, rimando al testo composto da Porfirio, Vita di Plotino, che, normalmente, accompagna il testo delle Enneadi.

Plotino si occupa, prevalentemente, di Dio. Questo va tenuto ben presente, perché si potrebbe rimanere delusi, muovendo da aspettative diverse. L'etica viene letteralmente schiacciata dalla teologia; di questioni di natura politica neanche una traccia; da questo punto di vista Plotino mostra il suo vero carattere, a discapito dell'accordo col suo mentore.

Il programma di una vita è racchiuso in una frase: Il nostro impegno non è quello di essere esenti da colpe, ma di essere Dio (I 2, 6). D'altronde, l'indifferenza nei confronti di tali aspetti è un precipitato del senso della realtà: gli sono indifferenti, perché sono indifferenti di per sé.

I problemi di natura logica, di filosofia del linguaggio e, in generale, del più vasto ambito gnoseologico, si può dire che siano strumentali alla conoscenza e alla comunicazione di quello che Plotino considera lo stato di fatto della realtà. Risultano, dunque, connessi al problema del “perché” e del “come” Plotino dica ciò che dice.

* * *

Fondamento ultimo della realtà (l'ultima cosa pensabile), in cui ci è dato di esistere, è il Primo, l'Uno-bene. Esso viene detto anche ipostasi ma, pare, in senso analogico. L'Uno è un principio sovraessenziale, vale a dire che non gli si può predicare l'”essere”, né come attributo, né come elemento co-sostanziale: è la cosa più semplice e, in quanto tale, qualunque cosa gli si aggiunga, compreso l'essere, ci si allontana da lui. L'Uno è superiore alla necessità, ed è ciò che è non perché non può essere in altro modo ma perché è quanto di meglio ci possa essere (VI 8, 10).

Al Primo segue un secondo, che è anche una diade, una dualità, che inaugura il fondamento stesso del molteplice. Per quanto riguarda il come, Plotino è abbastanza esplicito. Ci si riferisce comunemente a tale fenomeno con il termine di “processione”: la diade, che è materia intelliggibile, promana dal primo, e si determina rivolgendosi ad esso; in questo senso ipostasi assume il valore di un termine tecnico, che indica sia ciò che è essere, sostanza determinata, ma anche il risultato di un momento preciso del processo, ovvero il momento in cui la diade indefinita si ferma, si definisce, contemplando (1) ciò da cui viene: la contemplazione è un momento ontologicamente determinante.

Il perché presenta qualche problema in più; Plotino si esprime in termini allusivi, parlando di “sovrabbondanza”, “eccedenza” del Primo, ma non dà una sola risposta al problema. Analizzando certi passi si può credere che Plotino abbia in mente un fatto necessario, ad esempio quando afferma che non poteva esistere solo l'Uno, perché ogni cosa sarebbe rimasta nascosta in lui, non assumendo forma alcuna (IV 8, 6).

Tuttavia si afferma anche che Lui non ha bisogno della realtà che viene da lui... E' quello che è, esattamente com'era prima di generare: dunque nessun turbamento se non avesse generato, nessuna invidia se, caso mai, altro si fosse da lui prodotto. L'Uno non era la totalità degli esseri, altrimenti avrebbe avuto bisogno di essi (V 5, 13). Dall'Uno promana un'intelligenza che lo pensa; ma questo sembrerebbe implicare una mancanza in seno al Primo. Altrove pare che - ed è questo il punto di vista su cui mi soffermerò – la necessità sia un giudizio a posteriori, riguardo a un fatto accaduto e irrevocabile, ma contingente: Ora, però, non può essere che qualcosa <di diverso> si generi, perché non c'è nulla che non abbia visto la luce (V 5, 13). Ma su questi aspetti, mi soffermerò più avanti.

