LA STORIA CRITICA DEL MARXISMO DI COSTANZO PREVE

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PREVE DISINCANTATO

ANALISI DELLA STORIA CRITICA DEL MARXISMO

Premessa

Costanzo Preve, scomparso nel 2013, è stato uno di quei teorici marxisti convinti che il socialismo scientifico vada emendato là dove le sue teorie non si sono realizzate o l'hanno fatto nella maniera peggiore possibile. Stravolgendo il significato dell'idea "marxista" circa la stretta unità di teoria e prassi, questi intellettuali non si rendono conto che tra i due elementi c'è di mezzo la libertà umana, e che una prassi sbagliata non è affatto sufficiente per confutare la fondatezza di una teoria, la quale conserva sempre una relativa autonomia.

Poiché tuttavia resta assodato che il criterio della verità è la prassi, è inevitabile che il recupero del valore di certe teorie avvenga, col tempo, in forme e modi diversi, relativi a un mutato contesto di spazio e tempo, per cui quelle teorie non saranno completamente identiche a quelle formulate inizialmente. Questo perché il tempo passa e non invano. Ma se una teoria vera, non può morire. Se una teoria è vera, può anche risorgere.

Il vero problema che, a questo punto, si pone è uno solo: come far risorgere una determinata teoria, ritenuta vera, senza tradirla? La riscoperta di Aristotele, nel basso Medioevo, fu la constatazione che l'aristotelismo conteneva aspetti più significativi del platonismo riscoperto da sant'Agostino. Tuttavia, come l'agostinismo tradì il platonismo, ammantandolo di teologia, così fece la Scolastica nei confronti di Aristotele. Fu, in entrambi i casi, una riscoperta strumentale, favorevole alla chiesa romana, che voleva essere l'unica esperienza possibile della fede (che, nella fattispecie, si poneva addirittura come "Stato della chiesa" e non semplicemente come "Chiesa di stato").

Anche oggi si tenta di fare la stessa cosa nei confronti di Marx. Tutte le opere di Costanzo Preve e del suo discepolo più significativo, Diego Fusaro, vogliono essere una riscoperta del vero Marx. In che senso questa loro riscoperta è autentica o rischia di porsi come un nuovo tradimento? È sufficiente proporre una riscoperta di Marx facendo leva sul fatto che le contraddizioni del capitalismo sono ancora oggi, a un livello ancora più internazionale di quello dei classici del marxismo, assolutamente insopportabili?

Il testo di Preve che prenderemo in esame sarà soltanto uno: Storia critica del marxismo, ed. La Città del Sole, Napoli 2007.

Prima di Marx

Secondo Preve i tre concetti fondamentali per capire Marx sono l'alienazione, il valore e la possibilità in senso aristotelico, di cui l'ultima sarebbe la più importante.

Quando parla di "possibilità" egli si riferisce alla aristotelica dynamei on, cioè alla potenzialità immanente a un processo contraddittorio, quindi suscettibile di qualunque attualizzazione. L'uomo è un essente-in-possibilità, da cui dipende l'alienazione, la quale non vuol dire - scrive Preve - che Marx volesse una ricomposizione con un archè perduto (se fosse così, ci sarebbe stato in lui un condizionamento forte della religione), ma vuol dire, semplicemente, togliere di mezzo quell'impedimento che frena lo sviluppo delle forze produttive.

Ne parla anche a p. 190, laddove dice che György Lukács, quello dell'Ontologia dell'essere sociale, accetta la nozione di essente-in-possibilità, senza però capire che questo essente "appartiene al genere umano indiviso e il suo titolare è solo l'ente naturale generico", non una classe specifica. Preve cioè ammette che ci possano essere "determinati gruppi oppressi che fanno empiricamente e congiunturalmente da 'detonatore' in una situazione storica intollerabile... Ma si tratta solo di detonatori sociali congiunturali, non di 'portatori' metafisici di progetti di emancipazione universale contenuti nell''essenza' del loro nucleo metafisico". Questo per dire che l'ultimo Preve rifiuta i concetti di classe e di partito politico: sono gli uomini in generale che fanno scoppiare le rivoluzioni.

Già da questo si può capire come per Preve le rivoluzioni non abbiano alcunché di organizzato, essendo frutto, più che altro, di movimenti spontanei popolari, inerenti appunto all'astrattezza della possibilità. Questo tema ritorna spesso nel libro e noi vogliamo qui anticiparlo perché è una fondamentale chiave di lettura, in grado di farci capire il peso eccessivo che Preve riserva alla filosofia intesa come "disciplina privilegiata", come "osservatorio al di sopra delle parti".

Il Marx maturo non era una persona astratta, cioè un filosofo, non scriveva tanto "per ammazzare il tempo", come pensava sua moglie, ma perché era profondamente convinto che le sue previsioni un giorno si sarebbero avverate, in quanto, secondo lui, il capitalismo soffriva di interne contraddizioni che l'avrebbero, prima o poi, portato a collassare, necessariamente. Per poter sopravvivere, il sistema avrebbe dovuto rispettare determinati parametri economici, ma, per poterlo fare, avrebbe dovuto rinunciare a quanto maggiormente lo caratterizza: la competizione assoluta tra produttori.

Marx aveva intuito la transizione dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico (e forse proprio questa intuizione gli impedì di portare a termine gli altri due volumi del Capitale, impostati, come il primo, prevalentemente su una forma storica di capitale che tendeva a essere superata), ma non sarebbe mai arrivato a dire che il capitalismo monopolistico è in grado di sopravvivere a motivo della sua interna coerenza. Se avesse potuto analizzare questa forma di capitalismo (cosa che farà Lenin), inevitabilmente si sarebbe accorto di altre contraddizioni antagonistiche, irrisolvibili coi mezzi e metodi del sistema.

Questo perché Marx era dominato dalla categoria della "necessità", che aveva mutuato dalla dialettica hegeliana e anche dalla filosofia spinoziana.

Il socialismo non è una "possibilità" o una "potenzialità" all'interno del capitalismo, ma una "necessità" di cui gli uomini devono rendersi consapevoli, se non vogliono autodistruggersi. Il problema che devono affrontare non è quello del "se" o del "quando", ma quello del "come". Quanto più tarderà il momento della transizione, tanto più dolorosa essa sarà.

La categoria della necessità - a differenza di quello che riteneva l'esistenzialismo, concentrato su quella della possibilità - è la vera categoria della responsabilità umana. È ciò di fronte a cui non ci si può sottrarre, proprio perché non ha le caratteristiche astratte, ipotetiche, della possibilità. La necessità è un impegno che si deve prendere per dare corpo alla possibilità. E in tutti i sistemi antagonistici - non solo in quello capitalistico - l'impegno che si deve prendere è quello di lottare attivamente per rovesciare i rapporti dominanti di proprietà.

Su questo aspetto Marx è stato coerente tutta la vita. Non si può accusare nessun canone filosofico marxista di non averlo compreso. Si può semmai discutere sui criteri e sulle modalità con cui si è cercato di mettere in atto tale convinzione.

La storia umana non è solo destinata, prima o poi, a concludere la sua dimensione terrena, ma essa ha anche un "fine" da realizzare: quello di rendere l'uomo se stesso, facendolo uscire da quella alienazione in cui è precipitato da circa seimila anni, cioè da quando sono nate le civiltà.

La categoria della necessità va vista in rapporto a tutta la storia umana, in cui bisogna includere anche il lunghissimo periodo della cosiddetta "preistoria". Infatti è proprio questa "preistoria" che chiede agli uomini d'essere coerenti con loro stessi e di tornare a vivere un'esistenza conforme a natura. Chi non capisce questa esigenza, non fa che ritardare colpevolmente la sua necessaria realizzazione.

Quanto poi agli altri due temi, dell'alienazione e del valore, Preve, nelle pagine successive, arriverà a dire che l'alienazione è stata trattata meglio da Adorno, Horkheimer, Sartre, Heidegger..., mentre il tema del valore è stato affrontato meglio da Smith e Ricardo. Affermazioni che si commentano da sole, in quanto se c'è stato uno che ha saputo collegare l'alienazione esistenziale alla struttura materiale della società è stato proprio Marx, il quale rese altresì chiaro che prima di lui non si era compresa la vera natura del valore proprio perché in esso non si voleva vedere lo sfruttamento del plusvalore.

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Altro errore di Preve, correlato a quanto visto sopra, è quello di rivalutare l'Hegel politico, il cui concetto di "Stato etico" avrebbe voluto soltanto essere il superamento delle teorie giusnaturalistiche e contrattualistiche del Settecento, sorte all'interno di una borghesia individualistica. Così facendo Preve non vede nella filosofia politica di Hegel il lato conservatore, quello a difesa degli interessi di casta degli junkers prussiani, e non vede nel contrattualismo di Rousseau l'aspetto progressista rispetto al giusnaturalismo, che pur costituiva un passo avanti rispetto alle teorie medievali del diritto divino.

Cioè l'idea hegeliana di "Stato etico" non costituisce affatto il superamento del contrattualismo di Rousseau. Semmai rappresenta una riedizione, riveduta e corretta in senso laicistico, del teologico "diritto divino". Hegel non fece che sostituire il concetto di "Dio" con quello di "Stato", trasformando i sacerdoti (regolari e secolari) in burocrati dell'amministrazione, in parlamentari e, come lui stesso, in docenti universitari.

Preve vede una linea di continuità tra giusnaturalismo, contrattualismo e utilitarismo, nel senso che ogni corrente cercava di superare le contraddizioni della precedente. In realtà l'utilitarismo non rappresenta affatto il superamento del contrattualismo roussoviano, ma, semmai, una ripresa, in senso economicistico, del precedente giusnaturalismo. La differenza, tra le due filosofie borghesi, sta semplicemente nel fatto che la prima dovette lottare contro la teologia medievale; la seconda invece aveva la strada spianata.

Le tesi fondamentali di questo capitolo sono le seguenti:

  1. Marx non ha rovesciato la dialettica hegeliana, ma l'ha applicata, così com'era, a un nuovo oggetto d'indagine storica: il modo di produzione capitalistico.

  2. Semmai Marx ha rovesciato Smith, mostrando che il materialismo utilitaristico del mercato produce solo contraddizioni antagonistiche irrisolvibili, per cui occorre la mediazione di un organo politico che redistribuisca il reddito sulla base dei bisogni.

  3. Questa teoria di Marx è già presente, in nuce, nello stesso Hegel, seppure all'interno di un impianto categoriale di tipo filosofico. Infatti la concezione di "Stato" che ha Hegel, se può essere definita "borghese", non può essere definita "capitalistica". Hegel ha in mente uno Stato che vuole superare le contraddizioni del capitalismo.

  4. La differenza però tra Marx ed Hegel è che quest'ultimo pensa effettivamente a uno Stato equilibrato, in cui la democrazia è rappresentativa, i poteri sono divisi e la Costituzione gioca un ruolo fondamentale. Marx invece, sulla scia di Rousseau, vuole la fine dello Stato e delle istituzioni in generale, preferendo l'autogoverno del popolo. Questo, secondo Preve, è il principale difetto del marxismo.

Dal nostro punto di vista invece è proprio questo il suo principale merito, che però mai nessun socialismo contemporaneo ha voluto mettere in risalto, proprio perché si è sempre preferito realizzare qualcosa più vicino alla filosofia politica hegeliana, nella convinzione, rivelatasi poi illusoria, che le idee statolatriche hegeliane a favore dell'aristocrazia avrebbero potuto essere rovesciate a favore del proletariato, salvaguardando l'impianto formale dello Stato in generale.

Preve, sotto questo aspetto, pare abbia capito ben poco del marxismo, cioè non ha capito che quello che lui considera il suo aspetto di maggior debolezza, è in realtà quello più positivo, quello che può renderlo ancora attuale. Il socialismo marxiano tende a trasformarsi in "socialismo da caserma" quanto più ritiene che senza lo Stato sia impossibile costruire il socialismo, e non quanto meno vuol tener conto delle esigenze politiche dello Stato di diritto. Il "socialismo reale" è fallito non tanto perché si è voluto fare dello Stato un momento di aggregazione centralizzata contro l'interventismo straniero che minacciava di soffocare la rivoluzione, quanto perché si è usato lo Stato come principale arma di "costruzione del socialismo", per usare un'espressione cara a Preve, ch'egli usa per indicare il difetto principale del socialismo sovietico.

L'errore di fondo dello stalinismo, in parte preso dal leninismo (che però aveva il pregio di sapersi correggere velocemente), è stato quello di pensare che il socialismo potesse essere costruito mediante direttive emanate dall'alto. Non si è mai permesso alla società di autogestirsi, di autoriprodursi. Questo modo di concepire lo Stato era tutto di matrice hegeliana, per cui se il socialismo reale è fallito non è certamente stato per le influenze di Rousseau, ereditate da Marx. L'idea che lo Stato deve progressivamente estinguersi non è peregrina né estemporanea, ma è la principale garanzia di sopravvivenza, nel futuro, delle idee del socialismo democratico.

Marx non ha mai apprezzato il concetto di "Stato etico" che aveva Hegel, neppure prima di diventare "marxista". Per lui il modo di vedere le cose, espresso da Hegel nella Filosofia del diritto, andava rovesciato: prima viene la società e solo dopo lo Stato. Nella maturità arrivò a dire che lo Stato deve progressivamente sparire. Lo Stato è un riflesso giuspolitico di rapporti sociali alienati: risolti questi, quello non ha più ragione d'esistere (di qui l'indifferenza per le questioni giuridiche vere e proprie). In tal senso è inutile sostenere - come fa Preve - che il concetto di Stato che aveva Hegel era non solo "etico", ma anche "popolare", connesso a una realtà di popolo. Sempre "Stato" oppressivo era; e, in ogni caso, non sarà mai stato più "popolare" di quello sovietico, dove tutta la proprietà era statalizzata. In quello prussiano tutta la proprietà era privata e lo Stato la difendeva a spada tratta. Gli ultimi gerarchi della burocrazia sovietica ritenevano che l'accezione di "Stato di tutto il popolo" fosse la più idonea a rappresentare il "socialismo reale".

Su questo la differenza tra Marx e Bakunin non era abissale. Entrambi infatti detestavano lo Stato, solo che Marx lo riteneva necessario, in una fase transitoria, per poter fronteggiare l'inevitabile resistenza armata delle classi possidenti, che non si sarebbero lasciate espropriare tanto facilmente. Per Bakunin invece sarebbe stato impossibile costruire il socialismo in presenza dello Stato, per cui poneva la sua eliminazione come precondizione politica e sociale, e quanto alla difesa degli ideali rivoluzionari, avrebbero dovuto pensarci, autonomamente, le comunità contadine armate.

Marx, semmai, andava contestato in un'altra direzione, quella dell'illusorietà di credere possibile un recupero del valore d'uso in virtù di una generalizzazione universalistica ed egualitaria del valore di scambio mediante l'abolizione della proprietà privata. Marx non arrivò mai a capire che il primato del valore di scambio avrebbe impedito qualunque revival del primato del valore d'uso. Non arrivò a capirlo perché l'esperienza sociale, da cui egli proveniva, era quella in cui si era già imposto il primato dello scambio degli equivalenti. Lui vide le contraddizioni insanabili e le ipocrisie di questo scambio, ma pensò che il loro ulteriore sviluppo avrebbe prima o poi reso evidente l'insostenibilità del sistema e quindi la necessità di una transizione al socialismo, in cui fosse superata la divisione tra proprietà e lavoro e quindi tra produzione e mercato e tra uso e scambio.

I fatti però hanno dimostrato che se non si chiarisce subito che la società deve avere un primato sullo Stato e che la produzione deve anzitutto soddisfare i bisogni locali e le esigenze riproduttive della natura, e che quindi la democrazia o è diretta o non è, il socialismo è destinato a fallire, e non ci sarà dialettica hegeliana in grado di tenerlo in piedi.

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Preve usa il concetto di "baratto" come sinonimo di "scambio (equivalente)", in opposizione a "dono", ma questo è un curioso modo di parlare, alquanto bizzarro, che sicuramente non si trova nel marxismo classico, che aveva l'ambizione di porsi come "scienza economica".

Lo scambio (equivalente) di merci è in realtà una prerogativa del capitalismo e dello schiavismo1, in quanto sistemi sociali finalizzati al mercato e non all'autoconsumo, come invece quello del servaggio o dei sistemi pre-schiavistici. Tuttavia là dove esiste autoconsumo, non si parla di "scambio di merci", ma di "baratto", che è lo scambio del surplus.

Semmai si sarebbe potuto dire che il baratto è l'unica vera forma di scambio di prodotti equivalenti, il cui valore è dato proprio dal tempo di lavoro necessario, non astrattamente ma concretamente inteso. Cosa che nel capitalismo è impossibile verificare, sia perché i prezzi interferiscono continuamente coi valori effettivi, sia perché l'estrema divisione tra proprietà e lavoro impedisce di conoscere, ai rispettivi contraenti dello scambio, il tempo effettivamente impiegato nel produrre un oggetto e quindi il costo materiale del relativo lavoro.

Per esempio, se lo sfruttamento del lavoro è molto alto (o perché si lavora troppo o perché si viene pagati troppo poco), ecco che il valore di una merce viene completamente alterato, anche in riferimento a una media statistica relativa al lavoro cosiddetto astratto. Viceversa, nella società dell'autoconsumo il baratto rifletteva e, a sua volta, permetteva una conoscenza più adeguata dell'effettivo costo di un prodotto. Si era più scientifici anche senza alcun calcolo finanziario o matematico: essendo più vicino alla naturalità delle cose, il lavoro dei contraenti permetteva di compiere sul mercato, abbastanza facilmente, una valutazione oggettiva del valore di un bene, limitandosi a una lieve approssimazione per difetto o per eccesso.

Karl Marx

È abbastanza ridicolo sostenere che Marx "fu in larga parte estraneo" all'edificazione del "marxismo", il quale, secondo Preve, fu opera piuttosto di Engels e di Kautsky. Questo per una serie di ragioni:

  1. Marx iniziò a dare una sistemazione organica alle sue idee materialistiche sin dall'Ideologia tedesca.

  2. Non arrivò mai a scrivere una propria "scienza della logica" semplicemente perché non ne ebbe il tempo, in quanto Il capitale assorbì tutte le sue forze.

  3. Engels non avrebbe potuto scrivere nulla che Marx non avesse condiviso, meno che mai quando si trattava di popolarizzare le idee essenziali del marxismo; questo senza nulla togliere al fatto che Marx dipendeva economicamente da lui al 100 per cento.

  4. Engels era così modesto che, rispetto a Marx, ritenuto da lui un genio, si considerava un pensatore semplicemente talentuoso.2

Ha quindi poco senso dissociare Marx dal "marxismo" di Engels e di Kautsky. Al massimo si può sostenere che Engels e Kautsky approfondirono del marxismo alcune idee di fondo, senza riuscire ad essere profondamente innovativi come lo fu Lenin. Ma di Lenin ce ne fu uno solo, e quando venne fuori, col suo Che fare?, pochi avrebbero potuto dire che era un "marxista". Lenin infatti fu il primo a sostenere che nella Russia feudale contadina si poteva passare direttamente al socialismo, saltando la fase del capitalismo, quella fase che tutti i marxisti occidentali, esattamente come Marx, ritenevano assolutamente indispensabile per realizzare la transizione. Inevitabilmente Lenin veniva accusato d'essere un utopista, un avventuriero irresponsabile. Gli ci vollero 15 anni prima di convincere la gran parte dei marxisti russi che aveva ragione. E quando lottava per dimostrarlo, furono piuttosto i marxisti occidentali a "tradire", facendo della seconda Internazionale non il baluardo socialista contro la borghesia guerrafondaia che aveva portato alla prima guerra mondiale, ma il suo inaspettato puntello.

Nessun intellettuale marxista occidentale ebbe la forza di organizzare politicamente un movimento operaio-contadino in grado di trasformare la guerra mondiale in guerra civile nazionale. L'avrebbe avuta questa forza Marx, se fosse stato contemporaneo di Lenin? Fino al 1848 Marx fu un lottatore politico, anche se non conseguì alcun successo; nel corso della Comune di Parigi, all'inizio si dimostrò titubante, ma poi s'interessò anima e corpo a quella iniziativa, dando suggerimenti a destra e a manca. Lavorando alla costituzione della prima Internazionale, non pensò certo di mettere in piedi un'organizzazione eversiva e clandestina, però riuscì a dare un respiro mondiale a un movimento che rischiava di muoversi solo a livello nazionale e senza alcun coordinamento. Neppure oggi il socialismo è in grado di fare questo.

Marx inoltre, alla fine della sua vita, non s'interessò solo di "etnologia e antropologia" - come dice Preve -, ma anche di una possibile rivoluzione russa, guidata dai populisti e dai contadini, sulla base di idee socialiste, le stesse che lui aveva già formulato nelle sue pubblicazioni; riteneva possibile la cosa (cioè la transizione dal feudalesimo al socialismo), a condizione che in Europa occidentale vi fosse una contestuale rivoluzione socialista, altrimenti detta Europa avrebbe attaccato la Russia e sicuramente avrebbe avuto la meglio.

Questa sua convinzione ha preoccupato Lenin e Trotzky per molto tempo, e tutti i marxisti russi si aspettavano che, dopo l'Ottobre, sarebbero avvenuti analoghi rivolgimenti in Europa, e grande fu la loro delusione nel vedere che non solo non si verificò nulla di simile, ma addirittura molti marxisti occidentali avevano preso a criticare quello che in Russia era già stato fatto. Di fronte a una situazione del genere apparve, ad un certo punto, del tutto scontato appoggiare la tesi staliniana del "socialismo in un solo paese" contro quella trotzkista della "rivoluzione permanente".