All'attività rivolta all'altro da sé, si connette un attività rivolta a sé: l'intelliggibile diventa intelligenza, Cosmo noetico, coincidenza tra pensiero e pensato. Esso è il serbatoio delle forme (idee), dei modelli e di ogni possibile; perciò viene detto “vita”, “intelligenza” ed “essere”. Anche per il Primo vale lo stesso discorso, in quanto in sé e per sé è Uno, assoluta attività autoreferenziale; in quanto origine e “fonte” della seconda ipostasi, va ipotizzata un'attività rivolta ad un potenziale altro da sé, e riguardo a ciò si tenga bene a mente – questo è un principio – che l'”in sé” precede “un qualcosa” (V 3, 13). Tuttavia l'Uno non perde nulla della sua essenza (2), semplicemente ciò che viene dopo è inferiore ad esso, dove inferiorità indica una minore unità, perché la pluralità implica difetto (VI 7, 8), pur possedendo l'Uno come sostegno e principio di stabilità (VI 5, 9). Il Cosmo noetico è perciò definito uno-molti, unità-molteplice, realtà in atto e perfetta (completa).

Il Primo consente una determinazione di ciò che lo segue, e di cui esso stesso è condizione, ma il risultato è una inferiore unità. Il problema dell'”essere” più o meno determinato, dà una risposta, in termini di gradualità, alla distinzione tra essere e divenire.

Analogo processo riguarda la terza ipostasi, quella dell'anima, che è anche il luogo più sofferto della filosofia plotiniana. L'Intelligenza contemplandosi rende possibile, passando attraverso se stessa, la realtà di un dopo (non temporale ma ontologico). Tale dopo, è l'anima. Pare fuori luogo la distinzione che Plotino ne dà: all'Anima universale, strutturalmente connessa al Cosmo intelliggibile, segue un Anima cosmica, copula mundi e demiurgo, che a sua volta si sviluppa nella molteplicità delle anime individuanti. Ma le anime di cui tratta vanno intese come “momenti” e non come sostanze distinte; infatti, il fatto che ci sia una parte bassa dell'Anima non impedisce che tutto il resto stia in alto. In verità quella che si chiama parte inferiore dell'Anima non ne è che una raffigurazione e non una parte separata (VI 2, 22). Inoltre, in sede di chiarificazione psicologica, la tripartizione torna utile.

L'Anima è detta una e molti, ed è la sede delle Ragioni formali, ovvero di quegli elementi che consento la determinazione sensibile, informando di sé la materia. L'anima è anche sede del tempo, poiché dispone uno dopo l'altro ciò che nell'intelligenza è dato tutto insieme, ed eternamente intuito. Come il resto della realtà anche l'anima contempla ed è contemplazione. Tuttavia (escludendo l'approccio metaforico, che tratta del problema in termini di “colpa” o “incapacità”), vuoi per la distanza dall'uno - distanza nell'essenza e non in termini spaziali – vuoi per un difetto strutturale, la contemplazione dell'anima manca di efficacia. Perciò nel rivolgere la sua attività ad altro da sé, non è in grado di determinare un ulteriore livello della realtà, livello che sia realmente “essere”, realmente “contemplazione”.

Così, si chiude letteralmente il cerchio. L'anima si trova a dover presenziare formalmente all'interno della materia; la materia è qualcosa di assolutamente indeterminato, mancanza assoluta, non essere (nel senso che è diverso da esso); il connotato proprio della materia e l'assenza di forma, e ciò si deve al suo non essere qualificata (II 4, 13). Questo perché, la totale privazione, fa si che essa possa ricevere ogni forma; in caso contrario il medesimo principio sarebbe costretto dalle dimensioni proprie della materia e non potrebbe agire di sua iniziativa (II 4, 8). In termini negativi la materia è l'ultima cosa pensabile: esaurito ogni possibile non si può andare oltre al “non essere”.

In tal senso la materia è semplice, il corrispettivo negativo dell'Uno. Si tenga presente, però, che la materia non preesiste al resto della realtà, Plotino non è un dualista. E' più plausibile credere che l'Uno “si faccia spazio”, determinando ciò che è necessario alla determinazione stessa. Essendo “non essere” la materia non va intesa come corpo, la “corporeità” è a sua volta una ragione formale; la materia ha bisogno di tutto, proprio in quanto deficienza totale. L'anima le fornisce questo tutto, ma la realtà sensibile, non riuscendo ad essere indipendente, si appoggia all'anima, della cui presenza ha bisogno per mantenersi nella sua pseudo-esistenza. Perciò, detto in termini plotiniani, è il corpo che è nell'anima, e non viceversa.

La realtà sensibile non è un'ipostasi, la sua propria determinazione è inconsistente, instabile, condannata al divenire. Tutto ciò è stato esposto in termini temporali ma in Plotino tali fatti sono eterni, da sempre accaduti. I due passi in cui viene presentata una prospettiva ciclica degli eventi, implicano semplicemente un'evoluzione in ambito sensibile: la realtà, ai nostri occhi, cambia d'aspetto, ma le cose restano quello che sono da sempre e, per sempre.

Si è detto che all'anima pertiene il tempo, ma l'eternità e il tempo, sono due modi di considerare le cose: tutte insieme o una di seguito all'altra. A entrambi è possibile attribuire carattere di perpetuità.

Ma veniamo a noi. L'universo è uno e continuo, come l'essere. L'analisi che Plotino fa del concetto di “tutto” è profonda e suggestiva, nonché logicamente fondata. In questo “tutto”, si colloca ovviamente anche l'uomo. La somiglianza di caratteri e l'aspetto analogico del reale fanno si che l'uomo possa pensare la realtà, ripercorrendone i suoi vari aspetti o momenti: È come una vita in tutta la sua lunghezza: ciascuno dei suoi tratti è diverso da un altro, ma il tutto, in sé, è senza interruzione e, pur nelle differenze specifiche, il momento precedente non si annulla nel successivo (V 2, 2). L'uomo può certe cose perché tali cose sono effettivamente già. Così, pensa, perché il pensiero è sostanza, intuisce, perché vi sono intelligibili eternamente in atto, incontra Dio perché Dio è una presenza imprescindibile; in Enn. VI 6, 13, tale tematica è molto ben delineata: l'aspetto cognitivo e ontologico appaiono davvero una cosa sola.

Potenzialmente all'uomo appartiene ogni livello dell'essere, perché vi è immerso, deve solo rendersene conto, e volerlo. D'altronde, ciò rende lecito ogni discorso sulla realtà, ogni metafisica: l'uomo può essere padrone in casa propria.

Come accennato all'inizio. un conto è il discorso sui fatti, un'altro conto è il discorso sul “senso” dei fatti. Posto un principio come l'Uno, oltretutto ben circoscritto, credo che sia difficile sostenere la necessità di ciò che segue ad esso. Forse il Cosmo intelligibile può essere considerato come una sorta di possibilità onnicomprensiva, un alone di enti virtuali. Vale a dire, facendo un discorso in ottica retrospettiva, e ipotizzando un “prima”: se seguisse qualcosa al Primo, tale qualcosa sarebbe sempre e comunque la stessa cosa che, effettivamente, si è verificata, e via di seguito.

In ogni caso l'uno è l'unico elemento della realtà che possiede un senso in sé e per sé, l'unica cosa autenticamente fondata, cui l'uomo, volendo, può giungere anche durante la vita terrena. Il fatto che qualcosa si sia determinato dopo di lui (compresa la nostra esistenza sensibile) è sentito da Plotino come un problema e richiede un'attenta analisi. In stretto rapporto a ciò, il senso delle cose può non essere quello che deriva da una considerazione ingenua delle stesse.

Note

(1) In Plotino l'atto del “contemplare” (Θεωρεν) è fondamentale, ma al tempo stesso sfuggente; credo vada inteso come un “presenza dell'altro da sé, che è fondamento ontologico”, evitando qualunque similitudine con l'idea di “guardare verso qualcosa”.

(2) D'altronde, questo è un carattere strutturale del cosmo: ciò che determina una realtà ulteriore, lo fa restando ciò che è.