Oggi che il socialismo stalinista è crollato, a chi dobbiamo dare ragione? A quanti dicevano che, senza uno sviluppo capitalistico, è impossibile una transizione democratica ed efficace al socialismo? Oppure dobbiamo sostenere che le idee di Lenin furono giuste e che il crollo del socialismo è stato causato da un modo errato (quello statalistico) di metterlo in pratica? Davvero la Russia, adesso che ha imboccato decisamente la strada del capitalismo, riuscirà a realizzare un socialismo migliore di quello burocratico? Vi è fosse riuscito qualche paese dell'Europa occidentale? Non è un po' comodo riservare a Marx, in mezzo a tutti i marxisti, un ruolo privilegiato, per poi dire che fino ad oggi non si è realizzato alcun vero socialismo perché le sue idee erano state male interpretate? Chi è Costanzo Preve da poter dire che la sua interpretazione è migliore delle altre?

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Su questo però è necessario spendere ulteriori parole, poiché, in generale, s'è molto discusso sul rapporto tra Marx ed Engels, e Preve ne fa un caposaldo dell'intero suo libro.

Se davvero si pensa che il marxismo sia stato "fondato" da Engels e Kautsky in quel periodo che va dalla fondazione del partito socialdemocratico tedesco, unificato nel congresso di Gotha (1875), sino alla morte di Engels (1895), escludendo che Marx possa ritenersi "responsabile" di tale fondazione, si dice una sciocchezza. Engels fu il primo a capire che le due cose più importanti del "marxismo" erano l'analisi economica e l'impegno politico.

Di propriamente "engelsiano" vi fu altro: un metodo storiografico che sapeva vedere come reciprocamente influenzabili gli elementi strutturali e sovrastrutturali (si pensi solo al fatto che fu proprio lui a individuare nella religione taluni aspetti eversivi e niente affatto consolatori o giustificazionisti); una filosofia materialistica che sapeva vedere come strettamente interconnessi gli elementi umanistici e naturalistici (recuperando, in questo, il valore dell'hegeliana filosofia della natura); uno spiccato interesse per le questioni militari; una notevole capacità organizzativa a favore dell'Internazionale comunista. Engels anticipò Marx persino nello studio dell'economia politica e diede al "marxismo" una rigorosa impostazione filosofica.

Considerare Engels "inferiore" a Marx sarebbe un imperdonabile errore. L'uno integrava l'altro. Marx aveva bisogno di Engels non solo per il pane quotidiano, ma anche come consulente per le questioni economiche, come collaboratore fondamentale per le questioni organizzative del movimento comunista, persino come "rettificatore", in senso anti-dogmatico, del proprio pensiero (la questione della struttura economica come valida in ultima istanza è fondamentale). Per convincersi di questo è sufficiente leggersi il loro carteggio.

Engels prese il meglio del pensiero di Marx, quello a lui noto, gli diede una sistemazione organica e lo migliorò. Se accentuò il lato deterministico del pensiero di Marx, laddove p. es. parla della differenza tra socialismo utopistico e scientifico o della transizione dall'una all'altra delle cinque formazioni sociali, fu perché era convinto che questi aspetti fossero fondamentali nella concezione materialistica di Marx.

Quando i comunisti leggevano Marx, lo facevano attraverso il filtro di Engels, anche quando Marx, che pubblicò pochissime opera e per di più su riviste, era in vita. Engels non scrisse mai nulla che Marx disapprovasse. Quando nacque in Russia il cosiddetto "marxismo-leninismo", Engels veniva considerato parte organica di questa filosofia e ideologia politica. Non si incontrerà neanche una riga, nei tanti volumi scritti da Lenin, in cui si dica che il pensiero di Engels non collimava con quello di Marx. Per la fondazione del materialismo storico-dialettico i comunisti russi consideravano fondamentale l'Anti-Dühring. Lenin stimò molto anche Kautsky, almeno sino allo scoppio della prima guerra mondiale.

Quindi, se si pensa di poter scindere il pensiero di Marx da quello di Engels, al solo scopo di poter dare un'interpretazione di Marx che Engels non avrebbe potuto condividere, si sta commettendo un errore. Non c'è nulla di Marx che possa essere usato in senso "anti-marxista", cioè contro la "vulgata" che del suo pensiero è stata fatta dopo la sua morte. Marx ed Engels vanno interpretati come un tutt'uno, un unicum che, nella sostanza, resta inscindibile.

Chi ha davvero dato un contributo originale al pensiero della coppia Marx-Engels è stato Lenin. Chi non riconosce la superiorità di Lenin su Marx ed Engels sul piano della teoria politica e dell'organizzazione partitica in senso rivoluzionario, è inutile che si metta a reinterpretare Marx. L'unica possibile reinterpretazione di Marx deve necessariamente passare attraverso il leninismo. Quindi non solo non si può separare il pensiero di Marx da quello di Engels, ma non si può neppure separare il pensiero dei due fondatori del marxismo da quello di Lenin.

Il contributo di Lenin al marxismo va considerato di importanza capitale, assolutamente imprescindibile per qualunque studio sul marxismo, anche per le analisi di tipo filosofico ed economico, poiché Lenin non fu solo un politico. Questo per dire che, se si vuole andare oltre Marx ed Engels, integrandoli con nuove idee, bisogna andare oltre anche Lenin, ma bisogna saperlo fare restando nei limiti del socialismo.

Tale lavoro integrativo, di perfezionamento, delle idee dei classici del marxismo (Marx, Engels e Lenin) non può, in alcun modo, essere cercato nelle opere di Stalin o di Mao; non può essere cercato in alcun soggetto individuale. Il "completamento" delle idee del marxismo-leninismo, in grado di determinare il superamento dei limiti di questa corrente di pensiero e di azione, potrà in futuro essere patrimonio solo di un'esperienza collettiva. È finito il tempo delle individualità geniali, inevitabilmente soggette a ingiustificati culti.

Il destino del socialismo è nelle mani di chiunque voglia davvero realizzarlo nel rispetto della democrazia. Occorre quindi porre le condizioni per cui chiunque voglia impegnarsi in questa costruzione si senta coinvolto come chiunque altro, responsabile a pari titolo. Condizioni del genere, se davvero si vuole rispettare la democrazia, devono andare al di là delle differenze di cultura, di lingua, di origine geografica, di genere e orientamento sessuale... Un'esperienza autentica di socialismo, in cui il più "piccolo" conti come il più "grande", deve poter andare al di là di qualunque differenza prodotta dalla cultura o dalla natura.

Per realizzare un'esperienza del genere occorrerà rivedere completamente il rapporto uomo-natura, poiché è su questo aspetto che il marxismo-leninismo si è mostrato maggiormente deficitario. La costruzione del socialismo deve avvenire rispettando non solo la democrazia diretta (con cui eliminare lo Stato) e l'autoconsumo (con cui eliminare l'egemonia del mercato), ma anche le esigenze riproduttive della natura, con cui eliminare la tendenza prevaricatrice della scienza e della tecnica. Tale costruzione deve necessariamente riconsiderare l'intera epoca chiamata "preistoria" o comunque l'epoca antecedente alla nascita dello schiavismo.

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Preve vede in Marx il campione della libertà e non anche il teorico della necessità. E, dopo aver preso in esame la sua tesi di laurea su Democrito ed Epicuro e il quaderno giovanile su Spinoza, ove, in effetti, egli parla a favore della libertà contro la necessità, estende a tutta la sua vita questa convinzione giovanile, che però era ancora molto influenzata dalla Sinistra hegeliana.

Per quale ragione Preve compie un'operazione così forzata? Semplicemente per impedire che Marx venga coinvolto nell'interpretazione, basata sull'idea di necessità, che di lui diedero tutti i suoi seguaci. Preve vuol fare dell'eccezione una regola, senza peraltro rendersi conto che quei due testi furono noti al pubblico soltanto molto tardi, come quelli su Leibniz, Hume, Rousseau, Machiavelli...

A partire dal momento in cui Marx elabora la sua teoria economica, cioè la sua filosofia della storia a base economicistica, il concetto di necessità prevale nettamente su quello di libertà, e proprio per il motivo che Marx non vede la sovrastruttura che come riflesso della struttura. Saranno semmai Engels e soprattutto Lenin e poi Gramsci a correggere il tiro, dicendo che il primato dell'economico sul culturale è valido solo in ultima istanza e che la politica è una sintesi dell'economia e che si può egemonizzare culturalmente la società prima ancora d'aver compiuto la rivoluzione politica. Gli interpreti di Marx favorevoli alla categoria della necessità (Kautsky, Plechanov, Labriola ecc.) furono anche quelli meno favorevoli a una transizione verso il socialismo non motivata dall'esaurimento delle forze propulsive del capitalismo.

Qui ovviamente ci sarà sempre qualcuno che potrà obiettare che, se davvero Marx riteneva la sovrastruttura un mero riflesso della struttura, non si capisce da dove a lui venisse la coscienza critica delle contraddizioni insanabili della struttura. È una vexata quaestio. Marx in realtà non ha mai escluso che un intellettuale possa comprendere criticamente gli antagonismi sociali del sistema in cui vive. Semplicemente escludeva che ciò fosse sufficiente per ribaltare quel sistema. Neanche mille o un milione di intellettuali, in un determinato paese, vi potrebbero mai riuscire se prima la maggioranza della popolazione non si è resa conto che le potenzialità del sistema sono finite.

Per Marx è solo dalla discrepanza insanabile tra forze e rapporti produttivi che può nascere la transizione. Ci vogliono delle crisi epocali prima di poter parlare di situazione rivoluzionaria. Nessuna crisi economica del capitalismo mondiale, nella seconda metà dell'Ottocento, venne ritenuta sufficiente, da Marx o da Engels, per organizzare una battaglia politica con cui abbattere il sistema, almeno non in Europa. Al massimo Marx arrivò a credere possibile la fine dell'imminente schiavismo nell'America del Nord e quella dell'impero zarista.

La differenza tra Marx e Lenin stava appunto in questo, che Marx si limitava ad analizzare le contraddizioni del sistema, in quanto, ad un certo punto, smise di credere possibile una rivoluzione in Germania (neppure in senso borghese, e ci vorrà infatti la fine della prima guerra mondiale prima di veder crollare l'impero prussiano). Lenin invece era convinto che dovessero essere gli stessi intellettuali a favorire, con una battaglia politico-partitica, dentro e fuori del parlamento, in maniera legale e clandestina, il momento della rottura decisiva, al fine d'impadronirsi quanto prima del potere e di evitare inutili e ulteriori sofferenze alla popolazione. Questo perché, secondo lui, le crisi economiche, di per sé, non producono rivoluzioni consapevoli, cioè finalizzate a un obiettivo chiaro e distinto, ma solo ribellioni spontaneistiche, che, proprio per il loro carattere istintivo, possono persino favorire, indirettamente, il rafforzamento dei poteri dominanti, ai quali non mancano certo i mezzi per sfruttare, con atteggiamento strumentale, il malcontento popolare.

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Secondo Preve Marx è un hegeliano che ha applicato all'economia le caratteristiche della dialettica idealistica, accettando di questa assolutamente tutto, cioè senza suddividerla - come fece Engels - in "metodo rivoluzionario" e "fine conservatore".

All'origine di questo fraintendimento engelsiano della dialettica di Marx starebbe - secondo Preve - il fraintendimento di quella hegeliana. Hegel, infatti, aveva già capito, nella sostanza, i limiti dell'utilitarismo di Smith. Marx non fece che arrivare sino in fondo a quella stessa strada che Hegel aveva già iniziato a percorrere.

Secondo noi Preve fa male a voler tentare, a tutti i costi, nuove interpretazioni di Marx, come se, a distanza di 150 anni dal suo pensiero, quello che si poteva dire ancora non è stato detto. Se mai si dovrebbe ripartire da Lenin, se si accetta il presupposto che il miglior interprete di Marx sia stato proprio lui.

Ripartire da Lenin però è gravoso. Qui infatti si ha a che fare con un intellettuale che, nel contempo, non smette mai di fare il politico e, quando fa il politico, non smette mai di porsi come obiettivo l'abbattimento del sistema.

Lenin non può essere semplicemente "letto", come Marx. Bisogna anche impegnarsi concretamente in una realtà politica (movimento o partito che sia), altrimenti si rischia facilmente di non capirlo. E mettersi lì a considerare Marx superiore a Lenin è da sciocchi, poiché nessuno può essere considerato superiore a Lenin quanto a capacità organizzativa di una rivoluzione politica, la quale, è bene qui ricordarlo, fu assolutamente indolore: i morti vennero dopo, quando le forze reazionarie, spalleggiate dalle potenze occidentali (Europa, Usa e Giappone), scatenarono la controrivoluzione.

Non solo non è mai esistito un equivalente di Lenin nell'Europa occidentale, ma non se ne trovano neppure a livello mondiale. Non reggono il confronto né Mao, né Trotzky, né Castro, né Che Guevara, né Ho Chi Minh, né Béla Kun, né Zapata o Pancho Villa, né l'Ortega dei sandinisti... (tanto per citare dei nomi prestigiosi nell'ambito della politica rivoluzionaria). Non può essere paragonato neppure al fondatore della scienza della politica, Machiavelli, sia perché quest'ultimo non aveva alcun interesse per le classi marginali, sia perché era caratterizzato da un inquietante cinismo. Lenin non è stato solo un genio della politica, sia sul piano teorico che pratico, ma è stato anche uno che si è sforzato di trovare un nesso tra democrazia politica e socialismo economico - cosa che a Stalin non riuscì mai in alcun modo.

Per quale motivo siamo disposti ad ammettere che, nel campo della fisica, nessuno può reggere il confronto con Einstein, e abbiamo così tanta difficoltà a dire la stessa cosa di Lenin in campo politico? Marx è stato senza dubbio un genio dell'economia, ma anteporre lui a Lenin in campo politico sarebbe un'assurdità. Bisognerebbe anzi dire che le analisi economiche di Lenin sull'Imperialismo costituiscono un contributo assolutamente fondamentale alla comprensione delle dinamiche capitalistiche del Novecento.

Fa specie che un intellettuale di grande cultura come Preve non abbia capito questi elementi essenziali del socialismo scientifico. Non foss'altro che per una ragione: se davvero Marx è stato un economista "hegeliano", doveva per forza sponsorizzare la categoria della necessità e non quella della possibilità (cosa che, semmai, ha fatto Kierkegaard). Ma il paradosso, tuttavia, sta proprio in questo, che il marxismo meno originale è proprio quello che fa della "necessità" la chiave per interpretare la storia. Quindi Marx è sì dipendente da Hegel su un aspetto decisivo della propria filosofia della storia, ma per motivi opposti a quelli pensati da Preve, che, su questo aspetto, pur di salvare sia Hegel che Marx, è costretto ad arrampicarsi sugli specchi, negando la necessità di una rivoluzione che non debba attendere l'implosione del capitale.

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Preve è contrario all'idea di vedere nel proletariato industriale in sé un soggetto rivoluzionario. Per lui non lo furono né gli schiavi né i servi della gleba, perché nel primo caso furono i barbari a distruggere lo schiavismo, e nel secondo fu la borghesia a distruggere il feudalesimo. Equiparare "classe sfruttata" a "soggetto rivoluzionario" è stata una forma di ingenuo messianismo.

Secondo Preve "il probabile affossatore del capitalismo" doveva essere, nell'idea di Marx, "un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale", ch'egli chiama con le parole inglesi "General Intellect" (p. 123), di cui quindi l'operaio di fabbrica avrebbe costituito soltanto una componente. Questo "lavoratore collettivo" sarebbe organizzato sindacalmente e politicamente.

La letteratura marxista l'avrebbe scoperto nel 1939, dopo la pubblicazione dei Grundrisse, in cui Marx introduce, di sfuggita, il concetto di "General Intellect" nel "Frammento sulle macchine", non approfondito nel Capitale. In queste pagine egli arriva a dire che nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato per produrre merci e molto di più dalla potenza dei macchinari e soprattutto dalla conoscenza scientifica applicata secondo una certa organizzazione per far funzionare al meglio la tecnologia. Cioè è la conoscenza stessa che tende a trasformarsi in forza produttiva immediata.

Marx arrivò forse a dire che con questo Intelletto Generale si poteva evitare di compiere una rivoluzione politica? Non pare proprio; anzi, in quelle poche pagine dei Grundrisse lascia capire che la rivoluzione sarebbe stata ancora più complicata ma non meno necessaria; semmai sarebbe stato il socialismo a utilizzare tutti i vantaggi della scienza applicata alla tecnologia.

Viceversa, secondo Preve, l'unico ad aver capito, su questo punto, il pensiero di Marx è stato Gianfranco La Grassa3, "il maggiore prodotto dell'althusserismo italiano" e il maggior esponente italiano del "maoismo teorico", in quanto fu "una traduzione del maoismo francese contemporaneo, di cui Louis Althusser fornì la parte filosofica e Charles Bettelheim le parti storica ed economica" (così Preve in Una introduzione al pensiero marxista di Gianfranco La Grassa4).

"Grazie a Gianfranco La Grassa, chi scrive - dice Preve nell'Introduzione citata - ha potuto capire che il soggetto intermodale di cui parlava Karl Marx non era la semplice classe operaia e proletaria (tesi paradossalmente 'estremistica' del moderato Kautsky), quanto il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale, alleato con le potenze mentali, tecniche e scientifiche, evocate dalla produzione capitalistica, e connotate da Marx con la parola inglese general intellect. Senza Gianfranco La Grassa chi scrive non avrebbe mai potuto capire da solo che la mancata formazione di questo lavoratore collettivo doveva essere ricercata a livello di conflitto inter-imprenditoriale e non a livello di produzione coordinata di fabbrica, in cui invece (ma non è sufficiente) un lavoratore collettivo cooperativo in qualche modo si forma. E così, grazie a Gianfranco La Grassa, la mia diffidenza per lo storicismo progressistico lineare e la mia antipatia per l'operaismo (soffocante a Torino, città in cui mi è toccato di vivere) hanno finalmente trovato un fondamento razionale di spiegazione".

In sostanza cosa dice Preve? Dice, riprendendo la tesi dell'amico La Grassa, che il proletariato industriale, come classe in sé, è destinato ad essere assorbito nel concetto di "lavoratore collettivo" e che, se questo concetto può esistere a livello di singola fabbrica, non può però esistere, sotto il capitalismo, a livello di "rete di imprese". Marx quindi avrebbe sbagliato due volte: la prima a individuare il soggetto rivoluzionario nel proletariato industriale; la seconda nell'averlo individuato in questo fantomatico "lavoratore collettivo", che sotto il capitale non può esistere.

Su questo tema Preve torna più volte nel suo libro: a p. 151 sembra voler interpretare Marx come un marxista pentito. Cioè, siccome l'operaio salariato non è stato capace di fare la rivoluzione, questa verrà fatta - quasi necessariamente - da un soggetto più astruso, più intellettualizzato, appunto il "lavoratore collettivo", che necessariamente dovrà portare la proprietà a trasformarsi da privata a pubblica. Scrive poi a p. 156: "il capitalismo per conto proprio evolve 'materialmente' verso il socialismo". Quindi si tratta solo di aspettare. A p. 165 scrive che il comunismo non deve essere "costruito", cioè affermato con una rivoluzione politica: esso "risulta da una dialettica economica e sociale interna ai punti alti della società capitalistica, in cui si forma un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale, che si congiunge col cosiddetto General Intellect, cioè col sapere complessivo dell'umanità...".

Chissà perché Preve non si è mai chiesto il motivo per cui questa affermazione marxiana dei Grundrisse non sia mai stata ripresa nel Capitale. Se fosse stata così decisiva per la realizzazione del socialismo, sarebbe stato ben strano il comportamento di Marx: una sbadataggine imperdonabile. Qui è evidente che Preve non ha capito che per arrivare a quel tipo di lavoratore, bisogna fare prima una rivoluzione politica, in cui il sistema venga abbattuto con la forza.

Detto altrimenti, il modo di ragionare di Preve parte dal presupposto che, siccome in Europa occidentale il proletariato industriale non è riuscito a realizzare alcuna rivoluzione socialista, tutto il pensiero di Marx relativo alla ricerca di un "soggetto rivoluzionario" è sbagliato. Tant'è che - prosegue Preve - lo stesso Marx, nell'ultimo periodo della sua vita, si mise a studiare antropologia ed etnologia, al fine d'inserire la sua teoria dello sfruttamento in un quadro storico più complessivo, che vedesse al centro dell'interesse teorico l'evoluzione complessiva dell'umanità e non tanto l'emancipazione economica di una classe sociale. Preve legge Marx con gli occhi di un intellettuale politicamente sconfitto e va a cercare in Marx tutte le possibili giustificazioni di tale sconfitta.

In verità anche Marx era un intellettuale politicamente sconfitto, ma tra i due c'è una bella differenza: Preve è un disincantato rassegnato, Marx non lo è mai stato. E quanto di Marx dice Preve, su questo punto, è completamente sbagliato.

  1. Anzitutto Marx non smise mai d'interessarsi di rivoluzione politica. Lo si vede con quanta cura seguì le vicende della guerra di secessione americana, che lo convinsero a trasferire negli Usa la sede dell'Internazionale comunista. Se avesse potuto, l'avrebbe trasferita in Russia, in quanto si era reso conto che qui vi erano i presupposti per una rivoluzione che nel contempo avrebbe potuto essere antifeudale e immediatamente socialista, saltando la fase borghese, anche se vincolava questa inedita possibilità a una preliminare rivoluzione socialista in un qualche paese dell'Europa occidentale.

    Egli inoltre non escluse mai a priori l'idea che in Germania, grazie anche all'azione del partito socialdemocratico, si potesse compiere una rivoluzione borghese che permettesse a lui e alla sua famiglia di tornare in patria. E guardò sempre con molto interesse l'iniziativa rivoluzionaria di Garibaldi in Italia. Per non parlare della resistenza armata dei comunardi parigini, su cui scrisse anche un libro.

    Il fatto che avesse deciso di staccarsi definitivamente dall'anarchismo di Bakunin, non deve essere visto come il tentativo di togliere al proletariato industriale l'esigenza di lottare soggettivamente per la rivoluzione. Semplicemente Marx non credeva che questo lato "soggettivo" potesse esplicarsi senza l'organizzazione di un partito politico, cioè in maniera spontaneistica, non disciplinata, non centralizzata, non intenzionata a occupare le leve dello Stato.

    Che poi Marx non sia mai riuscito a realizzare un partito del genere, almeno non nell'Inghilterra ove viveva, questo è un altro discorso. Nella sua Germania il partito nacque, grazie al lavoro di Kautsky, Bebel, Lassalle..., anche se bisognerà attendere il genio di Lenin prima di avere un partito davvero rivoluzionario, capace di vedere nei contadini un alleato fondamentale degli operai. Quando Marx criticò il Programma di Gotha, non lo fece certo per dire "addio" alla rivoluzione. L'Internazionale comunista è stata uno strumento fondamentale per coordinare il lavoro di tutti i partiti operai (soprattutto europei) della seconda metà dell'Ottocento.

  2. Il secondo aspetto da chiarire riguarda l'analisi storiografica, che in Preve è molto carente. Se si esamina la storia della repubblica e dell'impero romano, si noterà facilmente che i conflitti sociali erano all'ordine del giorno. Che essi siano stati caratterizzati da specifiche rivolte schiavili o da generiche lotte sociali non fa alcuna differenza. Che i protagonisti di questi acuti antagonismi fossero i lavoratori più sfruttati o quelli privi della cittadinanza o quelli colonizzati nelle province, non toglie nulla al fatto che le invasioni barbariche riuscirono a sortire il loro effetto proprio perché il sistema schiavistico era in procinto di collassare per motivi endogeni. Un sistema del genere, infatti, proprio per le acute contraddizioni che creava al proprio interno, aveva continuamente bisogno di espandersi territorialmente, e quando questo non gli fu più possibile, a causa della resistenza delle popolazioni cosiddette "barbariche", la sua sorte era segnata. L'impero bizantino poté sopravvivere per altri mille anni semplicemente perché in quell'area le contraddizioni furono meno acute, o comunque fu più lungimirante la capacità governativa di affrontarle.

    Non ha quindi alcun senso sostenere che gli schiavi non hanno abbattuto lo schiavismo. Fino a Spartaco gli schiavi sono stati costantemente in rivolta, e dopo Spartaco le rivolte si sono spostate verso la periferia dell'impero, tra province colonizzate e Roma imperiale, fino al punto in cui si arrivò a non fare più alcuna differenza tra schiavi e liberi, in quanto anche le persone in grado di fruire dei privilegi della cittadinanza potevano essere facilmente schiavizzate (p.es. perché espropriate dei loro piccoli lotti, perché rovinate dalla concorrenza dei grandi latifondisti o dal peso dei debiti o delle guerre, perché non potevano disporre di manodopera schiavile, ecc.). E quando si arrivò a quel punto di oppressione, si cominciò a guardare i cosiddetti "barbari" come a dei "liberatori".

    Lo stesso occorre dire dei servi della gleba. Le rivolte di costoro contro i feudatari furono costanti per tutto il Medioevo e anche in epoca moderna, con o senza l'apporto della sovrastruttura religiosa. È vero che fu la borghesia a dare il colpo di grazia al feudalesimo, ma senza l'aiuto dei contadini non ce l'avrebbe mai fatta, proprio perché la borghesia non è mai stata una classe "popolare". Anzi, essa è riuscita tanto più a fare le proprie rivoluzioni anti-feudali quanto più ha cercato di "confondersi" (almeno a livello di esigenze, di interessi comuni) con la vera classe "popolare": quella contadina. Non a caso tutte le rivoluzioni borghesi vengono definite dal mondo contadino come "rivoluzioni tradite".

  3. Quanto all'Intelletto Generale bisogna qui spendere altre parole, visto che Preve nel libro ci torna sopra più volte. Marx aveva semplicemente intuito che in un capitalismo avanzato il proletariato sarebbe divenuto sempre di più "intellettualizzato", in quanto per ottenere plusvalore da macchine complesse ed evolute occorrono tecnici specializzati e ingegneri preparati, ovvero operai con una certa competenza professionale. Marx non pensò mai che questo Intelletto Generale sarebbe stato sufficiente per risolvere le contraddizioni tra capitale e lavoro. È d'altronde assurdo immaginare che la ricchezza possa essere ottenuta solo da scienza e tecnica, senza il lavoro. Se Marx avesse pensato questo, non avrebbe pubblicato neanche il primo volume del Capitale. Se nell'Occidente avanzato si ha questa percezione, è perché in realtà gran parte del lavoro manuale continua ad essere svolto nel Terzo mondo. Il fatto stesso che le imprese avanzate occidentali preferiscano trasferirsi nelle aree del pianeta ove il costo del lavoro è irrisorio, dimostra che senza lavoro non si realizza il meglio del plusvalore. Se l'unico motivo della delocalizzazione fosse l'alto costo del lavoro degli operai occidentali, non si spiegherebbe il motivo per cui l'alto tasso di tecnologia applicata alle macchine non riesca a supplire a questo costo lavorativo.

    In realtà il problema sta nel fatto che l'impiego sofisticato della tecnologia tende col tempo ad aumentare i prezzi delle merci industriali, cui ovviamente fanno seguito le rivendicazioni salariali. I prezzi paiono diminuire all'inizio, quando si tratta di vincere la concorrenza, immettendo nel mercato un nuovo prodotto; oppure diminuiscono in seguito, quando la merce ha un largo consumo. Generalmente anzi bisogna dire che, a causa dell'alto costo delle tecnologie e delle competenze umane, il prezzo di nuovi prodotti all'inizio può essere anche alto, proprio perché gli acquirenti sono ancora pochi, ma se questi non aumentano in tempi brevi, si preferisce togliere completamente la merce dal mercato e puntare su un nuovo prodotto. In ogni caso, se non vi è una forte recessione, i prezzi delle merci, a lungo andare, tendono a far salire il costo complessivo della vita, soprattutto in presenza di una moneta forte, tant'è che gli istituti finanziari si preoccupano non solo di fronte a una forte inflazione, ma anche di fronte a una certa tendenza verso la deflazione: ecco perché fanno di tutto per incentivare i consumi, i quali, ad un certo punto, diventano assolutamente fini a se stessi. Non si consuma per soddisfare un vero bisogno, ma solo - come si dice - per far "girare" l'economia.

    In ogni caso qui - come è facile rendersi conto - si entra in un circolo vizioso, da cui l'imprenditore pensa di poter uscire soltanto appunto trasferendo la propria impresa là dove i salari sono bassi e dove non è costretto, a motivo di una spietata concorrenza, a migliorare continuamente la propria tecnologia. Il capitalista ha bisogno di sfruttare il lavoro al massimo livello, facendo investimenti minimi in campo tecnologico, ad eccezione naturalmente per quei prodotti di punta, che richiedono necessariamente alti investimenti, in quanto oggetto di grande competizione (risorse energetiche, trasporti, informazione, comunicazione, militarismo ecc.): il plusvalore di questi prodotti è enorme perché coinvolgono, nello stesso momento, miliardi di persone.

    Secondo Preve il primo che rinunciò all'idea marxiana di "lavoratore collettivo cooperativo associato" fu lo stesso Engels, il quale, vedendo che non si riusciva a realizzarlo, lo sostituì con quello, paralogistico e mitologico, di "proletari emancipatori dell'intera umanità", ritenuto più concreto, mentre l'altro fu demonizzato come "interclassista" (pp. 165-6). In questo suo modo di ragionare non c'è una parola sensata e per una serie di ragioni: a) il lavoratore di cui parla Preve non ha mai sostituito, in Marx, quello del proletariato industriale; b) quel tipo di lavoratore di cui parla Marx nei Grundrisse poteva al massimo riferirsi a un socialismo già realizzato e non a uno ancora in fieri, e anche se Marx l'avesse pensato in riferimento a un capitalismo più avanzato di quello del suo tempo, non avrebbe per questo certamente escluso la necessità di una rivoluzione politica; c) Engels aveva capito bene, su questo punto, il pensiero di Marx, che ha avuto modo di leggere tutti i giorni, per anni e anni, e su una cosa del genere non poteva certo sbagliarsi. Per molti versi, anzi, è stato proprio Engels a rettificare talune espressioni di Marx dettate da eccessiva semplificazione o foga propagandistica (come p. es. quella relativa alla sola storia scritta caratterizzante la lotta di classe, o quella relativa al primato da concedere solo in ultima istanza alla struttura rispetto alla sovrastruttura). Semmai quindi ci sarebbe stato da aspettarsi il processo inverso, e cioè che fosse stato Engels a modificare l'idea di "proletariato industriale" in un "Generale Intelletto"; d) Preve considera il proletariato industriale del tutto incapace di qualunque rivoluzione politica e, per poter salvaguardare un barlume di socialismo nei suoi scritti, si sente indotto a ingigantire all'inverosimile quello che per Marx era soltanto un puntino.

    Scrive a p. 228: "non è vero che si stesse formando a breve termine un lavoratore collettivo cooperativo associato, alleato virtuosamente con il fantomatico e magico General Intellect". Questo perché "la classe operaia e proletaria non è una classe inter-modale", come non è vero che "diventi sempre più rivoluzionaria col passare del tempo" (ib.). Anzi - prosegue Preve -, essa tende sempre più a integrarsi nel sistema: gli unici suoi momenti "rivoluzionari" sono stati quelli in cui, insieme alla borghesia, è uscita dalle comunità artigiane e contadine pre-capitalistiche.

    Preve nega anche che "il capitalismo comporti una polarizzazione dicotomica sempre maggiore fra borghesia e proletariato, anzi queste due classi tendono a sparire dentro lo stesso capitalismo giunto a un certo grado di sviluppo" (ib.). Preve non vede che il rapporto di classe tra borghesia e proletariato s'è trasformato in un rapporto antagonistico tra Occidente e Terzo mondo e che un qualunque tentativo da parte di quest'ultimo di sottrarsi all'asservimento che l'attanaglia, inevitabilmente comporterà l'inasprimento dei conflitti di classe nei paesi capitalistici avanzati.

Il proto-marxismo (1875-1914)

Che Preve ami dirsi "filosofo" è fuor di dubbio. Scrive infatti a p. 211: "la filosofia è sempre alla base di tutto, e soltanto alla sua luce è poi possibile, in un momento ulteriore, capire anche le dinamiche economiche e sociali". Come si può notare, è un'affermazione, questa, del tutto idealistica, incapace di vedere il primato della politica sulla filosofia e, tanto meno, il primato dell'uomo su tutto.

Egli quindi non ha remore nel definire di tipo "economicistico" il proto-marxismo fondato da Engels e Kautsky che, col partito socialdemocratico tedesco unificato nel Congresso di Gotha (1875), è durato fino al 1914.

In realtà i limiti di questo marxismo non sono stati di tipo "economicistico" perché sfavorevoli alla filosofia, ma perché sfavorevoli alla rivoluzione. Sono stati cioè economicistici perché riformisti. Ed è anzi all'interno di tale riformismo che, ad un certo punto, avvenne il recupero filosofico del kantismo (Bernstein) contro la dialettica hegeliana, che è, per sua natura, rivoluzionaria, pur essendo stata usata da Hegel secondo un fine conservatore, quello di legittimare lo Stato prussiano degli junkers.

Quando Lenin iniziò a contestare il marxismo kautskyano non lo fece certo in nome di esigenze di tipo filosofico, ma pensando che la politica (in specie quella rivoluzionaria) doveva avere un primato sull'economia e non porsi al servizio di quest'ultima per compiere meri aggiustamenti etico-sociali a favore di un sistema irriducibilmente antagonistico.

Peraltro se un merito va riconosciuto al Marx filosofo, e proprio quello d'aver definitivamente distrutto le pretese della filosofia di autogiustificarsi a prescindere da una verifica pratico-politica. Con Marx la filosofia ha perso il proprio statuto logico ed epistemologico e ha dovuto abdicare al cospetto di quelle scienze che cercano nella realtà una conferma ai loro propri enunciati.

La filosofia oggi fa parte della storiografia, cioè di una storia della cultura, esattamente come ne faceva parte la teologia in quel periodo storico in cui i filosofi si ponevano come "sacerdoti secolarizzati" e riformatori laici. Ciò senza nulla togliere al fatto che persino in ambito religioso vi sono state correnti ereticali che hanno cercato di dare alle proprie riflessioni teologiche un contenuto democratico-egualitario.

Preve non si rende ben conto che quando la filosofia ha preteso di sostituirsi alla teologia (la Scolastica), non l'ha fatto in quanto semplice filosofia teoretica, ma in quanto filosofia impegnata politicamente, impegnata cioè a difendere la causa della borghesia e le idee dell'umanesimo laico.

Quando Marx arrivò a dire che la filosofia aveva solo "interpretato" il mondo, voleva semplicemente dire che, nonostante il suo impegno politico-democratico (e culturale a favore dell'ateismo), essa non era riuscita a realizzare una società davvero a misura d'uomo. Infatti, se avesse sostenuto che tutta la filosofia a lui precedente si era limitata a interpretare il mondo, avrebbe detto una sciocchezza. Sapeva bene, essendovi direttamente coinvolto, che, anche nel caso peggiore - quello in cui la filosofia non s'interessava espressamente di questioni politiche -, essa, come minimo, si trovava impegnata a combattere l'oscurantismo religioso. Sin dai tempi dei greci classici la filosofia ha svolto un compito eversivo (quella volta, p. es., contro la mitologia sponsorizzata dai ceti aristocratici).

Quando scrive le Tesi sul Feuerbach, Marx pensava di dover criticare un tipo di filosofia che pretendeva d'essere rivoluzionaria solo perché ateistica o materialistica. Egli giudicava infondata tale pretesa, proprio perché riteneva più rivoluzionaria la dialettica hegeliana con la sua idea di ritenere la negatività parte integrante della positività. Tutti i testi del giovane Marx sono volti a dimostrare che l'ateismo non è sufficiente a creare la democrazia e, tanto meno, il socialismo, anche se la presenza di chiese di stato o di Stati confessionali può far pensare che l'ateismo sia davvero qualcosa di molto pericoloso. Per lui la filosofia doveva diventare "politica", e non nel senso di una "filosofia della politica", ma proprio nel senso che essa, dopo aver trovato un soggetto disposto a realizzare i suoi propri princìpi, avrebbe dovuto porsi il compito di trasformare democraticamente il mondo, diventando quindi una forma di politica eversiva.

Il soggetto che doveva realizzare gli ideali di una filosofia impotente sul piano pratico, era, per lui, il proletariato industriale, cioè l'unico lavoratore che, privato di tutto, non aveva nulla da perdere. Marx non era certo così sciocco da non capire il lato rivoluzionario della dialettica hegeliana, tant'è che non fece mai l'errore di esaltare i critici di Hegel solo perché, a differenza di lui, professavano apertamente l'ateismo.

I fatti gli diedero ragione, poiché quando iniziò ad approfondire i temi economici e a sviluppare le idee e la pratica del socialismo, il sistema cristiano-borghese, rispetto alla minaccia d'un rivolgimento politico-istituzionale a favore del proletariato, arrivò a considerare l'ateismo una sorta di "lieve colpa", come Marx disse in una introduzione del Capitale.

Preve ovviamente non vuol mettere in discussione la necessità di essere atei, però, essendo un "filosofo", non può accettare l'idea che nell'interpretazione di Hegel si possa separare il metodo dialettico dal sistema conservatore, in quanto di Hegel o si accetta tutto o niente. Preve infatti vuole ribattezzare Hegel in senso marxista, cioè egli assume i panni dell'hegeliano di sinistra, che non può ovviamente trascurare la lezione marxiana (anche perché con questa può togliere alla filosofia hegeliana qualunque sospetto di apologizzare politicamente lo status quo), ma subito dopo riporta docilmente questa lezione entro l'alveo paternalistico di una superiore "scienza filosofica". D'altra parte è evidente che se si attribuisce alla filosofia un primato sulla politica rivoluzionaria e sull'economia politica, è impossibile non riconoscere in Hegel un vertice insuperato.

L'origine di questo tradimento del marxismo sta nella convinzione che il proletariato industriale non sia assolutamente in grado di compiere alcuna rivoluzione socialista. Preve cioè non solo prende atto di una sconfitta storica, ma la giustifica anche teoricamente, ponendo un'ipoteca sul futuro: "il dramma - scrive a p. 140 - è quello di una classe sociale strutturalmente incapace di adempiere a una funzione complessiva inter-modale, cioè di superamento del modo di produzione e di riproduzione capitalistico nel suo insieme, che è stata illusa e si è illusa invece di esserne capace". Da notare che Preve usa l'espressione "strutturalmente incapace", senza fare alcun riferimento al fatto che la rivoluzione d'Ottobre fu il frutto di un'alleanza tra contadini e operai, e che in Occidente una rivoluzione analoga non è avvenuta anche a causa dell'imperialismo esercitato nei confronti del Terzo mondo, che ha creato una sorta di "aristocrazia operaia" e che ha corrotto i dirigenti del movimento operaio.

Definire una classe sociale "strutturalmente incapace" di spezzare le catene della propria oppressione, significa porsi dalla parte della reazione, poiché, quand'anche essa volesse tentare qualcosa di rivoluzionario, si farebbe di tutto per impedirglielo. Preve infatti è costretto a negare che nella storia umana vi sia un qualche fine da perseguire, che riporti le cose al loro stato originario, in cui il microcosmo (umano) e il macrocosmo (naturale) vengano visti come coincidenti o complementari. Un modo di ragionare, questo della coincidenza, che Preve avrebbe considerato come un retaggio di un "messianismo" a sfondo religioso, il quale, a sua volta, non sarebbe che una delle forme più arcaiche del pensiero umano, incapace di vedere come "mondo naturale" e "mondo umano" sono caratterizzati da logiche di sviluppo e di riproduzione "ontologicamente differenziate" (p. 141), in quanto la temporalità storica è "aporetica per definizione" (p. 143).

Qui Preve dice di avvalersi degli studi sulle religioni di M. Eliade e E. Voegelin, i quali affermano che "il pensiero religioso e filosofico propriamente detto nasce solo quando l'indistinzione organica fra macrocosmo e microcosmo s'incrina" (p. 141). In ciò Preve sembra però contraddirsi. Se infatti religione e filosofia nascono dalla percezione di una "rottura ontologica", perché considerare destinato al fallimento il tentativo di ricomporla? La risposta, secondo lui, sta nel fatto che tutte le religioni e filosofie antecedenti a Hegel han cercato, inutilmente, di ricomporre macrocosmo e microcosmo proprio a causa della loro "impotenza progettuale e gestionale" (p. 142). Cioè esse non hanno saputo comprendere che l'evoluzione del genere umano marcia per conto proprio e che tale direzione non può in alcun modo essere stabilita a priori, meno che mai ponendo dei nessi organici con le leggi della natura, come p.es. ha fatto Engels. La pretesa di volerlo fare, porta - secondo Preve - allo stalinismo, in maniera diretta o indiretta, consapevole o meno. Questo perché una qualunque interpretazione ciclica o lineare della storia rientra in una metafisica di tipo magico, la quale, a sua volta, si rifà a un concetto di "alienazione" del tutto sbagliato, in quanto lo mette in rapporto a una unità originaria da cui l'uomo si sarebbe colpevolmente separato.

Preve è convinto che il concetto di alienazione in Marx - a differenza che in Engels - non sia riconducibile a una visione religiosa della storia, né in forma diretta, né in forma laicizzata. "Marx riteneva che l'ente naturale generico fosse alienato non tanto rispetto a una sua origine, quanto rispetto alle sue possibilità ontologiche e antropologiche" (p. 106).

Che cosa vuol dire Preve con questo suo linguaggio un po' criptico e nebuloso, che sembra voler esaltare il caso proprio per negare valore alla necessità di una rivoluzione? Quando lui parla di "alienazione" la intende riferita a tre diversi settori di indagine, che esamina separatamente: il lavoro, il linguaggio e il significato della vita. La spiegazione viene data alle pp. 105-117. Prima però di vederla, dobbiamo dire che in Marx il riferimento all'unità primordiale resta più che altro implicito nei suoi testi. Avendo egli un'origine ebraica, il riferimento avrebbe dovuto essere in realtà più diretto, anche a sua insaputa; il fatto è però che egli passò dall'ateismo filosofico al socialismo economico, senza aver mai fatto un'analisi approfondita della sovrastruttura, o almeno un'analisi dei suoi nessi con la struttura. Questo gli impedì di capire che le contraddizioni antagonistiche del capitalismo trovavano le loro più remote origini nella rottura con la comunità preistorica. Tuttavia, studiando le forme economiche pre-capitalistiche, arrivò a intuire l'esistenza di una comunità originaria la cui intrinseca unità era stata spezzata. Purtroppo, essendo condizionato dalle leggi della dialettica hegeliana, egli fu sempre indotto a ritenere necessaria, o comunque inevitabile tale rottura.

Ora vediamo Preve, limitandoci all'idea di alienazione che si manifesta nell'ambito lavorativo. L'uomo moderno - ecco la sua tesi - è alienato perché vive il lavoro solo come "trasformazione della natura" e non anche come "comunicazione sociale". In altre parole, il concetto di lavoro che si ha sotto il capitalismo è soltanto quello di un lavoro astratto finalizzato a produrre merci per il mercato. Non si riesce a vedere un lavoro concreto incorporato in una più vasta totalità familiare, tribale, religiosa, politica ecc., come accadeva nelle società pre-capitalistiche.

Nel mondo greco-romano si svalutava il lavoro, perché si preferiva ritenerlo un'occupazione da schiavi, e in questa svalorizzazione ci si serviva di argomentazioni di tipo ideologico (religiose o politiche che fossero). Nel mondo moderno invece la teologia e la politica sono state sostituite dall'economia politica e dal rapporto contrattuale formalmente libero, per cui la costrizione al lavoro non è di tipo extraeconomico. Inoltre nel mondo antico "le tecniche della produzione sociale erano generalmente possedute dalla comunità produttiva diretta..." (p. 109). Cosa che anche Marx ha voluto recepire, sostenendo che il lavoro doveva diventare espressione di un collettivo autonomo e autoconsapevole.