DIBATTITO CON L'AUTORE DI QUESTO TESTO

E.G. Mi chiedo se tu abbia letto la teologia greco-ortodossa o bizantina precedente a Plotino, perché devo confermare quello che ho scritto molti anni fa. La sua è una contestazione di questa teologia partendo però da presupposti platonici. Critica una nuova teologia per fare della filosofia neo-pagana, stando entro un orizzonte semantico di tipo religioso.
Un’operazione del genere non poteva avere alcun successo e infatti Plotino è rimasto senza seguaci. E quando l’hanno ripreso nell’Umanesimo, è stato perché avevano ripreso tutto il "pre-feudale".

A.M. Premetto che la mia non è una variante, ma si basa, nelle linee generali, sui più recenti studi: Reale, Hadot, Armstrong, Beierwaltes. Il sostrato di riferimento in Plotino, ricchissimo, è la filosofia che l'ha preceduto: oltre a Platone, Aristotele, i presocratici, le filosofie ellenistiche, il medioplatonismo e il neopitagorismo. è anche presente una critica dello gnosticismo (che non è ortodosso).
Il rapporto con l'ortodossia cristiana, leggendo le Enneadi dalla prima all'ultima parola, può solo essere una congettura (né accettabile, né screditabile), che per altro pare essere di scarso rilievo, ai fini della comprensione del suo pensiero.
Per quanto riguarda il peso che ha avuto sulla filosofia successiva, mettendo da parte il medioevo (in cui Plotino è un riferimento costante), oltre che dal Rinascimento, è stato assimilato in modo significativo durante il periodo romantico.
L'ultimo grande filosofo che ha rielaborato posizioni platoniche e neoplatoniche è stato Husserl, che, credo, come nome potrebbe bastare.
In filosofia spesso non si può parlare di veri e propri seguaci, ma si tratta di idee e della loro circolazione.
Inoltre non si può parlare di teologia bizantina prima dell'inizio del VII secolo.
E per concludere, non bisogna confondere la causa con l'effetto: il fatto che Plotino sia stato un pensatore di rilievo per i filosofi e teologi cristiani, non significa che lui sia stato influenzato dal cristianesimo.
Con ciò, sono aperto a essere indirizzato verso letture che provino la sua interpretazione (testi precedenti il III secolo e letteratura critica di valore), nonché ai passi (non tradotti) in Plotino, da cui sia possibile desumere le sue conclusioni.

E.G. La filosofia di Plotino l’ho sempre vista come una teologia cristiana senza Cristo, un po’ come quella di Filone Alessandrino. E secondo me è impensabile una filosofia del genere senza il Nuovo Testamento.
Posso convenire con te soltanto sul fatto che la teologia bizantina vera e propria nasce solo dopo la sua morte: io in verità la faccio risalire al Concilio di Nicea contro l’arianesimo, anche se il fatto che si fosse vinto contro questa eresia dimostra di per sé ch’esisteva già una certa teologia condivisa (che è poi quella neotestamentaria, poiché il primo vero teologo della chiesa cristiana è Paolo di Tarso).
Se tu mi dimostri che senza Plotino la teologia bizantina sarebbe stata impossibile (magari anche solo quella iconografica), allora ritiro tutto quello che ho detto, perché sarebbe un’affermazione altamente laica.
E sarei anche disposto a ritirare molto di quello che ho scritto se tu mi dimostrassi che nell’ambito della teologia bizantina, chi si rifaceva a Plotino (e anche ovviamente a Platone, Aristotele ecc.) era un teologo più laico di chi invece si rifaceva al N.T., ai Padri apostolici, ai monaci del deserto ecc. In fondo quella plotiniana è una mistica razionalistica, che può anche portare all’ateismo, come ogni razionalismo (vedi anzitutto quello cattolico-romano).
In ogni caso devi ammettere che in quello che mi hai mandato non posso trovare una risposta alle mie domande, poiché tu stesso dici che i rapporti tra Plotino e Cristianesimo sono insignificanti. Ma se la significatività di un rapporto del genere, se vi fosse davvero, non necessariamente dovrebbe risultare da una sua netta evidenza. Molta della morale cristiana si rifà a quella di Seneca, eppure il cristianesimo primitivo non l'hai mai ammesso.
In verità detti rapporti sono stati esplicitamente insignificanti solo nel Medioevo, poiché la riscoperta di Plotino avviene solo con Gemisto Pletone.