Tutto ciò è vero, ma né Marx né Preve hanno mai capito che se si elimina il concetto di "lavoro astratto" e si vuole realizzare il socialismo, si deve per forza tornare all'autoconsumo e al baratto del surplus, cioè alle comunità di villaggio pre-schiavistiche. Tertium non datur. Se non si fa questo, tutti i discorsi di Preve sono soltanto un moralismo astratto: astratto perché non si specifica il tipo di collettivo che deve gestire il "lavoro concreto"; moralistico perché se si pensa di poter recuperare la dimensione di tale collettivo senza rinunciare definitivamente al primato del valore di scambio su quello d'uso, ci s'illude.

Non ha alcun senso "sforzarsi" di considerare l'uomo un "ente naturale generico", quando poi non s'individua chiaramente il tipo di esistenza conforme a natura che deve vivere. Non è certo riducendo (p. es. attraverso la tecnologia) il tempo di "lavoro astratto" che aumenta la possibilità di superare l'alienazione. I fatti da tempo hanno dimostrato che nell'ambito di un capitalismo globalizzato una qualunque riduzione del lavoro astratto comporta sempre, a titolo per così dire "compensativo", un aumento del lavoro concreto sottopagato nelle zone periferiche del sistema, sottoposte a un maggiore sfruttamento. Cioè l'aumento del tempo libero, che permette al lavoratore occidentale di sentirsi meno alienato, viene pagato con l'aumento del tempo di lavoro sottopagato dell'operaio terzomondiale. Oggi questo è così vero che, piuttosto che aumentare gli investimenti (sempre più costosi) per le ristrutturazioni tecnologiche, si preferisce trasferire l'intero reparto produttivo in aree del pianeta dove il costo del lavoro è di molto inferiore.

Ma a Preve, bisogna dirlo, non interessa quasi per nulla il rapporto di dipendenza economica tra metropoli e colonia. Se avesse avuto questo interesse, non avrebbe perso tempo a esaminare le altre due forme di alienazione (quella del linguaggio e quella del significato esistenziale della vita), le quali, essendo meramente sovrastrutturali, non aiutano molto a capire come risolvere il problema di fondo. Dire che il problema di "una vita sensata" è "il Problema massimo e principale" (p. 114), solo perché oggi non esiste più un "collettivo" come nel passato, è dire nulla.

Ha fatto bene Preve a dire che le società preistoriche "non sono né primitive né naturali se le si studia con serietà e partecipazione" (ib.); ma se poi non si spende neanche una parola per individuare, in esse, gli aspetti che ancora oggi possono costituire un'alternativa all'attuale sistema borghese, di quale "serietà e partecipazione" si va parlando? Non basta sostenere che in Marx la teoria del valore e dell'alienazione stanno in un rapporto indissolubile. In mezzo a tanto eclettismo si può, ogni tanto, dire anche qualcosa di giusto. Bisognava però saper tirare le conseguenze di questa equazione, arrivando a dire che l'unica alternativa possibile a una qualunque società basata sul mercato è una società basata sull'autosussistenza, e questo non è stato fatto né da Marx né da Preve. Ma in Preve questo è imperdonabile, poiché oggi si dovrebbe avere una motivazione in più per sostenere il ritorno alle antiche comunità di villaggio pre-schiavistiche5 (quella motivazione che Marx, per motivi oggettivi, non poteva avere): la sempre più grave devastazione della natura rende la cosa quanto mai urgente. Purtroppo però a Preve non interessano neppure le questioni ambientali, per cui non riesce a capire che non ci può essere alcun superamento dell'alienazione senza prima aver posto un primato dell'ecologia sull'economia.

Se Preve si fosse interessato di neocolonialismo terzomondiale e di ambientalismo, non avrebbe mai sostenuto che "non esiste crollo automatico del capitalismo dall'interno" (p. 150). "Crollo automatico" vuol semplicemente dire che, non avendo il capitalismo gli strumenti per risolvere in maniera democratica e pacifica le contraddizioni antagonistiche che produce, mette inevitabilmente la popolazione nella condizione di chiedersi se ha ancora qualcosa da perdere prima di decidersi a compiere una rivoluzione. Questo sistema economico, se non avesse avuto il Terzo mondo da sfruttare come enorme risorsa umana e naturale (il 20% dell'umanità consuma l'80% delle risorse mondiali), sarebbe crollato da un pezzo, proprio perché basato su presupposti che lo rendono invivibile. Sarebbe crollato esattamente come quello schiavistico e quello feudale. È evidente che fino a quando si può usare la politica estera (economica e militarizzata) per tentare di risolvere i problemi creati con la politica interna (che difende la proprietà privata e lo sfruttamento del lavoro altrui), non ha senso pensare a un crollo del sistema dall'interno.

Ma sarebbe altresì sciocco pensare che i sistemi antagonistici crollano soltanto a causa di quegli "eventi esterni" che dimostrano una maggior forza o la cui forza era stata sottovalutata. I cosiddetti "barbari" poterono sfondare i confini dell'impero romano proprio perché esso aveva già in sé degli elementi che lo stavano sgretolando. Quando gli antagonismi sociali sono molto acuti, chi li subisce maggiormente comincia a vedere quello che fino a ieri veniva considerato un "nemico" come un "liberatore", cioè comincia non lasciarsi più condizionare dall'ideologia dominante.

*

Vediamo ora cosa dice Preve di Lenin. Su due aspetti lo critica, che - guarda caso - sono proprio quelli decisivi per capire il superamento o il completamento del marxismo da parte del leninismo:

  1. l'idea che l'imperialismo sia più importante del capitalismo e che quindi nelle metropoli occidentali si stia formando un'aristocrazia operaia in virtù dei superprofitti estorti ai lavoratori coloniali: un'aristocrazia operaia che sembra essere molto poco interessata ad abbattere il sistema;

  2. l'idea che se questo proletariato industriale arriva al massimo a lottare per delle rivendicazioni salariali, allora deve esserci un partito di militanti professionisti a organizzare la rivoluzione e quindi a convincere operai e contadini della sua necessità.

Ora, secondo Preve, queste due tesi sono "altra cosa" rispetto al marxismo originario. Di questa teoria al massimo si può accettare la convinzione che la classe operaia, presa in sé, non è in grado di fare alcuna rivoluzione, ma non si può accettare l'idea di sostituire la classe col partito. Qual è dunque, secondo Preve, l'alternativa al leninismo? Lo dirà nel capitolo successivo. Qui anticipa soltanto che la sua simpatia va per Pannekoek, Korsch e Mattick, cioè per coloro che sostenevano l'ideale del "comunismo dei consigli operai".

Il motivo per cui Preve, su tale aspetto, detesta Lenin è che questi riduce la filosofia a ideologia, in quanto tutto il primato cognitivo e operativo confluisce nella politica, che, proprio per questa ragione, diventa autoritaria. Preve è un filosofo che vuole riservare alla filosofia un compito regolamentativo nei confronti della politica, soprattutto quando questa si lascia vincere da tentazioni totalitarie. È così abbacinato dal primato della filosofia che, quando esamina la querelle tra Sartre e Heidegger, attribuisce la sconfitta politica di Sartre, in rapporto al Maggio francese del '68, al fatto che egli non aveva capito Heidegger e il suo primato ontologico concesso all'Essere (pp. 213-15)!

Preve non ama essere, per quanto lo sia stato, "un uomo di partito", poiché teme di non poter essere più libero di esprimere la propria criticità. La libertà soggettiva di criticare l'antepone alla responsabilità di costruire un'alternativa al sistema. Preve vuol fare l'intellettuale marxista a-partitico. Che cos'è questa se non una contraddizione in termini? Perché non dire che con le sole "armi della critica" non si è in grado di trasformare alcunché, almeno non in maniera qualitativa? Perché considerarsi superiori a chi invece si preoccupa di rispondere ai bisogni sociali della collettività?

Certo, egli non attribuisce al leninismo le tragedie dello stalinismo, però afferma che quello conteneva "in potenza" (p. 154) i difetti di questo e pensa di dimostrarlo prendendo in esame la critica che Lenin rivolge ai machisti ed empiriocriticisti nel suo libro Materialismo ed empiriocriticismo. Gli aggettivi che usa per denigrarlo si sprecano: ferocia, delirio paranoico, orgia di insulti, minacce teologiche apparentemente incomprensibili, follia, furia inconsulta (pp. 155-6). Tutto questo livore, concentrato in così poche righe, pare inversamente proporzionale all'analisi di quell'opera filosofica fondamentale di Lenin.

Poiché di questo testo Preve non condivide assolutamente nulla, vien da pensare che l'astio non dipenda affatto dai "toni" usati da Lenin contro quella nuova corrente filosofica, ma da un pregiudizio di fondo. In sostanza Preve fa capire di sentirsi totalmente dalla parte degli empiriocriticisti e accusa Lenin di averli del tutto fraintesi, soprattutto là dove li accusa di voler negare l'indipendenza della materia dalla percezione umana, quando invece - secondo Preve - essi volevano soltanto cercare un punto d'incontro tra un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto. Lenin li accusava d'essere tornati a Berkeley e di non voler credere che il capitalismo avesse in sé, materialmente, i presupposti per un'evoluzione necessaria verso il socialismo. Dopodiché Preve fa notare che Lenin fece la rivoluzione proprio su basi empiriocriticistiche, in quanto non volle affatto ritenere scontata la suddetta evoluzione.

Dunque, cosa pensare di questo contorto ragionamento, espresso in poche righe su un argomento di così capitale importanza?

  1. Per Preve il socialismo non va "costruito" come qualcosa che non dipenda da un processo economico che lo generi in maniera spontanea. Quando un intellettuale non crede né nella rivoluzione, né nel partito che la deve organizzare e tanto meno nella sua classe sociale di riferimento, è evidente che preferisce Marx a Lenin, ma il Marx in questione è soltanto il "suo Marx", quello che può essere interpretato a propria immagine e somiglianza. Se avesse letto quell'originale contributo di Lenin alla filosofia marxista con maggiore obiettività, non ne avrebbe dato un giudizio così sprezzante e superficiale.

  2. Per Lenin i machisti e gli empiriocriticisti erano seguaci di Berkeley nel senso che sostenevano l'idea che la materia fosse una rappresentazione soggettiva. Se la prese con loro perché in Russia si spacciavano per "marxisti", mentre per lui erano soltanto degli eclettici, avendo preso alcune cose dalle scienze naturali e molto dalla filosofia di Berkeley, Hume, Kant e Fichte. Rifacendosi a Engels egli sosteneva che per il materialismo la sensazione non è che una proprietà della materia in movimento, nel senso cioè che, da un lato, bisogna riconoscere l'esistenza di una materia indipendente dall'uomo e, dall'altro, che tale materia contiene elementi che spiegano l'esistenza umana e che tale esistenza si può comprendere con la teoria del riflesso e della sensazione.

  3. A Lenin semmai si poteva rimproverare di non aver capito che tale rapporto tra materia e soggetto può essere espresso anche in forma simbolica. Una rappresentazione simbolica non è di per sé meno significativa di una rappresentazione concettuale del rapporto di dipendenza che lega l'uomo alla materia. L'importante è che in tale simbolizzazione si eviti qualunque concessione al misticismo. Lenin infatti sapeva bene che quando si fa della materia una mera rappresentazione soggettiva, facilmente si cade nel simbolismo mistico, anche quando ci si professa atei, come in genere facevano gli empiriocriticisti, a differenza naturalmente del vescovo Berkeley.

  4. Un altro aspetto che si potrebbe far notare - su cui però la filosofia leniniana avrebbe storto il naso -, è che se la coscienza umana è un prodotto superiore della materia, allora questa non è così "primordiale" in maniera esclusiva, come il materialismo vorrebbe. Certamente l'affermazione di una primordialità della materia, esistente in maniera autonoma rispetto alla coscienza umana, porta a escludere qualunque forma di misticismo. E tuttavia, se dobbiamo considerare la coscienza come un prodotto superiore di una materia particolarmente sviluppata, allora non si può escludere a priori che tale materia abbia già in sé qualcosa di analogo all'essenza umana. Altrimenti resta poco spiegabile il motivo per cui noi si debba considerare la coscienza un prodotto finale della materia e non un prodotto qualunque, di cui la materia potrebbe tranquillamente fare a meno. La materia sembra esistere appunto perché qualcuno possa comprenderla, condividendone le sue ragioni o le sue leggi.

Il medio-marxismo (1914-1956)

Quei due periodi di storia che Preve chiama "medio-marxismo" (1914-56) e "tardo-marxismo" (1956-91), per lui non hanno "alcun rapporto con la teoria originale di Marx", per cui il discorso, col marxismo classico, è praticamente già chiuso. Preve rifiuta persino la rivoluzione d'Ottobre, e pensa di poterlo fare a buon diritto, visto ch'essa è fallita.

In sostanza Preve ritiene d'essere l'unico interprete adeguato di Marx, l'unico a non averlo né frainteso né censurato né strumentalizzato. D'altra parte lui stesso se ne vanta: "la mia riesposizione critica è talmente diversa e talmente 'dirompente' in rapporto a tutte le principali correnti del marxismo... da apparire non tanto 'folle' quanto strana ed eccentrica" (pp. 166-7).

In effetti, a fronte dei 150 anni di storia del marxismo, un minimo di umiltà o di circospezione sarebbe quanto meno desiderabile. Il fatto che il cosiddetto "socialismo scientifico" sia andato incontro a cocenti sconfitte storiche, non ci autorizza a sottovalutare le capacità intellettuali di chi ci ha preceduto o a valorizzare soltanto le idee che più somigliano alle nostre. Se uno volesse davvero fare, oggi, una storia del marxismo, di un testo così "folle" come questo di Preve, non saprebbe davvero che farsene. È difficile immaginare che il compito di prospettare il socialismo futuro dovrà tener conto soltanto dei testi scritti da Carlo Marx e... da Costanzo Preve. Non foss'altro che per una ragione: il Marx di Preve è del tutto fantasioso (p. 168).

Marx non fu solo uno "scienziato sociale", ma anche un giornalista e un politico, la cui attività uscì sconfitta dalla storia; in tal senso non si sarebbe mai accontentato d'essere un "filosofo idealista-prassista", neppure se "di tipo nuovo", proprio perché aveva capito tutta l'impotenza della filosofia; per cui è profondamente sbagliato ritenerlo più interessato alla "libertà" che non all'"uguaglianza" (semmai è l'inverso). E tanto meno ha senso etichettarlo come "hegeliano di sinistra": non avrebbe mai accettato di limitarsi a fare il discepolo di Hegel, neppure coi connotati del "ribelle", proprio perché, per lui, il senso della vita non si sarebbe mai potuto racchiudere in una questione di tipo filosofico; e se è vero che quando criticava l'utilitarismo non usava "argomenti morali e antropologici", è anche vero che, all'infuori degli aspetti tecnico-scientifici, egli non salvava nulla del capitalismo, e anche quando si trovava a esaminare delle questioni etiche, non era mai così sprovveduto da tenerle separate dalle sottese questioni economiche. Marx non è mai stato un moralista: semplicemente perché sapeva che, sotto il capitalismo, è molto facile che i valori teorici siano strettamente collegati a degli interessi materiali.

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Purtroppo è proprio sul versante pratico che il volume di Preve è maggiormente deficitario. Di fatto non si riesce mai a capire che tipo di socialismo egli voglia realizzare. Dentro il pentolone della sua iper-critica Preve infatti mette non solo lo Stato (che ovviamente ci può stare), ma anche il partito, cioè non solo il "socialismo burocratico" (quello amministrato dall'alto), ma anche il socialismo rivoluzionario.

Con questo non è ch'egli voglia negare la necessità della rivoluzione bolscevica: semplicemente nega ch'essa sia stata davvero "socialista". Cioè egli è disposto ad ammettere che "per la prima volta le classi dominate sono veramente andate al potere", ma per lui non l'hanno potuto fare che "per più di qualche settimana" (p. 178), dopodiché hanno lasciato che il partito e lo Stato si sostituissero alla loro volontà.

Secondo Preve ciò è avvenuto perché la Russia, non avendo vissuto una vera transizione dal feudalesimo al capitalismo, non poteva averne una dal capitalismo al socialismo. Lenin fece bene a fare la rivoluzione per abbattere l'autocrazia zarista e porre fine alla guerra imperialistica che la Russia stava conducendo nell'ambito del primo conflitto mondiale. Ma a partire dal momento in cui pensò di poter "costruire" il socialismo con un partito unico, monolitico, privo di correnti interne, Lenin s'era già posto fuori del socialismo.

E con Lenin - secondo Preve - si pose fuori dal socialismo anche un altro grande intellettuale che lo volle imitare, Gramsci, che, coi suoi Quaderni del carcere, ipotizzò la realizzazione di un partito che diventasse culturalmente egemone nella società, prima di poter compiere la rivoluzione politica. Preve lo critica dicendo che Gramsci prese a modello di tale partito il Principe del Machiavelli, che di umano non aveva nulla. E aggiunge che Gramsci non si rendeva conto di ciò che stava dicendo.

D'altra parte per Preve anche Stalin è una conseguenza della "rivoluzione totalitaria" di Lenin (p. 193). Quindi, come non c'è "tradimento" in Gramsci, così non c'è in Stalin. Entrambi vogliono "costruire" il socialismo. Singolare però è il fatto che Preve escluda, nello stesso tempo, che il proletariato, così "profondamente subalterno e non-intermodale" (p. 194), possa governare senza burocrazia. Le sue conclusioni quindi non lasciano molte vie d'uscita: o si elimina il concetto di proletariato e quindi si giustifica il capitalismo, seppur riservandosi di criticarlo, oppure è inevitabile una qualunque involuzione verso lo stalinismo. Se si accetta lo stalinismo (che per lui in sostanza coincide con leninismo, gramscismo, trotzkismo ecc.), alla fine è comunque inevitabile che il proletariato venga sostituito dalla burocrazia dello Stato centralizzato, il che comporta la realizzazione non del socialismo, ma di una nuova forma di capitalismo.

Si può essere più superficiali di così? Nella Russia di quel periodo l'unico partito a non essere violento fu proprio quello bolscevico, tant'è che la rivoluzione del '17 fu la più indolore della storia: non ci fu alcun massacro. La violenza vera e propria iniziò solo con la controrivoluzione, spalleggiata dall'interventismo straniero. Gli anni terribili del comunismo di guerra furono certamente un salasso per il mondo rurale, ma se la reazione avesse vinto, il destino dei contadini poveri - che con Lenin avevano ottenuto la terra gratuitamente - sarebbe stato sicuramente peggiore. Durante quegli anni i partiti si misero fuori gioco da soli, comportandosi come criminali di guerra.

Tutto ciò forse impedì il dibattito dentro il partito bolscevico? Preve avrebbe dovuto rileggersi le ultime opere di Lenin, quelle in cui si delineano gli ampi dibattiti sulla prosecuzione della guerra contro la Germania, sulla necessità di adottare una nuova politica economica a favore dell'iniziativa privata, sulla necessità di non burocratizzare le funzioni dello Stato e di non esasperare le tensioni interne al gruppo dirigente del partito, sulla necessità di non fare dell'elemento "russo" qualcosa di mortificante per tutte le altre nazionalità dello Stato, sulla necessità di non essere ideologicamente estremisti, facendo dell'ateismo scientifico un'arma per discriminare i credenti, sull'urgenza di sviluppare la cultura e l'elettrificazione del paese, ecc. Si può praticamente sostenere che all'interno del partito bolscevico non si è mai smesso di discutere, almeno sino a quando, sotto Stalin, non si cominciarono a espellere dal partito i militanti che avevano contribuito a crearlo, cioè sino a quando non si pensò di far pagare interamente ai contadini lo sviluppo industriale della nazione.

Dunque da che parte sta Preve? Qual è la sua idea di socialismo? Con quali mezzi e strumenti pensa di edificarlo, visto che il verbo "costruire" non lo sopporta? Qui l'unica idea che esprime, oltre al brevissimo riferimento all'esperienza anarchica, paragonata, ecletticamente, a quella essenica di duemila anni fa, è relativa al cosiddetto "comunismo dei consigli", quello di A. Pannekoek, K. Korsch e P. Mattick, anch'essi ritenuti idealmente discepoli di quella comunità essenica irriducibile allo strapotere delle legioni romane.

Qui non si ha tempo di prendere in esame questi tre intellettuali, che sicuramente hanno dato - soprattutto i primi due - un contributo molto importante alla storia del marxismo. Si può soltanto dire che se anche avessero avuto ragione nell'attribuire ad organi più democratici, rispetto allo Stato o al partito, come i consigli di fabbrica o i soviet, la gestione della transizione al socialismo, il fatto che Preve si rifaccia a loro, sic et simpliciter, senza aggiungere altro, è indicativo dei limiti delle sue concezioni sedicenti marxiste. Quanto meno avrebbe dovuto chiedersi il motivo per cui, sulla base di quelle posizioni, ritenute più democratiche, non si sia mai compiuta in Europa occidentale (che certamente, quanto a forze e rapporti produttivi, era molto più avanzata della Russia) alcuna rivoluzione socialista.

Preve inoltre avrebbe dovuto precisare che, alla luce del fallimento del cosiddetto "socialismo reale", è oggi impensabile una semplice democratizzazione della vita operaia di fabbrica, senza fare alcun riferimento alle esigenze del mondo rurale, che non possono non essere considerate come prioritarie. Anzi, oggi ci si dovrebbe addirittura chiedere che senso abbia continuare con l'industrializzazione della società, quando possiamo da tempo constatare gli effetti particolarmente nocivi del macchinismo sulla natura.

Infine, se si nega un qualunque valore al "socialismo statale" - come è giusto che sia -, bisogna poi delineare un'ipotesi alternativa, la cui fattibilità non faccia uscire dai limiti del socialismo; altrimenti si rischia - com'è successo in Russia - di ripiombare negli antagonismi del capitalismo, oppure di creare - come in Cina - delle forme di capitalismo di stato, gestite paradossalmente dallo stesso partito comunista.

Quindi non si può che essere d'accordo sull'idea che il "consiglio di fabbrica" vada considerato come "l'espressione di una democrazia diretta che possa essere congiuntamente autogoverno politico e autogestione economica", e che quindi "ogni altra struttura (sindacato, partito, stato, ecc.) non è adatta allo scopo dell'emancipazione dei lavoratori" (p. 186). Ma poi bisogna aggiungere - se si vuole uscire dall'astrazione delle belle frasi - che l'unica vera alternativa possibile al mercato è l'autoconsumo, ovvero il primato del valore d'uso, con possibilità di scambio delle eccedenze sulla base del baratto. Se davvero vogliamo parlare di "autogoverno politico" e di "autogestione economica", dobbiamo per forza prospettare l'edificazione di autonome, autosufficienti, autosussistenti comunità di villaggio, la cui collocazione è in ambito rurale. Il socialismo o è una forma di libera autogestione di risorse agrarie, o non è. In tal senso ci è più utile la "preistoria" della "storia", l'uomo primitivo piuttosto che quello civilizzato. Se questo è vero, saremmo andati oltre Marx Engels Lenin Stalin Mao..., senza uscire dai limiti del socialismo democratico.

Il tardo-marxismo (1956-1991)

Oggi, alla luce del suo crollo, è facile criticare il socialismo da caserma. Non vi è alcun merito nel farlo. Si dovrebbe semmai cercare di capire il motivo per cui, chiunque lo faccia, finisce il più delle volte per sponsorizzare l'idea del capitalismo come alternativa. Col senno del poi appare oggi evidente che, quando si cercò di realizzare il "socialismo scientifico" teorizzato da Marx ed Engels, qualcosa non funzionò, ma da questo a dire che il proletariato, rurale e industriale, non avrebbe dovuto neppure provarci, non essendo strutturalmente capace di farlo, senza un'intellighenzia che lo strumentalizzi, ce ne corre.

Preve resta una persona superficiale, capace solo di fare di tutta l'erba un fascio, senza distinguere quella buona dalla gramigna. In questo modo è impossibile che il socialismo, o anche soltanto la sua idea teorica, possa migliorarsi, correggendo i propri errori. Anzi, indirettamente si finisce col dire che il capitalismo o crolla da solo o non crollerà mai. Si finisce soltanto col legittimare i difetti cronici di un sistema, pur criticando i quali era partita l'idea di costruire un'alternativa. È indubbio infatti che il capitalismo abbia in sé delle contraddizioni antagonistiche, che nessun governo sarà mai in grado di risolvere, se non peggiorando le condizioni di vita di strati sociali sempre più ampi.

Se non ci si abitua sin da adesso a ipotizzare un nuovo modello di società, ci si troverà del tutto impreparati quando le contraddizioni assumeranno forme esasperate. Si avranno cioè reazioni del tutto scomposte e controproducenti (simili, p. es., a quelle terroristiche), che facilmente verranno sfruttate dai poteri dominanti. Se andiamo avanti con questo fatalismo, con questo pessimismo della ragione e della volontà, il capitalismo rischia di diventare come l'impero romano, quando, per non aver saputo risolvere le contraddizioni della repubblica democratica senatoriale, si passò, per vari secoli, alla dittatura del principato militare.

È da irresponsabili negare valore a tutti i tentativi fatti di rinnovare l'idea di socialismo dopo la morte di Stalin, o meglio, dopo il XX Congresso del Pcus del 1956. Non si dovrebbe mai affermare una frase del genere: "Le proposte sono tutte irricevibili se il destinatario è irriformabile" (p. 203). Una frase del genere è di tipo stalinistico, cioè pecca di presunzione. Non è molto diversa da quella che lo stesso Stalin diceva, secondo cui quanto più cresce il socialismo, tanto più forti diventano i suoi nemici.

Comportandosi in maniera così schematica, Preve non è neppure in grado di capire quando il socialismo da caserma, nel proprio confronto con l'imperialismo guerrafondaio dell'Occidente, aveva obiettivamente ragione, nonostante che soggettivamente avesse torto. Si pensi solo, giusto per fare un esempio, a come si comportò lo stalinismo nei propri rapporti col nazismo: sicuramente meglio di come fecero tutte le potenze capitalistiche. Non si può certo attribuire alla Russia lo scoppio della seconda guerra mondiale, se non facendo del revisionismo storico. Lo stesso non si può dire della Francia e dell'Inghilterra, che fino al momento della resistenza armata dei partigiani tennero sempre un atteggiamento irresponsabile, nella convinzione che il nazismo avrebbe preteso uno "spazio vitale" soltanto a spese dell'Urss.

Quando si ha l'ardire di fare una "storia critica del marxismo", non si possono cestinare settant'anni di "socialismo reale" come se fossero stati un'esperienza del tutto inutile, una perdita di tempo. Inevitabilmente ci si condanna a ripetere gli errori del passato, esattamente come abbiamo fatto noi italiani quando, nei confronti del fascismo, abbiamo adottato la tesi crociana relativa alla "parentesi" dovuta a una "malattia morale".

Preve, p. es., non ha assolutamente capito che se la destalinizzazione inaugurata da Krusciov fosse stata più coerente e coraggiosa, forse a quest'ora si continuerebbe a parlare di socialismo. Né ha capito l'importanza della perestrojka di Gorbaciov. Egli assomiglia a quegli ingenui estremisti che, quando non riescono a realizzare in fretta i loro ideali, diventano pessimisti ad oltranza.

Quando si scrive che "la classe operaia e proletaria" non è capace di "egemonizzare una transizione sociale da un modo di produzione a un altro" (p. 204), la si condanna all'impotenza. Si finisce con lo scrivere dei testi che di "critico" non hanno nulla: sono soltanto il testamento sconsolato e presuntuoso di uno che non solo si sente sconfitto su tutti i fronti, ma non vuole neppure che altri tentino nuove strade. Un atteggiamento del genere - bisogna dirlo con franchezza - Marx non l'ebbe neppure negli anni peggiori della sua vita. La cosa strana, in Preve, è che quando appoggia le tesi di un socialismo autogestito, senza partito e senza Stato, non si rende conto che, non avendo alcuna fiducia nel proletariato, egli rischia di porre le basi proprio del mostro burocratico che tutti vorrebbero scongiurare.

È abbastanza grave per un intellettuale di sinistra dire che "il concetto di 'impotenza sistemica e modale' è contenuto a priori nel concetto di classe operaia e proletaria" (p. 204). Se non è stalinismo questo, che cos'è? Chi o cosa autorizza Preve ad arrogarsi il diritto di formulare giudizi così categorici? Forse l'idea di voler far capire ai trotzkisti che se Trotzky avesse vinto non avrebbe fatto meglio di Stalin, in quanto la burocratizzazione della rivoluzione era già insita nelle sue premesse? Tutto qui il motivo della condanna del socialismo reale? Se un'intera classe sociale è impossibilitata, per un'incapacità strutturale, a costruire il socialismo, e questa classe, a livello mondiale, rappresenta la stragrande maggioranza dei lavoratori, chi potrà mai fatto al suo posto? Perché mettere un'ipoteca così gigantesca sul futuro dell'umanità? Perché fare della propria frustrazione personale il metro di misura con cui giudicare il mondo intero?

Preve non ha capito quasi nulla del passaggio da Krusciov a Gorbaciov. La destalinizzazione kruscioviana era fallita proprio perché non si voleva una sburocratizzazione del "socialismo reale", cioè si voleva continuare a dare del socialismo una connotazione prevalentemente "statalistica", in cui il ruolo dirigente continuasse a essere giocato da funzionari privilegiati del partito e dell'amministrazione statale. Ma questo non toglie che la critica del culto della personalità e la denuncia dei crimini dello stalinismo fossero obiettivamente un progresso etico-politico. Solo con Gorbaciov si posero le basi concrete per un definitivo rovesciamento del sistema, che però non doveva uscire dei limiti del socialismo, come invece avvenne con Eltsin.

La forte democratizzazione del socialismo voluta da Gorbaciov colse impreparati non solo il Pcus e i funzionari statali, ma anche l'intera società, la quale, essendo abituata a metodi dirigistici, non riuscì a capirla sino in fondo, non volle assumersi una responsabilità collegiale del cambiamento, e cominciò a ostacolarlo in varie maniere, sino al colpo di stato stalinista del 1991 contro il governo della perestrojka, che servirà soltanto a far emergere una reazione borghese con cui si porrà fine al Pcus, all'Urss e all'idea stessa di socialismo.

L'esperienza della perestrojka fu troppo breve (1985-91) per dare risultati favorevoli al socialismo, e le forze più reazionarie ne approfittarono per dare una spallata all'idea stessa di democrazia sociale, abbracciando quindi decisamente il capitalismo, seppure in una forma controllata dallo Stato. Non capire le differenze tra Krusciov, Gorbaciov e Eltsin è grave.

Gorbaciov fu indubbiamente anticipato da Krusciov, ma solo per gli aspetti inerenti al "culto della personalità", alla condanna delle purghe degli anni '30, al rifiuto dell'autoritarismo di Stalin e ad altri fenomeni che riguardavano l'aspetto esteriore del sistema, quello più appariscente e facilmente contestabile. Non si andava a intaccare, con Krusciov, la dinamica interna del sistema, le decisioni verticistiche con cui si cercava di tenerlo in piedi. Non si era sburocratizzato il sistema, ma semplicemente tentato di democratizzare la burocrazia: cosa che la nomenklatura della stagnazione impedì con forza. Krusciov non parlò mai di costruire il socialismo dal basso; Gorbaciov invece lo fece, e si meravigliava che, nonostante tutti i suoi sforzi, ciò non riuscisse ad avvenire.

Un fallimento del genere avrebbe dovuto far riflettere più seriamente un intellettuale come Preve, perché se il socialismo statale non è stato capace di riformarsi, nonostante gli sforzi della perestrojka e della glasnost, figuriamoci se vi potrà riuscire il capitalismo. Anzi oggi, in assenza di una qualunque alternativa anche solo ipotetica, il capitalismo sembra avere una ragione in più per considerarsi legittimato a esistere ad oltranza. Se "riforma" vi deve essere, non potrà che confermare la stabilità dei pilastri su cui l'intero sistema si regge: la proprietà privata, il mercato, lo Stato e, ultimamente, il primato della finanza sull'economia, la crescente delocalizzazione delle imprese verso le aree mondiali in cui il costo del lavoro è minimo, e anche la crescente militarizzazione del pianeta, sia nella forma più esplicita delle armi aventi capacità distruttive letali e con effetti irreversibili sull'ambiente, che nelle forme più sofisticate del controllo spionistico di qualunque persona attraverso l'uso delle tecnologie infotelematiche satellitari.

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La continua preoccupazione che ha Preve di negare un rapporto organico tra microcosmo e macrocosmo o tra natura e storia, allo scopo di togliere al materialismo qualunque caratteristica "magica" o "fideistica", ha un che di sospetto, per quanto - secondo lui - si caratterizzarono in questo medesimo tentativo Althusser e l'ultimo Lukács, quello dell'Ontologia dell'essere sociale. È come se in realtà si volesse togliere alla storia un qualunque finalismo.

In pratica è come se egli facesse questo ragionamento: l'identificazione di natura e storia è stata posta non da Marx bensì da Engels, e quindi può essere considerata un "tradimento" dell'originario pensiero marxiano. Un tradimento che ha trasformato il marxismo in qualcosa di mistico, di teleologico, di messianico. Ora, siccome questo tipo di marxismo è fallito, in quanto non ha saputo mantenere le sue promesse, diventa inevitabile tornare a separare storia e natura, cercando di essere il più possibile disincantati.

Ancora una volta Preve manifesta tutta la sua superficialità, pur non negando l'esistenza - e come potrebbe, da hegeliano qual è? - di una "dialettica della natura". Questa volta per due ragioni:

  1. il collegamento natura/storia Marx non l'aveva affatto negato, ma semplicemente non-affrontato. E Engels lo farà solo alla fine della propria vita, leggendo il Capitale di Marx e ottenendo risultati di tutto rispetto;

  2. il fatto che il "socialismo reale" sia fallito non sta di per sé a significare che la suddetta identificazione di micro e macrocosmo sia insensata. Semplicemente vanno considerate errate le modalità con cui realizzarla. Oggi anzi dobbiamo dire che, mentre per Marx la storia aveva un peso preponderante sulla natura, per quanto egli facesse di tutto per tracciare delle linee d'interpretazione storiografica in cui la categoria della necessità risultasse la fondamentale "chiave di volta" (tant'è che nel Capitale parla di "storia naturale" per indicare lo svolgimento dei fatti); in Engels invece vi è il tentativo di dimostrare che i princìpi dialettici valevoli per la storia, trovano riscontri oggettivi anche nei processi naturali.

Oggi addirittura facciamo il ragionamento inverso, e cioè che deve essere la storia a conformarsi alle leggi della natura. L'uso della libertà che ha caratterizzato l'uomo negli ultimi seimila anni di storia, non ha nulla di oggettivo o di razionale o di naturale, se non nella misura in cui ha cercato di rimediare ai propri errori, ai propri atteggiamenti innaturali. Se noi diciamo che è la storia a doversi conformare alla natura, toglieremo alla storia, anche quella che ci apparirà più libera e giusta, la tentazione di voler "dominare" la natura, una tentazione che né Marx né Engels né Lenin hanno mai voluto mettere in discussione.

Lo stesso Preve è convinto che la storia debba continuare a considerarsi "superiore" alla natura, in quanto nella natura i processi sono automatici, mentre nella storia sono liberi e consapevoli. Tuttavia, è proprio questo ragionamento a dover essere superato. L'uomo non riuscirà mai a comprendere il senso della propria libertà se non è capace di metterla in rapporto alle necessità della natura. E non sarà mai capace di fare questo finché non uscirà dalla storia che si è voluto creare in antitesi alle leggi oggettive della natura. Da un "uomo innaturale" non potrà mai venir fuori una "storia naturale", per quanti sforzi si facciano a favore della categoria della necessità.

Da quando è uscita dalla comunità tribale, la storia umana è stata soltanto distruttiva di una buona parte dell'umanità e del pianeta. Coi mezzi di cui dispone oggi può esserlo dell'intera umanità e dell'intero pianeta. Perciò su questo punto non si può transigere: il cosiddetto "progresso umano" va fermato, se vogliamo che l'uomo sopravviva a se stesso. Non è la natura a esserci nemica, a meno che noi non la costringiamo a mettersi sulla difensiva. Noi dobbiamo soprattutto uscire dall'illusione di poter rimediare ai disastri del nostro "progresso", migliorando gli strumenti tecnico-scientifici. L'unico miglioramento possibile è quello di dotarsi di mezzi e strumenti il cui impatto sulla natura sia praticamente nullo. Tutto quanto non è assolutamente ecocompatibile o ecosostenibile, va eliminato con decisione.

Su questo - bisogna dirlo con chiarezza - Preve non ha capito nulla, e lo si evince anche dal fatto che sposa le teorie di Althusser relative all'abbandono di qualunque riferimento alla metafisica di una "origine" (edenica), di un "soggetto" (rivoluzionario) e di una "fine" (della storia), senza rendersi conto che tutta la filosofia di Althusser (non solo quella che rifiuta le nozioni di alienazione e di ente naturale generico) porta inevitabilmente all'irrazionalismo, in quanto vuol fare della categoria della necessità un idolo da adorare, un idolo puramente economicistico e quindi pseudo-scientifico, del tutto estraneo non solo ai processi della natura, ma anche alla componente della libertà umana.

*

Costretto a scegliere, ipoteticamente, tra Cina e Russia, Preve sceglierebbe sempre la Cina, sulla base del fatto che il socialismo qui realizzato si rifaceva a un background etnico più omogeneo, a una cultura trimillenaria, a una partecipazione significativa delle masse contadine, a uno statalismo "illuminato" grazie all'etica confuciana e soprattutto grazie a una direzione politica indipendente da Mosca.

Secondo Preve lo sviluppo capitalistico è avvenuto in Cina subito dopo la morte di Mao proprio perché il suo socialismo non è mai stato così autoritario come quello sovietico, che invece ha dovuto aspettare il crollo della stagnazione nella seconda metà degli anni '80.

Preve considera il maoismo "il più importante fenomeno storico dell'epoca del tardo-marxismo" (pp. 224-5). Cioè ritiene il maoismo più importante della perestrojka gorbacioviana, senza rendersi conto che la Cina di oggi è conseguenza indiretta, seppur al negativo, di quella ristrutturazione russa, la quale, per la prima volta, era riuscita a porre all'ordine del giorno il problema di conciliare la giustizia sociale con la libertà personale.

Come noto, la risposta data a questo problema nella ex-Urss non è stata a favore del socialismo e, se vogliamo, non lo è stata in nessun paese dell'ex "Secondo mondo": i poteri dominanti negli Stati socialisti hanno preferito indirizzare la libertà personale verso il capitalismo, oppure hanno conservato le tracce del passato autoritarismo stalinista. Questo a testimonianza che il capitalismo, finché è in grado di espandersi in forza dello sfruttamento del Terzo mondo, riesce a esercitare una profonda attrazione su qualunque paese, persino sugli stessi paesi che subiscono tale colonialismo (che dura da mezzo millennio) e persino sui paesi che sino alla fine degli anni '80 mostravano di conoscere bene i meccanismi di sfruttamento economico tra Occidente e Terzo mondo. Laddove invece, come p. es. nella Corea del Nord, non si è voluto concedere spazio al mercato, e anzi si è accentuato l'autoritarismo, la situazione è drammatica sotto tutti i punti di vista.

In ogni caso che Preve dica che il momento migliore del socialismo cinese è stato dopo il 1956, la dice lunga sull'obiettività di questo filosofo, che evidentemente, piuttosto che fare concessioni alla Russia socialista, ha preferito soprassedere agli orrori del maoismo, che non possono certo essere considerati inferiori a quelli dello stalinismo. Non a caso i maoisti cominciarono ad accusare i sovietici di "revisionismo" proprio a partire dalla destalinizzazione inaugurata Krusciov.

Preve cerca poi di spiegare i motivi per cui ha sempre preferito, nel passato, l'esperienza cinese a quella sovietica:

  1. "La Cina non è un paese multinazionale, ma solo di minoranze nazionali" (p. 225). Il che è per lui vuol dire che mentre nell'Urss stalinista si è stati costretti a usare la forza per tenere unite popolazioni molto diverse tra loro, in Cina invece non se n'è mai avuto bisogno.

    Davvero? Non è certo qui il luogo per esaminare una questione del genere, ma è fuor di dubbio che sotto il maoismo tutte le minoranze nazionali sono state fortemente oppresse, sia a livello linguistico che culturale e religioso; anzi, proprio sotto il maoismo si sono verificati i disastri peggiori nel Tibet e si sono rimessi in discussione i confini tra India e Cina e tra Russia e Cina.

  2. "La Cina è un grande paese con una cultura trimillenaria" (p. 225), in grado quindi di assorbire qualunque cosa, senza subire particolari traumi.

    Bisogna dire tuttavia che questa cultura sembra non essere servita a granché quanto al rispetto dei diritti umani e civili. Confucianesimo e taoismo, che sicuramente in questo paese sono più antichi del buddismo, sono sempre state due culture "cortigiane", che non hanno mai messo in discussione l'autoritarismo dei poteri dominanti.

  3. "In Cina la rivoluzione socialista è stata compiuta prima mobilitando i contadini poveri (1921-49)" (p. 225).

    Come se in Russia gli operai hanno potuto fare la rivoluzione d'Ottobre senza l'aiuto dei contadini! Come se l'aver privilegiato, quale riferimento sociale, la classe rurale, abbia, di per sé, fatto progredire più velocemente la Cina comunista verso lo sviluppo della democrazia e dei diritti umani e civili! Ma non era stato Preve a dire che non ha senso "metafisicizzare" una classe sociale? Questa cosa non vale anche per una cultura, una civiltà, una nazione? La rivoluzione culturale iniziata nel 1965 (un vero e proprio colpo di stato del gruppo maoista) la si impose proprio facendo leva sull'arretratezza culturale delle masse contadine, eliminando chi, tra gli intellettuali, non era perfettamente allineato all'isteria anti-sovietica. Questo odio incredibile per le persone studiose si ripeterà, in maniera disastrosa, nella Cambogia di Pol Pot, largamente appoggiata dalla Cina.

  4. La Cina ha una "lunghissima tradizione di uno statalismo 'illuminato' sulla base di un'etica confuciana" (p. 226); il che le permette oggi di gestire il capitalismo meglio di qualunque altro Stato ex-socialista.

    Come noto però l'etica confuciana è favorevole al conformismo sociale e al rispetto indiscusso per le autorità. Che il capitalismo sia gestito nel migliore dei modi in Cina è tanto poco vero quanto lo è l'idea di un "dispotismo illuminato". Basta vedere le conseguenze di quello sviluppo a livello ambientale, ma anche le condizioni disumane del lavoro, le migrazioni interne di massa verso i centri urbani, che stanno diventando congestionati, nonché l'estorsione, da parte dello Stato, di un enorme plusvalore lavorativo, con cui ha potuto iniziare una penetrazione imperialistica nelle aree più povere del pianeta, e ora, coi propri manufatti (spesso non conformi agli standard occidentali di sicurezza), anche nei paesi più avanzati.

  5. In Cina "la direzione politica [è stata] al cento per cento 'nazionale' e non dipendente dalla casa madre moscovita" (p. 226). Il che non poteva certo essere detto dei paesi est-europei.

    Tuttavia la dipendenza del maoismo dallo stalinismo era ideologica, anche se tra le due ideologie vi era una differenza significativa dovuta al fatto che in Cina si temeva che, sviluppando fortemente l'industrializzazione, si sarebbe perso il controllo sul mondo contadino.

Al dire di Preve l'esperienza cinese più significativa è stata quella degli anni 1949-76, cioè quella durata fino alla morte di Mao. Da notare che, per Preve, il capitalismo in Cina è subentrato subito dopo la morte di Mao, con Deng Xiao Ping. Ciò è vero, ma la spinta decisiva è venuta solo da una interpretazione democratica della perestrojka gorbacioviana, che in Cina produsse la rivolta giovanile di Tien an Men, vero equivalente della caduta del muro di Berlino nel 1989. Preve non lo vuole ammettere perché in gioventù era stato maoista, e del maoismo apprezzava il fatto di riuscire ad assimilare il marxismo in maniera creativa, senza lasciarsi condizionare troppo dai limiti dello stalinismo. Alla fine della sua analisi del maoismo, condotta in quasi tutto il capitolo V, Preve cita i suoi punti di riferimento privilegiati in ambito occidentale: Charles Bettelheim e Gianfranco La Grassa.