La vita dell'uomo divino è “fuga di solo a solo”

E' questo il significato della famosa prescrizione dei misteri: “non divulgare nulla ai non iniziati”: proprio perché il Divino non dev'essere divulgato, fu proibito di manifestarlo ad altri, a meno che questi non abbia già avuto per se stesso la fortuna di contemplare.
Poiché, dunque, non erano due, [5] ma il veggente era una cosa sola con l'oggetto visto (“unito”, dunque, non “visto”), chi allora divenne tale quando si unì a Lui, se riuscisse a ricordare, possederebbe in sé un'immagine di Lui; egli però, in quel momento, era uno di per sé e non aveva in sé alcuna differenziazione né rispetto a se stesso né rispetto alle altre cose; non c'era in lui alcun movimento; [10] né collera né desiderio erano in lui, una volta salito a quell'altezza, e nemmeno c'era ragione o pensiero; non c'era nemmeno lui stesso, insomma, se proprio dobbiamo dir così. E invece, quasi rapito o ispirato, è entrato silenziosamente nella solitudine e in uno stato che non conosce turbamenti, e non si allontana più dall'essere di Lui, né [15] più si aggira intorno a se stesso, essendo ormai assolutamente fermo, identico alla stessa immobilità.
Egli ha trasceso ormai le stesse cose belle, anzi, ha trasceso il Bello stesso e il coro delle virtù: è simile ad uno che, entrato nell'interno del penetrale, abbia lasciato dietro di sé le statue collocate nel tempio, quelle statue che, quando egli uscirà nuovamente dal penetrale, gli si faranno avanti [20] per prime, dopo aver avuto l'intima visione e dopo essersi unito non con una statua, con una immagine, ma con Lui stesso: quelle statue che sono, dunque, di secondo ordine.
Quella però non fu una vera visione, ma una visione ben diversa, un'estasi, una semplificazione, una dedizione di sé, brama di contatto, quiete e studio [25] di adattamento; solo così si può vedere ciò che v'è nel penetrale; ma se si guarda in altra maniera, tutto scompare.
Tutto ciò è soltanto un'immagine, un modo allusivo, di cui si servono i profeti sapienti per indicare come il Dio supremo va contemplato; ma un saggio sacerdote che comprenda l'allusione, può giungere alla vera visione solo che entri all'interno del penetrale. [30] Anche se non vi entra, cioè se pensa che questo penetrale sia qualcosa di invisibile, la sorgente e il Principio, egli sa tuttavia che solo il Principio vede il Principio e che solo il simile si unisce al simile; e non trascurerà alcuno degli elementi divini che la sua anima è capace di contenere, già prima della visione; e il resto, poi, lo esigerà dalla visione stessa; [35] ma il resto, per chi ha trasceso tutto, è Colui che è prima di tutte le cose.
L'anima, infatti, non può mai arrivare al non-essere assoluto; se scende in basso, scende al male, e cioè verso il non-essere, ma non al non-essere assoluto; invece, se corre sulla via opposta, giunge non ad un altro ma a se stessa; e così, poiché non è in un altro, [40] non può essere in nulla ma solo in se stessa; “ma essere in sé sola e non nell'essere”, vuol dire “in Lui”; e il contemplante diventa non essenza, ma “al di là dell'essenza”, poiché si unisce a Lui.
Se uno si vede già trasformato in Lui, egli possiede dunque in sé un'immagine di Lui e se passa da sé, che è copia, [45] all'originale, ha toccato finalmente il termine del suo viaggio. Ma se decade dalla contemplazione, egli può risvegliare la virtù che è in lui e, meditando sul suo ordine interiore, ritroverà la sua leggerezza e salirà all'Intelligenza sulla via della virtù e, mediante la saggezza, a Lui.
Questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati: [50] distacco dalle restanti cose di quaggiù, vita che non si compiace più delle cose terrene, fuga di solo a solo.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015