Un grave errore di valutazione, questo, in quanto il maoismo va considerato una forma di stalinismo vissuto in ambito rurale, senza fare particolari concessioni al ruolo dell'industria. La differenza tra le due ideologie dipendeva proprio dal maggiore o minore accento che si attribuiva alla questione rurale, ivi incluse le tecniche e le modalità di produzione agricola. La Cina ha davvero cominciato a capire l'importanza dell'industrializzazione solo dopo la morte di Mao. Cioè invece di realizzare la rivoluzione industriale sotto il socialismo, l'ha fatta sotto il capitalismo, seppur gestito da un partito-stato sedicente comunista. Ha dovuto prima sperimentare tutti i fallimenti delle collettivizzazioni forzate pretese dal maoismo.

Preve sembra addirittura rimpiangere non solo l'epoca maoista, ma persino la "sinistra maoista" rappresentata dalla cosiddetta "banda dei quattro", che, secondo lui, fu eliminata con un "colpo di stato", e quindi in maniera ingiustificata, quando in realtà, se c'è stata una cosa che il Pcc ha fatto con avvedutezza, è stata proprio quella. Il maoismo è stato una dittatura assurda non meno dello stalinismo, con questa differenza, che mentre in Russia, a partire da Krusciov, si tentò con coraggio di liberarsi del peso dello stalinismo6, anche se poi non vi si riuscì sino in fondo; in Cina, proprio nello stesso periodo, si volle sprofondare in una dittatura che, per molti versi, era anche peggiore, in quanto ci si avvaleva dell'analfabetismo delle masse rurali per sottomettere l'intellighenzia, tanto che ancora oggi gli intellettuali continuano a rimanere ostili verso la complessità della vita culturale e tendono a sviluppare poco le discipline umanistiche.

Ma perché Preve fa queste lodi sperticate del maoismo, confermate, peraltro, più avanti, dal fatto ch'egli considera questa corrente del marxismo l'unica ad essere "una vera forza politica rivoluzionaria" in molti paesi del Terzo mondo (p. 231), quella più vicina alle idee di Che Guevara, secondo cui prima di conquistare il consenso delle città va conquistato quello delle campagne? Come se, con questa strategia, si sia compiuta, negli ultimi settant'anni, chissà quale rivoluzione in chissà quale paese! Preve non può citarne nemmeno una. Proprio non gli riesce di capire che per realizzare il socialismo è sufficiente colpire i suoi gangli vitali: il resto sarà solo una conseguenza più o meno inevitabile, se la rivoluzione saprà davvero rispondere alle esigenze di giustizia delle grandi masse popolari.

Il fatto è che Preve vuol dimostrare che, se anche di fronte a un'esperienza come quella maoista, si è preferito in Cina, a partire dalla fine degli anni '70, aprirsi alle dinamiche del capitale, allora vuol dire che tutte le teorie marxiste maturate in Occidente vanno considerate superate. Esclusa ovviamente la sua. E qui inizia a elencare i motivi per cui il marxismo (o comunque l'interpretazione che delle opere marxiane si è voluto dare) è fallito:

  1. "Non è vero che il capitalismo tenda verso il suo crollo" (p. 227).

    Invece è vero, solo che bisognerebbe intendersi sul significato delle parole. Il capitalismo non crolla finché ha delle "colonie" da sfruttare impunemente. Ma come queste colonie iniziano a ribellarsi, ecco che il capitalismo scopre di non avere, al proprio interno, le capacità per risolvere le proprie contraddizioni, che inevitabilmente si acuiscono, fino ad approdare a delle guerre civili e quindi a delle rivoluzioni, in mancanza delle quali scoppiano delle guerre mondiali. Grazie alle guerre è sempre possibile - come tutti sanno - convogliare l'interesse nazionale verso un nemico esterno. Se il capitalismo non accetta il proprio superamento, è facile che, nel suo crollo, voglia trascinare il mondo intero, avendo esso avuto la pretesa di diffondersi in tutto il pianeta. Quindi non c'è inevitabilità del crollo, ma solo nella esasperazione dei conflitti.

  2. "Non è vero che il capitalismo sia incapace di sviluppare le forze produttive, anzi è il sistema che le sviluppa di più, fino alla totale catastrofe ecologica e umana" (p. 227).

    Qui Preve tiene unite due cose che in realtà sono molto diverse. Che il capitalismo non sia capace di sviluppare "tutte" le forze produttive, ma solo quelle che gli permettono di realizzare i più alti profitti, è una caratteristica della sua stessa natura. Oggi, col primato ch'esso concede alle speculazioni finanziarie, questo è molto evidente. Il capitale tende sempre a concentrarsi su determinati settori produttivi, che giudica "trainanti", sviluppandoli al massimo, e non si preoccupa affatto di quali ricadute negative (sociali e ambientali) ciò possa avere sulla collettività. In tal senso - e questo è il secondo aspetto, che Preve vuole unire superficialmente al primo - il sistema porterebbe alla "catastrofe ecologica e umana" anche nel caso in cui non si concentrasse sui settori trainanti. Cioè è intrinseco al capitale nuocere all'ambiente, a prescindere dal fatto che si sviluppino o no le forze produttive. I danni vengono procurati proprio dal fatto che, nella scala dei valori dominanti, al primo posto viene messo il profitto. Oggi il capitale non è neppure interessato alla crescente disoccupazione che si crea in forza della delocalizzazione aziendale verso le aree del pianeta in cui il costo del lavoro è minimo e dove l'imprenditore può evitare di preoccuparsi di problemi ambientali e di diritti umani e civili. Il capitale è internazionale e, in tal senso, non ha delle riserve mentali nel porre fine allo sviluppo delle forze produttive nel paese ove esso è nato e si è formato: basta vedere quel che sta facendo in Italia la Fiat.

  3. "Non è vero che il capitalismo comporti una polarizzazione dicotomica sempre maggiore fra borghesia e proletariato, anzi queste due classi tendono a sparire dentro lo stesso capitalismo giunto a un certo grado di sviluppo" (p. 228).

    Invece è vero anche questo, solo che lo è su scala internazionale. Da quando è nato l'imperialismo, a fine Ottocento, è evidente che anche il proletariato occidentale beneficia, indirettamente, dello sfruttamento del Terzo mondo. Non solo, ma quanto più il capitale si "globalizza", tanto più le crisi ch'esso ha in un punto qualunque del pianeta possono avere ripercussioni negative su tutto il resto del pianeta. Basta vedere cos'è successo nell'Europa occidentale in seguito alla crisi finanziaria-immobiliare scoppiata negli Usa nel 2007. Di fronte a crisi del genere, che nel Medioevo sarebbero state equivalenti a delle vere e proprie guerre o a devastanti carestie, finiscono tra le fila del proletariato persone che, fino a un minuto prima, la classe operaia avrebbe considerato dei privilegiati. Questo poi senza considerare che la polarizzazione tende ad aumentare anche tra diverse aree geografiche del capitalismo avanzato e del Terzo mondo, proprio perché il capitale non è interessato in alcun modo a sviluppare le aree depresse del pianeta o a cercare degli equilibri sociali in quelle aree che, per un motivo strategico, può e deve sfruttare economicamente.

  4. "Non è vero che l'ateismo e il materialismo siano filosoficamente adatti per la rivoluzione, mentre la religione e l'idealismo lo siano per la reazione" (p. 228).

    E invece è proprio così! Semmai il problema è un altro, e non poteva certo risolverlo un filosofo astratto come Costanzo Preve. Ateismo e materialismo di per sé sono più "adatti" a compiere le rivoluzioni, ma questo non vuole affatto dire che le rivoluzioni possano dipendere da uno sviluppo culturale dell'ateismo o del materialismo. È evidente, infatti, che nel passato sono state compiute "rivoluzioni" anche in nome di idee religiose, ma quando ciò è avvenuto, è stato sempre perché alla base di quelle idee religiose vi erano motivazioni economiche e politiche; inoltre quelle idee religiose si esprimevano in forme e modi laicizzati, sulla base di contenuti che l'establishment ecclesiastico giudicava ereticale.

    Ciò quindi sta a significare due cose: a) che esiste un progresso culturale innegabile dalle concezioni religiose a quelle ateistiche, a prescindere da motivazioni di ordine economico o politico; b) che non è semplicemente in virtù di tale progresso culturale che è più facile compiere delle rivoluzioni politiche, tant'è che quando viene il momento di farle, credenti e atei possono trovarsi alleati, anche se lo saranno sulla base di motivazioni economiche e politiche, e non saranno certo le idee religiose quelle con cui si potranno risolvere problemi di natura economica o politica.

Sugli altri "non è vero" di Preve - detti e ridetti come un mantra in tutto il libro -, si può convenire sul fatto che il proletariato occidentale abbia dato il meglio di sé lottando a fianco della borghesia contro il feudalesimo. Tuttavia Preve avrebbe dovuto ammettere che il proletariato russo, guidato da Lenin e da altri rivoluzionari come lui, fece molto di più; e il fatto che quella rivoluzione si sia poi trasformata, sotto lo stalinismo, in un'aberrazione, non può stare a significare che la rivoluzione non andava compiuta grazie a un partito politico e che occorreva confidare unicamente in un moto spontaneistico delle masse, come se queste possano più facilmente realizzare i loro obiettivi limitandosi a prendere consapevolezza - sulla scia di Mao - che "si ha ragione quando ci si rivolta e si ha torto quando si opprime".

Comunque con Preve possiamo stare tranquilli: al momento - secondo lui - non vi è alcun soggetto in grado di fare una rivoluzione socialista, per cui non si pone neanche il problema di sapere chi abbia torto o ragione, chi svolga la parte dell'oppresso e chi dell'oppressore. La classe operaia e i contadini poveri sono state le due classi sociali "più incapaci di egemonia dell'intera storia universale" (p. 229). Chissà perché qui Preve non abbia aggiunto anche la classe degli intellettuali...

Solo dopo aver chiarito tutto questo, Preve si accinge a fare una critica, fugace e tardiva e sempre molto superficiale, alla rivoluzione culturale maoista. Una critica basata su tre punti, di cui il primo è la distruzione dei monasteri buddisti e taoisti e delle tombe dei Ming; il secondo riguarda l'umiliazione dei vecchi professori da parte dei loro studenti; e l'ultimo - che avrebbe meritato un'ampia trattazione - è liquidato con una frase laconica e un po' sibillina: "Mao aveva accolto il punto essenziale, e cioè che la cosiddetta 'restaurazione capitalistica' poteva avvenire solo attraverso lo stesso partito comunista, il solo collettore sociale monopolistico efficiente e organizzato di una classe dominante" (pp. 230-31). Cosa che poi effettivamente avverrà a partire dalla segreteria di Deng Xiao Ping, il cui motto ("non importa se il gatto è bianco o nero, purché prenda i topi") Preve giudica "immorale".

Quindi il maoismo sarebbe fallito - secondo Preve - perché già a partire dalla rivoluzione culturale Mao aveva fatto capire che la classe da privilegiare era quella borghese, se si voleva far sviluppare la nazione. In effetti è indubbio che durante quella rivoluzione i maoisti, pur criticando il revisionismo kruscioviano e dello stesso Deng Xiao Ping, rimosso dalla sua carica per sette anni, non colpirono tanto la borghesia, quanto piuttosto l'intellighenzia e i quadri del partito a loro scomodi, concedendo altresì alle comuni agricole ampi poteri.

Ma è anche vero che sotto il maoismo non si sviluppò mai una vera borghesia industriale. Mao volle essere un dittatore del potere assoluto e la rivoluzione culturale gli servì per organizzare la sua incontrastata egemonia, dopo i fallimenti della strategia dei "cento fiori" e del "grande balzo in avanti"; tant'è che la Costituzione del 1975 risultò parecchio involutiva rispetto a quella del 1954, proprio sul piano delle libertà personali, dei diritti civili e della democrazia.

Se davvero col maoismo si sviluppò il capitalismo in Cina, il vero revisionista avrebbe dovuto essere Mao: invece egli rimase stalinista in veste agraria sino alla fine dei suoi giorni. E il capitalismo vero e proprio non si sviluppò neppure sotto Deng, poiché il potere politico comunista in Cina ha sempre avuto paura di concedere ampi spazi alla borghesia di un certo livello, cioè a quella superiore ai bottegai, ai piccoli commercianti ecc. Il vero capitalismo è esploso solo dopo la perestrojka gorbacioviana, che in Cina le giovani generazioni trasformarono nella imponente manifestazione di piazza Tien an Men. Solo dopo la dura repressione di questo movimento democratico, iniziò a svilupparsi il capitalismo in grande stile, sempre sotto il controllo (questa volta molto morbido) del partito comunista. E in ogni caso in Cina le concessioni economiche fatte al mercato sono servite proprio per non fare concessioni politiche alla democrazia. Quindi il maoismo continua in realtà a sussistere, checché ne pensi Preve.

Il maoismo oggi non sarebbe in grado di esistere (e questo la dice lunga sul suo contenuto rivoluzionario) in nessun paese del capitalismo avanzato, per la semplice ragione che qui la classe contadina è quasi del tutto scomparsa (secondo il cliché del lavoratore sfruttato da un padrone che vuol vivere di rendita), oppure si è trasformata essa stessa in maniera capitalistica, essendo tutta la produzione rurale interamente rivolta al mercato. Una classe del genere non saprebbe che farsene del maoismo, né delle varianti intellettualistiche ed elitarie (ancora presenti in Occidente) del trotzkismo. Se venisse rovinata da una forte crisi di sistema, dovrebbe per forza cercare degli alleati nel mondo operaio e nella piccola-borghesia proletarizzata. Ma dovrebbe prima di tutto uscire dall'individualismo che la caratterizza: non si sono mai fatte rivoluzioni sociali con famiglie di agricoltori che gestiscono separatamente decine di ettari di terra coltivata.

Quanto meno questi agricoltori dovrebbero associarsi in cooperative, ma con finalità completamente diverse da quelle odierne. Nei secoli passati i contadini riuscivano a esercitare una forza eversiva perché in realtà facevano capo alle comunità di villaggio, che erano una sorta di città-stato nel mondo rurale. Oggi, di regola, gli agrari che vedono minacciati i loro redditi dalle crisi sistemiche o che sentono odori troppo forti di socialismo, si affidano a soluzioni di estrema destra, ivi incluse quelle di tipo leghista, favorevoli al separatismo dallo Stato centralista.

Peraltro il separatismo, in sé, non sarebbe affatto un'idea insensata. È insensata l'idea di pretenderlo per poter fare, a livello locale-regionale, più business di quanto non si riesca a fare a livello nazionale con uno Stato centralista. Separarsi "in casa", in un mondo capitalistico fortemente globalizzato, ha senso solo se ci si pone contro il sistema e solo se si cercano alleati che vogliano fare altrettanto. Federalismo, separatismo o secessionismo hanno un loro vero senso solo se aiutano l'intero sistema a uscire dal capitalismo. Cioè si può anche tentare, a livello locale-regionale, di staccarsi dallo Stato centralista, ma, per poterlo fare in maniera efficace, occorre davvero realizzare il socialismo, cioè avere obiettivi comuni quanto a uguaglianza e giustizia sociale. Peraltro solo così si sarà in grado di difendersi dagli inevitabili attacchi economici da parte dei mercati, e militari da parte degli Stati, i quali Stati e mercati, al vedere cose del genere, facilmente si coalizzerebbero.

Realizzare il socialismo, a livello locale-regionale, vuol dire però realizzare un'alleanza tra tutti i lavoratori fortemente interessati al conseguimento di questo obiettivo. Infatti, anche nel Medioevo l'istanza locale cercava di contrapporsi al centralismo degli imperatori o delle monarchie assolutistiche, appoggiate dalla borghesia; ma ciò avveniva solo perché ogni feudatario voleva sfruttare i propri servi della gleba senza dover rendere conto a nessuno. Oggi non possiamo, perché ciò non avrebbe alcun senso "sociale", fare dell'imprenditore borghese locale una sorta di "nuovo feudatario". È l'idea stessa di "sfruttamento del lavoro altrui" che dobbiamo superare.

Di fronte a questa necessità, avere o non avere uno Stato federale o addirittura una secessione territoriale, non cambia assolutamente nulla. Anzi, è da presumere che, di fronte ai crescenti problemi di bilancio economico, possa risultare più comodo allo Stato centralista ch'essi vengono affrontati, autonomamente, dagli enti locali territoriali; per cui non è da escludere che una riforma federalista della forma dello Stato possa partire dallo stesso governo centrale.

Se si spalmasse l'intero debito nazionale fra tutte le regioni, chiedendo a queste stesse regioni (previa ovviamente una forte riduzione delle tasse) di realizzare il pareggio di bilancio, non cambierebbe assolutamente nulla riguardo all'idea di "sfruttamento del lavoro altrui". Se lo Stato diventasse federale e dicesse alle regioni di pagarsi il debito nazionale (eventualmente ripartito sulla base del prodotto interno lordo o del numero degli abitanti di ogni singola regione), e poi dicesse loro di gestirsi tutte le spese sociali di sanità, scuola, previdenza, assistenza, ecc. (quello che oggi viene chiamato lo "Stato sociale"), inviando a Roma solo una parte delle tasse, che cosa cambierebbe per gli interessi fondamentali del capitale? Assolutamente nulla.

Il centralismo è stato necessario per eliminare le tendenze particolaristiche del mondo feudale, ma oggi nessuno mette in discussione che il profitto borghese è l'unica vera alternativa alla rendita feudale. Semmai ci si scontra sul fatto che molti borghesi al profitto industriale preferiscono la rendita finanziaria. Questo per dire che se ci si vuole staccare dal centralismo dello Stato, bisogna nel contempo pensare a come realizzare una transizione dal capitalismo al socialismo e, nel fare questo, non ci saranno di alcuna utilità né le idee maoiste, né quelle staliniste, né quelle trotzkiste. Dovremmo anzi stare molto attenti a utilizzare persino quelle di Marx, Engels e Lenin, in quanto oggi abbiamo dei gravi problemi da affrontare che, ai loro tempi, risultavano marginali, come p. es. quello ecologico-ambientale, o addirittura inesistenti, come p.es. quello delle armi di distruzione di massa o quello delle modificazioni genetiche compiute in agricoltura e negli allevamenti. Per non parlare del fatto che dobbiamo superare l'idea stessa di Stato e di mercato, nel senso che si devono porre subito le condizioni per cui queste due entità anonime e prevaricatrici non abbiano alcuna possibilità di nuocere. E, per poterlo fare, non ci sono altre alternative che quelle della democrazia diretta e dell'autoconsumo.

La responsabilità non va considerata "personale" solo in campo giuridico, quando si tratta di assegnare sanzioni o attribuire pene di fronte a determinati reati. La responsabilità è "personale" in senso positivo, in riferimento ai compiti autogestionali di un determinato collettivo, di cui si è parte organica. Stato e mercato rappresentano solo una forma di deresponsabilizzazione, in quanto sussistono sulla base del principio della delega.

Che cos'è che non funzionò nel "socialismo contadino" di Mao Tse Tung? Non funzionò l'idea di voler sviluppare l'autonomia delle comuni rurali, senza voler nel contempo eliminare l'idea di Stato, cioè senza voler eliminare quei corpi statali che tendono a separarsi dalla società civile e che risultano fortemente improduttivi, come p.es. l'apparato poliziesco-militare, ma anche quello burocratico-politico.

Quando la Cina, nel 1949, divenne uno Stato socialista, distribuì a 300 milioni di contadini e braccianti (circa la metà della popolazione) le terre confiscate ai grandi proprietari e alle comunità religiose, obbligando i contadini ad associarsi in cooperative. Di fatto però queste cooperative prendevano ordini dallo Stato e dal partito comunista, i quali miravano a fare della Cina una "grande potenza". Nel 1950, p.es., si occupò subito il Tibet; si fece di tutto per avere la bomba atomica (vi si riuscirà nel 1964); ci si oppose strenuamente all'antica cultura cinese; si mantennero atteggiamenti ostili nei confronti dell'Urss sin dalla fine degli anni '50, nonostante gli aiuti ricevuti; si favorì enormemente il "culto della personalità" di Mao quando in Russia il krusciovismo sottoponeva a critica quello di Stalin; nel 1962 si occuparono due province del Kashmir, appartenenti all'India, rischiando di far scoppiare la guerra; si aderì al movimento non-allineato più che altro in funzione anti-sovietica e per proporsi come "guida" del Terzo mondo; si odiavano a morte gli intellettuali soltanto perché non si voleva che qualcuno potesse contestare le contraddizioni del sistema, e via dicendo.

La Cina di Mao rifiutò giustamente l'ideologia stalinista, che voleva concedere all'industria un primato strategico sull'agricoltura, ma non rifiutò né l'idea di fare dei contadini una sorta di "servi della gleba" al servizio dello Stato, né l'idea di fare dello Stato un apparato repressivo e fortemente militarizzato. E quando il maoismo fallì, alla fine degli anni '70, si volle concedere all'industria, anche privata, un privilegio dietro l'altro soltanto per far diventare capitalista l'intero paese nel più breve tempo possibile, a prezzo di incredibili sacrifici, conservando però sul piano politico molte caratteristiche autoritarie del maoismo.

Insomma, alla resa dei conti, la Cina non è mai riuscita a realizzare un socialismo agrario democratico. Anzi, oggi sembra essere diventata l'erede di un nuovo tipo di capitalismo, quello gestito da un governo che pretende di definirsi "comunista"! Oggi la Cina è diventata, quanto a prodotto interno lordo, una delle prime potenze capitalistiche del mondo; è una nazione super-inquinata; ha uno sviluppo urbano assolutamente caotico; è il luogo privilegiato per la delocalizzazione di imprese occidentali; esporta qualunque cosa senza rispettare, spesso, gli standard di sicurezza dei paesi occidentali, che la costringerebbero a produrre a costi più elevati; estorce ai propri lavoratori un enorme plusvalore con cui può realizzare il proprio "neo-colonialismo" in Africa e America latina, facendo altresì incetta di metalli pregiati e acquistando titoli di credito nei paesi capitalisti, pensando, un giorno, di poterli utilizzare come arma di ricatto (già oggi è diventata il "banchiere degli Stati Uniti"); non s'interessa né di diritti umani, civili e politici, né di tutele sindacali: la propria manodopera non è solo a basso costo e relativamente istruita, ma è anche disposta a qualunque orario di lavoro e il partito di governo esclude qualunque forma di dissenso e di democrazia pluralistica; e naturalmente dispone dell'esercito più grande del mondo.

Di fronte a una situazione del genere che cosa dice Costanzo Preve? Dice che "il maoismo occidentale fu l'ultima forma di rivitalizzazione del marxismo prima della dissoluzione finale" (p. 232). Ma che cosa intende Preve con la definizione di "maoismo occidentale"? Intende "quella corrente intellettuale, dal francese Charles Bettelheim all'italiano Gianfranco La Grassa", che scoprì, o meglio riscoprì una cosa già nota alle correnti "eretiche" del marxismo (bordighismo, trotzkismo, anarchismo, comunismo dei consigli, ecc.), seppur non in forma così esplicita e categorica, che "dentro i cosiddetti 'partiti comunisti' si stava sviluppando un gruppo specializzato in manipolazione e mediazione politica pronto a diventare una struttura mercenaria non certo della 'piccola borghesia', ma direttamente del grande capitale finanziario" (pp. 232-3). E qui Preve, a titolo d'esempio, cita le "mobilitazioni dei 'comunisti' italiani per sostenere la guerra imperiale americana contro la Jugoslavia del 1999" (p. 233).

Preve naturalmente si riconosce in questa corrente maoista, anche se, essendo un filosofo individualista, non può non prendere le distanze dall'"incurabile conservatorismo teorico" (ib.) di tale corrente. Preve vuol andare "oltre" tutte le realizzazioni pratiche del marxismo, per potersi riservare la possibilità di dire che le sue critiche sono giuste o giustificate. Egli peraltro non vede il maoismo come una variante stalinista, realizzata in un paese agricolo, ma lo colloca nell'ambito del cosiddetto "comunismo eretico", ponendolo come erede delle varie correnti, sopra citate, che l'avevano preceduto. Preve è disposto a riconoscere una patente di legittimità a qualunque idea anti-sovietica e, nel far ciò, non si rende conto di quante tracce di stalinismo vi sono nelle correnti cosiddette "ereticali" del marxismo.

Che cosa dire di tutte queste considerazioni di Preve sul tardo-marxismo?

  1. In Occidente non esiste alcun partito sedicente "comunista" che si ponga in maniera esplicita al servizio del capitale (questa è semmai una caratteristica del partito comunista cinese). Infatti, nella misura in cui i partiti socialcomunisti si comportano così, cambiano denominazione e diventano "socialdemocratici". Sono costretti a farlo proprio perché, a differenza che in Cina, da noi esiste la "libertà di parola", e un'operazione del genere - quella di mantenere una medesima denominazione - verrebbe fortemente contestata.

  2. Il fatto che gli attuali partiti "socialdemocratici" siano stati un tempo socialcomunisti, e che ora si siano messi al servizio del capitale, pur conservando una patina di "socialismo" là dove si vuole tutelare lo "Stato sociale", non sta di per sé a significare che le idee di socialismo e di comunismo siano definitivamente tramontate. Idee di questo genere non possono tramontare soltanto perché esistono dei "revisionismi in atto". Gli stessi "revisionismi" sono una conseguenza del fatto che il capitale ha momentaneamente risolto le proprie contraddizioni facendone pagare il peso alle fasce sociali più deboli o ai paesi del Terzo mondo. Ma se le contraddizioni si ripresentano (e, in genere, quando lo fanno, sono in forme più acute delle precedenti), ecco che le idee del "socialismo" tornano in auge.

  3. Quando, in seguito alle crisi acute del sistema, si ripropongono idee di tipo "socialista", si notano sempre due fenomeni paralleli: a) temendo d'apparire poco credibili, proprio a causa delle involuzioni subite dal socialismo, queste nuove idee si danno denominazioni che non presumono di agganciarsi al passato: temono d'essere etichettate come "cosa vecchia"; b) i nemici più risoluti di queste nuove idee socialiste, proposte sotto altra veste, sono proprio i partiti revisionisti, i quali non possono sopportare che gli ideali, in cui un tempo loro stessi credevano, vengono fatti propri da forze sociali nuove, che non hanno ricevuto il placet da parte di nessuno e che non si rifanno a una precisa tradizione di pensiero. P. es. oggi in Italia è molto più "socialista" un partito come quello pentastellato che non quello democratico, proprio perché il Pd vuole gestire una "riforma" del capitalismo italiano, al fine di renderlo più efficiente, mentre l'altro, stando all'opposizione, sta svolgendo la parte che il Pd faceva quando si chiamava "comunista".

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Ora però bisogna vedere cosa propone Preve per uscire dall'impasse che ha appena analizzato, in quanto, se neppure il "maoismo occidentale" è in grado di superare il sistema dalla logica del capitale, allora tanto vale rassegnarsi.

Tuttavia, sino alla fine del capitolo V, invece di delineare delle proposte, Preve non fa che reiterare le sue proteste, confermandosi, in questo, nella sua posizione di filosofo hegelo-marxista. Bisognerà quindi attendere l'ultimo capitolo, dal titolo: "Epoca del post-marxismo o epoca di una nuova rifondazione del marxismo?", il cui sottotitolo però non sembra lasciare molte speranze: "Un dilemma per ora senza risposta". Ma siccome non abbiamo fretta, vediamo la fine del capitolo V.

Preve ha di fronte a sé due esigenze da far valere: dimostrare che il capitalismo va superato, in quanto "aliena", "disintegra" i lavoratori; dimostrare che il ceto degli intellettuali, inclusi naturalmente i politici comunisti, essendo ben integrato nel sistema, non è in grado di aiutare i salariati a uscirne.

Da un lato Preve sembra dire cose acute: "l'integrazione delle classi oppresse avviene attraverso la disintegrazione della loro identità comunitaria precedente e attraverso la loro reindividualizzazione familistica e consumistica" (p. 236). Dall'altro però preferisce amaramente constatare che i lavoratori salariati, da soli, non sono mai stati capaci di realizzare alcun socialismo democratico, e che gli intellettuali di sinistra stanno dalla loro parte solo a parole. Gli uni si sono lasciati corrompere dal consumismo, gli altri dalle ideologie che garantiscono un certo potere politico e amministrativo.

Le critiche più feroci le rivolge agli intellettuali di sinistra, soprattutto a quelli che si accontentano di fare "rivoluzioni a parole" (p. es. tutti i sessantottini). L'ultimo a mettere sulla sua graticola è Gorbaciov, la cui perestrojka - a suo dire - non avrebbe fatto altro che consegnare la Russia nelle mani del capitale. Arriva addirittura a considerare la perestrojka "un maestoso dramma storico" (p. 234), superiore, per gravità, allo stesso stalinismo, proprio perché ha tolto ogni speranza in merito all'idea di "socialismo".

Preve qui ragiona come un filosofo idealista: o tutto o niente. Poiché la perestrojka non ha realizzato alcun socialismo democratico, allora di essa si deve buttare via tutto, a prescindere dalle intenzioni soggettive di chi l'aveva ideata. Preve non crede nella autonoma capacità di riscatto dei salariati, ma non crede neppure nella buona fede degli intellettuali. È un disincantato sino alla disperazione. Uno così, se si fosse impegnato in politica, sarebbe stato un pessimo dirigente. Di fronte alle prime difficoltà di realizzo di determinate idee, si sarebbe dimesso o avrebbe preteso l'uso di metodi dittatoriali, cioè proprio quei metodi che per tutto il libro ha voluto sottoporre ad accusa. Soggetti di questo genere si trovano bene soltanto quando, di fronte a loro, vi è un uditorio come quello studentesco, che, essendo ancora troppo giovane e con una cultura di molto inferiore, non è in grado di far valere alcuna efficace contestazione. Ora però dobbiamo analizzare l'ultimo capitolo.

Il post-marxismo

Paradossalmente, dopo aver criticato, per tutto il libro, l'ideologizzazione del pensiero marxiano, operata - secondo lui - già a partire da Engels, Preve ritiene che il problema fondamentale sia quello di come far rinascere il "marxismo", a dispetto peraltro di quello che Marx stesso disse di sé, e cioè di non essere un "marxista". In realtà è l'idea di socialismo che deve rinascere e, a tale scopo, non è detto che il marxismo sia davvero indispensabile.

Non abbiamo certo avuto bisogno di Marx prima di sentir parlare di "socialismo". E non è affatto detto che, solo perché il socialismo di Marx venne definito "scientifico", in opposizione a "utopistico", il socialismo futuro dovrà per forza essere "scientifico" come quello marxiano.

Dopo il fallimento di tutte le ideologie di sinistra, sarebbe davvero strano credere ancora di poter resuscitarne qualcuna in forma riveduta e corretta. Finché si pensa di poter applicare alla realtà un'idea precostituita, ci si condannerà inevitabilmente al fallimento. Lo stesso Lenin si guardava bene dal dire che l'obiettivo fondamentale del partito era la coerenza di teoria e prassi. Egli si era semplicemente limitato a dire che non ci può essere una prassi rivoluzionaria senza una teoria rivoluzionaria. Per il resto chiunque è in grado di capire che una teoria è davvero rivoluzionaria solo se in grado di risolvere i problemi concreti della gente comune, e di mettere le persone in grado di risolvere in autonomia i nuovi problemi che in futuro dovrà affrontare.

La politica deve soltanto porre le condizioni perché la libertà di tutti, e non di qualcuno in particolare, possa essere esercitata in maniera efficace. Sono le risposte che si danno ai bisogni sociali che distinguono una teoria da un'altra. In tal senso cercare delle definizioni per qualificare il proprio impegno, non serve a nulla. Qui il problema non è quello di "riformulare il marxismo", come ha cercato di fare Preve, senza peraltro aver detto alcunché di originale che non fosse già stato detto nell'ambito del marxismo stesso; ma è quello di porre le basi, pratiche anzitutto e, se teoriche, solo in riferimento a problemi concreti, per indurre i lavoratori e i cittadini a credere che il capitalismo non è riformabile. Di qui la necessità, ogniqualvolta si offrono soluzioni concrete, di far capire alla società civile che se tali soluzioni non vengono applicate, la responsabilità ricade unicamente sull'immobilismo del sistema, sul conservatorismo della sua classe dirigente e ovviamente sulla rassegnazione di chi dovrebbe opporsi.

Tuttavia Preve non è in grado di dire nulla di utile ai fini di una riproposizione di idee socialiste "rivoluzionarie" per i tempi moderni. Anche nell'ultimo capitolo, infatti, parte subito col piede sbagliato. Dice, a proposito di Lenin, ch'egli impose, reagendo alla crisi della "vulgata unitaria di Kautsky", "un'innovazione qualitativa di paradigma, e cioè la teoria del partito come soggetto di sostituzione pressoché integrale al soggetto classico tradizionale" (p. 246), che era appunto la classe operaia.

Un modo di impostare le cose, questo, completamente sbagliato, in quanto fa insorgere il sospetto che Lenin abbia voluto fare non tanto una "rivoluzione proletaria" quanto piuttosto un "colpo di stato".

Ai tempi di Lenin il partito marxista c'era già: si chiamava "socialdemocratico". In Russia esistevano anche altri partiti vicini alle idee del socialismo (p. es. i menscevichi, i socialisti-rivoluzionari..., persino i populisti avevano idee di socialismo agrario). Per Lenin il problema non era quello di creare un nuovo partito con cui "sostituire integralmente" la classe operaia, ma quello di fare del partito socialdemocratico un'avanguardia consapevole, bene organizzata, intenzionata davvero a dirigere il movimento operaio e contadino verso la conquista del potere politico per il rovesciamento del sistema. Se anche solo per un momento Lenin avesse pensato di sostituire gli operai con degli intellettuali "rivoluzionari", ovvero con dei politici di professione, avrebbe fatto solo dell'avventurismo. Semmai era il partito socialdemocratico, espressione della seconda Internazionale, che aveva preso a sostituirsi al proletariato, allo scopo di gestire le contraddizioni del sistema in chiave meramente riformistica.

L'"innovazione qualitativa di paradigma" vi era quindi già stata, e non solo in tutta l'Europa occidentale, ma anche in Russia. Sono poche le eccezioni a riguardo, e tutte o posteriori a Lenin o non altrettanto efficaci o entrambe le cose (p.es. gli spartachisti tedeschi, i comunisti italiani...). Persino il fascismo italiano può essere considerato una risposta "rivoluzionaria" al riformismo del socialismo di Turati. Con la differenza che Lenin volle la fine della proprietà privata dei principali mezzi produttivi; Mussolini invece, una volta diventato fascista, non la mise mai in discussione. Questo per dire che è finito da un pezzo il periodo in cui si pensava che il proletariato avrebbe potuto da solo compiere la rivoluzione socialista. Marx aveva smesso di credere in questa utopia sin da quando si era trasferito in Inghilterra. Il suo limite, rispetto a Lenin, era che, stando in Inghilterra, non riuscì mai a costruire un partito tedesco con cui rovesciare il governo prussiano e realizzare il socialismo. Marx ed Engels al massimo arrivarono a porre le basi della prima Internazionale, che di rivoluzionario non aveva nulla. E il governo prussiano non cadde perché sconfitto dei comunisti, ma perché perse la prima guerra mondiale.

Probabilmente anche lo zarismo sarebbe caduto per la stessa ragione dei prussiani, ma, senza la presenza dei bolscevichi, fatalmente sarebbe stato sostituito da un governo borghese favorevole allo sviluppo del capitalismo. Lenin era convintissimo che, senza "rivoluzione proletaria", cioè senza una rivoluzione della classe operaia, che si ponesse a capo di un movimento in cui i contadini salariati venissero considerati i principali alleati, in Russia non avrebbero trionfato le idee populiste relative al socialismo agrario dell'obščina, ma quelle borghesi dei liberali, di Kerensky, dei monarchici costituzionalisti... o, al massimo, quelle dei menscevichi, cioè di quei socialisti che ritenevano il capitalismo una tappa fondamentale per realizzare il socialismo.

Tuttavia Preve, non vedendo una vera discontinuità tra leninismo e stalinismo, è costretto a sostenere che in Russia il socialismo è fallito proprio perché Lenin volle creare un partito di politici di professione con cui sostituire la classe operaia alla guida del movimento di liberazione dalla secolare autocrazia feudale e dal capitalismo incipiente. Preve è rimasto fermo a concezioni socialiste di tipo anarchico, quelle per le quali ciò che conta, in ultima istanza, è la spontaneità delle masse. Non si rende conto che l'originalità del leninismo stava proprio nell'esigenza di superare il mito rivoluzionario di questa spontaneità.

Ora, se si rifiuta il leninismo, viene giocoforza rifiutare tutto quello che gli sta "sopra" (i dirigenti politici comunisti, che Preve giudica "dilettanti culturali"), quello che gli sta "sotto" (i docenti universitari marxisti, sottomessi alle esigenze della specializzazione accademica) e quello che gli sta "attorno" (i piccoli gruppi marxisti fondamentalisti, il cui difetto principale è il dogmatismo autoreferenziale). Che cosa resta per realizzare la transizione al socialismo? Nulla. Non esiste neppure la classe operaia, poiché questa è stata corrotta dai "sovrapprofitti imperialistici" (p. 254), diventando - come già Lenin aveva detto - "un'aristocrazia operaia", e i dirigenti politici e sindacali non fanno che spartirsi questi profitti.

Non interessandosi minimamente del Terzo mondo (se non quando esalta il maoismo), a Preve non rimane - se vuole continuare a definirsi "marxista" - che tornare a Marx. Cioè invece di cercare nel presente del mondo occidentale quelle correnti di pensiero che, pur non definendosi "socialiste" o "comuniste", presentano aspetti eversivi nei confronti dello status quo (p.es. le teorie della decrescita o quelle ambientalistiche o quelle relative alla "democrazia diretta", ecc.); invece di cercare se esistono nei paesi del Terzo mondo intellettuali o correnti di pensiero che si pongono in maniera alternativa al globalismo imperante, che è una forma di neo-colonialismo economico-finanziario, Preve va a cercare in Marx la chiave per poter ancora sperare in una qualche fuoriuscita dall'egemonia del capitale.

E, dopo aver detto che il Marx "inglese" aveva smesso di credere nel carattere rivoluzionario della classe operaia, qual è l'argomento che ancora può utilizzare per giustificare la necessità di una transizione al socialismo? È solo uno, già ripetuto nei capitoli precedenti; un argomento che Marx trattò di sfuggita e a cui non diede mai eccessiva importanza, in quanto per lui non era affatto vero che la classe operaia non fosse un soggetto rivoluzionario. Semplicemente la giudicava immatura. Ma era anche convinto che, di fronte alle crisi devastanti del sistema, essa si sarebbe svegliata, necessariamente, non avendo nulla da perdere. Dunque l'argomento "marxiano" che Preve predilige è quello del "lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale, in virtuosa sinergia con le potenze scientifiche intellettuali della produzione capitalistica, definite sulla scorta di Aristotele e di Averroè (concetto di "intelletto attivo", ecc.) con la paroletta inglese di General Intellect" (p. 256).

È qui curioso il riferimento a tale concetto, che altrove era stato usato proprio per smentire le previsioni di Marx quanto alla realizzazione del socialismo. Tuttavia, siccome Preve ama i paradossi, anche qui non può smentirsi. Ed ecco arrivare a dire che questo fantomatico "lavoratore" non si è mai formato e probabilmente mai si formerà, in quanto è impossibile che, sotto il capitalismo, si formi a livello di "rete di imprese" un processo così "virtuoso".

Ma allora che cosa resta? Resta solo il capitale. È monsieur le Capital che continua a sviluppare le proprie forze produttive, al punto da rendere l'economia "incorporata nell'intera riproduzione sociale" (p. 257), facendo di madame la Terre la propria miniera e la propria discarica. Non si esce dal sistema, proprio perché non è solo un sistema economico, ma sociale e globale, in quanto esso condiziona tutti in maniera irreparabile, al punto che - vien quasi da pensare - per uscire da una situazione del genere ci vorrebbe un "dio", come disse un filosofo molto più grande di Preve, Martin Heidegger.

Dunque, se si vuole recuperare Marx, bisogna rifarsi soltanto alla teoria dell'alienazione, formulata anzitutto nei Manoscritti parigini del 1844, quelli in cui si parla di alienazione economica in rapporto a quella filosofica, quelli in cui ci si limita a parlare di "ente umano generico", alla Feuerbach, e dove si vede sì una classe operaia "alienata", ma come può esserlo qualunque lavoratore non padrone dei propri mezzi produttivi; sicché, proprio per questa ragione, non ha alcun senso sentirsi in obbligo di dover attribuire a tale classe un particolare "fine storico", una missione privilegiata di tipo messianico. Preve non parla esplicitamente di questi Manoscritti, ma, poiché preferisce racchiudere Marx nella teoria dell'alienazione, diventa per noi inevitabile farlo.

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Gli ultimi paragrafi sono dedicati all'idea di ricostruire il marxismo in maniera "filosofica, recuperando gli "elementi di cultura comunitaria e giusnaturalistica pre-capitalistici" (p. 269), anche se - Preve se ne rende conto - questi elementi sono tutti scomparsi, almeno in Occidente.7

Vi è anche molto forte la critica all'imperialismo americano, che è il primo ad essere veramente mondiale e il primo a disporre di armi che possono distruggere l'intero pianeta. Gli Usa - al dire di Preve, e su questo non gli si può dar torto -, a partire dall'aggressione alla Jugoslavia nel 1999, sembra non abbiano più alcuna intenzione, se messi alle strette, di tergiversare quando si tratta di difendere i loro interessi di superpotenza: di qui i continui tentativi di andare al di là dei negoziati politici, aggirando il diritto internazionale e mentendo spudoratamente sui motivi dei propri attacchi militari. Questo modo di fare sta ponendo le basi per una "incorporazione" dell'economia nel potere militare, cioè sta creando le premesse per "uno scenario mondiale nuovo, che il tradizionale apparato marxista non è in grado di concettualizzare..." (p. 275).

Sulla tendenza verso la militarizzazione dell'economia capitalistica, Preve ha senz'altro ragione. Sul fatto che il marxismo non capisca che l'egemonia culturale americana "è la prima egemonia culturale integralmente post-borghese, e ultra-capitalistica appunto perché post-borghese" (pp. 275-6), naturalmente ha torto.

Merita però un breve commento l'analisi che Preve fa degli Usa, perché è singolare che voglia concludere una storia critica del marxismo individuando in questo paese il nemico n. 1 da abbattere, quando, in realtà, gli Usa non sono altro che "figli" dell'Europa occidentale e quando oggi è la stessa Cina "pseudo-comunista" che si sta proponendo come "erede" dell'intero capitalismo occidentale.

È singolare che un filosofo così acculturato come lui consideri il movimento puritano che dall'Inghilterra emigrò negli Usa per non essere sterminato dagli Stuart assolutisti e anglicani, come un movimento "pre-borghese", solo perché aveva una forte caratterizzazione religiosa, che oggi ovviamente nessuna borghesia al mondo può avere. Se durante la rivoluzione inglese, che fu senza dubbio "borghese", c'è stato un movimento che più e meglio degli altri esprimeva gli interessi della borghesia piccola e media, fu proprio quello calvinista, che in Inghilterra si chiamò puritano, in Scozia presbiteriano, in Francia ugonotto, in Italia valdese ecc.

Idee fondamentalmente "borghesi", in quanto inerenti al profitto economico (da contrapporsi alla rendita feudale) venivano espresse all'interno di un "guscio mistico", che allora aveva un nome molto più generale: protestantesimo. I protestanti furono capaci di ereditare, portandole alle loro conseguenze più radicali, tutte le proteste religiose contro la chiesa romana, iniziate praticamente con la nascita dei Comuni borghesi italiani, cioè con la nascita dei movimenti pauperistici ereticali.

La borghesia europea è nata in ambito cattolico (Italia e Fiandre, anzitutto), ha potuto beneficiare di una prima giustificazione teorica nella teologia Scolastica, e si è sviluppata enormemente in ambito protestantico, trovando la sua piena legittimazione nel luteranesimo e soprattutto nel calvinismo. Ha potuto enormemente diffondersi negli Stati Uniti perché qui l'unico ostacolo che doveva superare erano le centinaia di tribù indiane, tutte ferme a uno stadio di civiltà pre-borghese. I coloni inglesi emigrati nel Nord America non hanno mai dovuto combattere alcun tipo di feudalesimo, e quando sono riusciti a liberarsi della dipendenza coloniale nei confronti della madrepatria, hanno potuto sviluppare la loro cultura calvinistica con una velocità impressionante, anche perché avevano un territorio enorme da depredare e sfruttare. Gli Usa sono l'esempio più eloquente di cosa voglia dire portare alle sue più logiche conseguenze l'individualismo borghese e protestantico formatosi nell'Europa occidentale.

Oggi, in tutto il mondo, domina questo tipo di capitalismo, la cui componente religiosa si è di molto attenuata, in quanto sostituita dall'ideologia del consumismo. Anche i paesi cattolici han dovuto adattarsi a questo trend. Discorso a parte però va fatto per la Cina, in quanto qui non vi è stata alcuna tradizione calvinista, ma, semmai, taoista e confuciana, la quale, più che un pensiero religioso, è un pensiero filosofico. Sia il taoismo che il confucianesimo sono concezioni di vita ossequiose nei confronti dei poteri costituiti. Nessuna delle due correnti avrebbe mai potuto far nascere il capitalismo, ma nessuna delle due avrebbe mai potuto opporsi se il capitalismo fosse stato "promosso" dai poteri dominanti.

La Cina ha saputo liberarsi della dipendenza coloniale nei confronti delle potenze europee e americana, ma, una volta fallito il comunismo maoista, ha accettato d'imboccare la strada del capitalismo avanzato, senza aver bisogno di compiere una "rivoluzione culturale di tipo religioso". La Cina ha accettato il capitalismo sulla base di due caratteristiche dominanti: statalismo e ateismo, che nell'Europa occidentale e negli Usa non sono così fortemente sviluppate, in quanto qui si deve tener conto di retaggi feudali (Europa) o si è comunque preferito favorire l'individualismo più sfrenato (Usa).

Secondo Preve invece è "pre-borghese" tutto quello che è "religioso", ed è "post-borghese" tutto quello che è "consumistico". Quindi l'aspetto borghese vero e proprio inevitabilmente viene confinato non tanto in un determinato periodo storico, quanto piuttosto in singole esperienze culturali, quali p. es. l'Umanesimo e il Rinascimento, l'Illuminismo e la filosofia moderna. Preve non lo dice espressamente, ma se abbiamo capito bene il suo modo curioso di utilizzare il termine "borghesia", lo si deduce abbastanza facilmente. Anche perché questo modo di usare il suddetto termine è funzionale a tutto l'altro discorso, fatto in precedenza, relativo alla necessità di dimostrare che se non esiste più una classe sociale specifica da combattere (in quanto siamo tutti diventati "borghesi"), è evidente che il marxismo va riformato alla radice.

Anche su questo bisogna dire che Preve è quanto mai superficiale. Lo è per almeno due motivi. Il primo è che il conflitto tra borghesia e proletariato oggi ha assunto la forma di uno scontro epocale tra capitalismo e Terzo mondo. È vero che le classi dirigenti dei paesi terzomondiali sono prone ai diktat dei paesi capitalistici avanzati, ma è anche vero che in quest'area deprivata del pianeta pesano tutte le contraddizioni dell'attuale capitalismo, e la cosa non potrà certo durare in eterno. Questi paesi sono indebitati fino al collo e, per permettere alle proprie borghesie di svilupparsi, sono costretti ad affamare la maggior parte della loro popolazione. È sufficiente che qualcuno di loro dichiari bancarotta per far tremare le banche di mezzo mondo. È sufficiente che qualcuno di loro nazionalizzi alcune risorse energetiche considerate strategiche per l'Occidente, da allarmare seriamente le nostre multinazionali. Negli anni Settanta è stato sufficiente aumentare il prezzo del petrolio da parte dell'Opec, per costringerci ad andare a piedi.

Preve non si rende conto che, nell'attuale globalismo, che pur, all'apparenza, sembra dominare incontrastato, qualunque cosa avvenga di anomalo, in qualunque parte del pianeta, ha ripercussioni quasi immediate sull'intero pianeta. Basta vedere il terremoto che ha procurato in tutto l'Occidente la crisi americana dei subprime immobiliari. Le crisi del capitalismo sono periodiche e producono effetti sempre più devastanti e sempre di più vasto raggio, proprio perché assistiamo a una crescente internazionalizzazione degli scambi commerciali. Il crac borsistico del 1929 comportò, indirettamente, l'affermazione del nazismo. Non solo, ma queste crisi sono per lo più imprevedibili, in quanto nei paesi capitalistici avanzati la politica non riesce a controllare l'economia; anzi, in genere i governi intervengono per ripianare i debiti degli speculatori dei grandi istituti finanziari, facendoli pagare all'intera collettività.

Il secondo motivo per cui l'analisi di Preve è superficiale è appunto collegato a queste considerazioni. Le crisi sistemiche del capitale globalizzato non fanno che proletarizzare ampie masse di popolazioni all'interno degli stessi paesi capitalistici. Cioè dal giorno alla notte si ritrovano tra le fila dei nullatenenti anche degli imprenditori rovinati dai debiti, impiegati che non riescono a pagare il mutuo per la casa, piccoli commercianti rovinati dalla concorrenza dei grandi supermarket, operai che, licenziati a una certa età, non riescono a ricollocarsi, lavoratori che svolgono mestieri obsoleti e non sono stati capaci di riciclarsi, per non parlare di quei soggetti che hanno fatto investimenti finanziari completamente sbagliati. Basta vedere l'incredibile tasso di disoccupazione giovanile per rendersi conto di quanto sia precario il benessere di cui godiamo. La Grecia è passata, nel giro di pochissimi anni, da una situazione relativamente stabile alla miseria più nera. E che dire del crollo del sistema bancario islandese negli anni 2008-2011? Nazioni come Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia stanno arrancando, per non parlare di quelle che, dopo aver eliminato il cosiddetto "socialismo reale", hanno chiesto di entrare nell'Unione europea: Polonia, Ungheria, Romania, Moldavia, Bulgaria... In tutti questi paesi ex-comunisti prospera soltanto il "grande capitale internazionale", quello che ha i mezzi per sfruttare manodopera a basso costo ovunque essa si trovi.

Persino i sistemi bancari nazionali della UE sarebbero da tempo falliti se non fossero stati lautamente finanziati dagli istituti di credito centrali della stessa UE, i quali, attraverso i cosiddetti "Stati sociali", sfruttano imponenti masse di plusvalore a tutti i lavoratori (oppure si sarebbero dovuti indebitare con gli istituti finanziari mondiali, gestiti sostanzialmente dagli americani, che hanno sempre visto con molta preoccupazione la nascita, per loro concorrenziale, di un'Europa così imponente per numero di abitanti e ricchezza economica). Il capitalismo occidentale si regge in piedi grazie al rapporto iniquo tra Nord e Sud (cui oggi va aggiunto quello tra Est e Ovest), grazie alle enormi tasse imposte a chi non riesce a evaderle o eluderle, grazie a una politica scriteriata del debito pubblico, e grazie soprattutto al fatto che la gran parte dei salari e degli stipendi garantiscono soltanto la mera sopravvivenza.

Tutto ciò per dire che il conflitto tra capitale e lavoro è vivo più che mai, e se anche vi sono dei momenti in cui il lavoro non sembra lottare a sufficienza contro gli abusi del capitale, ciò non vuol dire che i problemi siano stati risolti o che si siano attenuati, né che essi non siano destinati a ripresentarsi in forme e modi ancora più acuti di prima. Essere "disincantati" di fronte a queste cose, osservandole con occhi rassegnati, è da irresponsabili, soprattutto quando si dice di voler tornare al Marx "genuino", quello incontaminato dalle interpretazioni riduttive che sono state date al suo pensiero.

Gli Stati Uniti non hanno affatto "superato" la connotazione "borghese" della loro cultura facendo diventare "borghesi" anche i proletari, ma hanno potuto illudere i proletari che sarebbero potuti facilmente diventare borghesi, in quanto il loro continente, del nord e del sud, è enorme, a loro completa disposizione, tanto che arricchirsi o no dipende soltanto dalla propria capacità affaristica.

Il prezzo che i coloni europei hanno fatto pagare alle popolazioni indigene del continente americano è stato enorme (gli Usa sono stati fondati sul genocidio di 10 milioni di nativi: solo tra il 1940 e il 1980, il 40% di tutte le donne nelle riserve indiane sono state sterilizzate dal governo contro la loro volontà).

Molti coloni, in effetti, si sono arricchiti, e anche in misura incredibile. Tuttavia, nell'arco di pochi secoli si riuscirono a conquistare tutti i territori disponibili, sfruttandone la gran parte delle ingenti risorse. Oggi praticamente molti monopolisti americani vivono di rendita, pagando tasse ridicole. E chi vuole farsi strada in questa "cultura monopolistica" deve dimostrare di possedere conoscenze e abilità eccezionali in settori molto specifici (p. es. quelli info-telematici).

Le conseguenze di questa cultura individualistica sono state disastrose. Oltre 40 milioni di statunitensi non hanno l'assistenza sanitaria, in quanto non sono in grado di pagarsi la relativa assicurazione privata e 125 al giorno muoiono solo per questo motivo (peraltro gli Usa sono l'unico paese dell'Ocse a non riconoscere alcun sussidio alla donne in maternità). La scuola pubblica è di livello molto basso e qualunque istituto superiore privato è molto costoso: tutti gli studenti hanno debiti astronomici, che richiedono in media 15 anni per essere saldati (tra il 1999 e il 2014 il loro debito totale ha raggiunto 1,5 trilioni di dollari, con un aumento vertiginoso del 500%). Che l'istruzione delle scuole pubbliche sia bassa è dovuta anche al fatto che il 22% dei bambini americani vive sotto il limite della povertà: sono proprio loro che hanno i peggiori risultati scolastici, accettano i peggiori impieghi, non frequentano l'università (in quelle pubbliche il prezzo medio di una laurea è di circa 80.000 dollari) e hanno la maggiore probabilità d'essere incarcerati, quando diventeranno adulti.

La violenza in America è di livello molto alto, tant'è che si contano nove armi da fuoco su dieci abitanti (nel resto del pianeta c'è un'arma ogni dieci persone). Negli Usa si trova il 5% di tutta l'umanità e il 30% di tutte le armi! Anche questo, ovviamente, contribuisce ad avere la maggiore popolazione carceraria del mondo: circa il 25% del totale. Secondo un rapporto del loro Dipartimento di Giustizia del 2006, oltre 7,2 milioni di persone erano in quel momento in prigione o sotto varie forme di custodia, ossia circa un americano su 32, ridotto peraltro quasi in schiavitù, in quanto per i lavori che svolge prende un salario inferiore ai 50 centesimi l'ora. È una manodopera così competitiva che molti municipi oggi sopravvivono finanziariamente con le loro stesse prigioni. E di questa popolazione carceraria i neri sono il 40%, pur costituendo essi solo il 13% dell'intera popolazione.

È d'altra parte del tutto naturale che in tale situazione la pena capitale (prevista in 37 Stati su 50 e dal governo federale) venga considerata, ingenuamente, come uno strumento di giustizia. A livello mondiale gli Stati Uniti sono secondi solo alla Cina nel numero di condanne a morte inflitte ogni anno, e fino a poco tempo fa erano uno dei pochi paesi che permettevano la pena capitale per reati commessi da minorenni: una pratica che la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale.

Quello è un paese dove chi non ha un reddito elevato di almeno 50.000 dollari l'anno, non conta nulla, e quando vanno a votare lo sanno bene, poiché più della metà degli aventi diritto non si reca neppure alle urne, sapendo che, materialmente, non ne otterrà alcun vantaggio. Quindi vuol dire che ogni volta si elegge un presidente del paese più potente del mondo soltanto con un quarto dei voti potenziali.

Gli Usa sono ancora un paese sessista, razzista e sciovinista e soprattutto anti-ambientalista (si pensi solo all'uso scriteriato degli OGM, ma anche a quello di armi che qualunque convenzione internazionale proibirebbe): pretendono di dominare il mondo intero, controllando persino le telefonate dei maggiori statisti mondiali, inclusi quelli alleati. È solo da pochi anni che si sono accorti che stanno vivendo molto al di sopra delle loro possibilità, ma preferiscono non pensarci troppo, perché per secoli sono stati educati a credere che il progresso e le risorse sarebbero stati illimitati e che per ogni problema la scienza e la tecnica avrebbero trovato la soluzione adeguata. Hanno costruito, soprattutto attraverso la cinematografia, la pubblicità e l'invincibilità delle forze armate l'impero dei sogni e delle grandi illusioni. Si sentono l'unico paese al mondo autorizzato a "esportare" la democrazia, l'unico titolato a possedere basi militari in territori altrui. E, ciononostante, sono il paese più indebitato del mondo, i cui titoli di Stato hanno avuto la fortuna di trovare nella Cina il loro maggiore acquirente. Questo poi senza considerare che hanno anche il privilegio d'essere l'unico paese al mondo che può utilizzare massicciamente l'emissione di titoli sul mercato internazionale per alimentare il debito interno. La struttura del debito americano è quasi del tutto fuori controllo (il debito delle famiglie è pari al prodotto interno lordo!) e questo spiega la loro crescente aggressività in molte aree del pianeta.

Questo non è un paese in grado di reggere per molto tempo alle crisi economiche, se non appunto facendone pagare le conseguenze a qualche altro paese. Una nazione priva di "Stato sociale", privo di ammortizzatori sociali che non siano ricavati da raccolte private di fondi, ovvero dalla "carità dei ricchi", come può reagire quando le crisi diventano esplosive? L'unico strumento che ha a disposizione è quello che fino ad oggi ha sempre usato: scatenare dei conflitti nel mondo. Non a caso dal 1890 al 2014 gli Usa hanno invaso e bombardato almeno 150 paesi: solo nel secolo scorso hanno causato più di otto milioni di morti. Hanno il bilancio militare superiore a quello di qualsiasi paese del mondo sin dalla seconda guerra mondiale. Qualunque occasione può essere usata come pretesto: l'arroganza di qualche dittatore, il fondamentalismo di qualche setta religiosa, la pretesa nazionalizzazione di qualche risorsa energetica, la richiesta d'aiuto militare da parte di alcuni territori che vogliono liberarsi dall'influenza dei paesi confinanti, la minaccia di una rivoluzione socialista...

A fronte di tutto ciò davvero possiamo dire, con le parole di Preve, che "il tempo del nazionalismo sciovinistico, razzistico e imperialistico è finito" (p. 279)? Solo perché "pienamente incorporato nella schiera di proconsoli e di mercenari dell'impero americano" (ib.)? Noi non lo crediamo. Noi non vogliamo credere né che gli alleati degli Stati Uniti abbiano definitivamente rinunciato all'idea di una loro sovranità politica ed economica effettiva; né che il Terzo mondo non abbia in sé la forza di reagire al rapporto neocoloniale che lo lega agli Usa e ai loro alleati; né che all'interno degli Usa non vi siano forze sociali e intellettuali, sufficientemente disilluse, che non sappiano far uscire il loro paese dalla barbarie.

Note

1 Bisogna naturalmente distinguere tra schiavismo e capitalismo, poiché nell'uno esiste la proprietà della persona, nell'altro no. Lo schiavista, in genere, era un grande proprietario terriero, che andava a comprare schiavi per far svolgere loro dei lavori agricoli gratuiti. Lo schiavo veniva mantenuto, ma non pagato dal padrone per il lavoro che prestava, e non fruiva di alcuna libertà personale. Questi lavori erano finalizzati alla vendita di prodotti sul mercato e quindi all'accumulo di capitali, che però, più che altro, servivano per aumentare i latifondi, mandando in rovina i piccoli agricoltori, per pagare gli addetti alla difesa personale e al controllo dei lavoratori e per far condurre una vita agiata a tutto il parentado dello schiavista, nonché ai suoi amici e cortigiani. Questo sistema economico è stato riprodotto dai capitalisti europei nelle colonie afro-americane, dove la schiavitù è stata abolita nella seconda metà dell'Ottocento. Ora, perché lo schiavismo non si è trasformato in capitalismo, visto che vi erano tutti i presupposti per farlo? Vi erano tutti i presupposti meno uno, quello più importante: la libertà personale. Non ci può essere capitalismo senza questa libertà, ma questa libertà non ci può essere senza il concetto di "persona", e questo concetto è stato introdotto dal cristianesimo. Ma allora perché si forma il capitalismo se vi è il concetto positivo di "persona"? Si forma perché ad un certo punto si scopre che questo concetto è del tutto astratto, cioè esiste una netta discrepanza tra la sua formulazione teorica (idealistica) e la sua realizzazione pratica (materialistica). È in mezzo a questa ambiguità di fondo che s'insinua la concezione borghese della vita, che è cristiana solo in apparenza. La borghesia è un ritorno all'epoca romana con in mezzo il cristianesimo. Con essa, se si vuole sfruttare il lavoratore come uno schiavo, emerge l'esigenza di garantirgli una libertà formale, dopodiché, tra questa libertà meramente giuridica e la schiavitù salariale vera e propria, è necessario porre qualcosa che permetta lo sfruttamento perpetuo del lavoratore. Non basta infatti la proprietà della terra: ci vuole anche la macchina, cioè quella cosa che sotto lo schiavismo veniva ritenuta inutile ai fini produttivi, proprio perché gli schiavi, una volta acquistati, dovevano lavorare il più possibile e non essere sostituiti da una macchina. L'innovazione tecnologica era vista con sospetto proprio perché esisteva la schiavitù. Viceversa, nelle colonie europee, quando si comprese che con un rapporto salariale, da un lato, e l'introduzione della macchina, dall'altro, si sarebbe potuto ottenere di più, il passaggio dallo schiavismo al capitalismo fu abbastanza veloce, anche se più nel Nordamerica che non nel Sudamerica. Ma perché il capitalismo si è sviluppato anzitutto nell'Europa occidentale e non anche nell'impero bizantino, che pur, nel Medioevo, era molto più ricco? La ragione è molto semplice: il capitalismo si sviluppa più facilmente là dove la discrepanza tra valori ideali e realizzazioni pratiche è più forte. Nell'Europa dell'est (ivi incluso l'impero bizantino) non si è formato il capitalismo (se non in tempi recenti) proprio perché il servaggio, basato sull'autoconsumo, rifletteva un tipo di cristianesimo meno contraddittorio, meno ipocrita. Nell'Europa occidentale le prime tracce di mentalità borghese dobbiamo farle risalire intorno al Mille, con l'esperienza comunale italiana. E non a caso. Infatti l'Italia era il paese in cui la presenza di un papato altamente corrotto favoriva in maniera eccezionale la possibilità di realizzare una transizione dall'autoconsumo al mercato, dal servaggio alla schiavitù salariata, dal baratto alla moneta, ecc.

2 In realtà è sbagliato considerare Engels meno geniale di Marx. Quanto meno aveva un maggior senso dell'organicità e dell'ordine (basta vedere con quanta cura pubblicò gli ultimi due volumi del Capitale, quanti suggerimenti diede per la stesura del primo, senza considerare che fu soprattutto lui a gestire l'Internazionale); e aveva anche maggiore capacità a tenere uniti tra loro aspetti teorici molto diversi, da quelli storici a quelli naturalistici, da quelli economici a quelli culturali.

3 Cfr G. La Grassa - C. Preve, La fine di una teoria, ed. Unicopli, Milano 1996.

4 Testo trovato in kelebekler.com/occ/lagrassa.htm che fa riferimento alla rivista "Rosso XXI", n. 21/2005.

5 Esistite nell'Europa dell'est almeno sino alla seconda metà dell'Ottocento. Basta leggersi le opere di P. H. Stahl pubblicate dalla Jaca Book.

6 Solo con molta superficialità si può affermare che le teorie di Krusciov sul culto della personalità sono state "ridicole" (p. 229). È quanto meno cinico sostenere che quelle "teorie" furono formulate soltanto per riconfermare l'egemonia della classe intellettuale. Mao si servì dei contadini e dell'esercito per imporre il culto della propria personalità e, in virtù di questo culto, sterminò buona parte della sua popolazione. Un intellettuale dovrebbe quindi vedere con simpatia "qualunque teoria" avversa al culto della personalità. Quanto meno si eviterebbe, ciò facendo, di attribuire a fattori ambientali, cioè indipendenti dalla volontà umana, la nascita di dittatori del genere.

7 Da notare che Preve, quando parla di "pre-capitalismo" non intende la cultura medievale o tribale o preistorica, ma proprio quella borghese, che, secondo lui, oggi non esiste più, in quanto non esiste più la classe sociale specifica che la rappresentava. Oggi siamo tutti borghesi, proprio perché il capitalismo ha incorporato ogni differenza di classe. Questo però vuol dire che Preve è nostalgico di quel periodo storico in cui dominava la piccola-borghesia, quella dei Comuni medievali italiani, che assomigliavano alle città-stato del mondo greco. E, così facendo, non si rende conto che il capitalismo odierno è figlio legittimo di quella borghesia e della sua cultura, seppur quella odierna, per emanciparsi da quella di religione cattolica di un millennio fa, ha dovuto superare ostacoli di non poco conto. Questo suo modo di considerare la borghesia ricorda, molto da vicino, quello di Proudhon e, in Italia, quello di vari economisti cattolici (da Toniolo a Fanfani).

Fonti

Vedi anche Il Gesł "comunista" di Costanzo Preve

Questo testo e quello su "Gesł comunista" sono acquistabili anche su Lulu


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015