- Limiti del pensiero sociologico spenceriano (a) Assenza di studi economici nel "materialismo scientifico" di
Spencer
Abbiamo già osservato come la teoria evoluzionistica spenceriana
fosse sostanzialmente una teoria materialista, nonché, almeno
in qualche modo, dialettica (quantomeno nel senso 'evolutivo' del
termine). In ciò, e non a torto, essa può apparire ed è
apparsa affine a quella più classica del materialismo marxista.
Un dato che dimostra tuttavia la profonda diversità di queste
impostazioni, è la mancanza nella visione spenceriana di veri e
propri studi di carattere economico.
E' pur vero che una tale mancanza fosse compensata - ciò che vale,
del resto, anche per la filosofia comtiana - dall'estensione del suo campo
di ricerca a tutti gli aspetti (fisici, chimici, biologici, ecc.)
della realtà.
Ma resta pur vero che Spencer (al pari, di nuovo, dell'altro grande fondatore
della scuola di pensiero positivista) mostrasse sempre un certo disinteresse
verso l'approfondimento delle problematiche di natura più peculiarmente
economica, e tutto ciò - paradossalmente - a dispetto del ruolo
largamente positivo da lui attribuito alle attività commerciali
e capitalistiche nello sviluppo della società.
Spencer vedeva infatti, in queste ultime, un fattore di affermazione
dell'individuo e della sua libertà, in contrapposizione alla struttura
rigida e costrittiva delle società ancora militari.
E fu forse proprio a causa di tali 'pregiudizi positivi', che egli non
tentò mai di analizzare i meccanismi più profondi e le più
intime contraddizioni di un tale tipo di organizzazione.
Anche a ciò, come vedremo, si dovette la sua incapacità
di comprendere i motivi più profondi della trasformazione in senso
imperialistico sia dell'Inghilterra sia - più in generale - della
compagine degli stati europei. Un tale tipo di trasformazione difatti,
non fu da lui vista come l'esito naturale dello sviluppo della
società 'industriale', bensì piuttosto come una deviazione
di quest'ultima dal proprio corso naturale, avendo essa secondo lui una
natura pacifica (in quanto basata sulle attività di scambio
anziché su quelle militari) e anti-statalista (contraria cioè
all'assunzione di poteri forti da parte dello Stato).
Resta tuttavia, innegabile, il fatto che le sue vedute in campo economico
- pur, come si è visto, alquanto imprecise - fossero sostanzialmente
affini a quelle della scuola economica "borghese" (per usare una tipica
denominazione marxista), essendo sostanzialmente coerenti con la visione
di quei teorici (ex. Smith e Ricardo…) che consideravano quella capitalista
come l'unica - o in ogni caso, come la più evoluta - tra
le possibili forme di organizzazione a livello economico.
In tal senso, la visione economica spenceriana della società, fu
in sostanza espressione - pur non entrando, come si è già
detto, del tutto in sintonia con gli ultimi sviluppi di essa - dell'ideologia
capitalistica borghese.
(b) Spencer e il suo tempo: limiti di comprensione
Al tempo di Spencer, lo stato borghese iniziava a intraprendere un tipo
di sviluppo decisamente contrario a quell'idea privatistica e libertaria
di stato che Spencer stesso - e, peraltro, non lui soltanto! - aveva propugnato
attraverso i suoi scritti. Scrive a tale proposito un celebre sociologo
americano, Lewis Coser: "Solamente pochi avvertirono che, proprio in quegli
anni in cui la libera iniziativa godeva del massimo splendore, lo stato
moderno cominciava ad accumulare poteri che i signori dell'età
vittoriana avrebbero trovato scandalosi". (Lewis Coser, "Maestri del
pensiero sociologico", il Mulino, pag. 173).
E se le teorie spenceriane in favore di uno "stato leggero" e non
invasivo nei confronti delle libertà dei privati cittadini erano
- già negli anni centrali della sua vita - oramai piuttosto sorpassate,
lo sarebbero diventate ancor di più in quelli successivi alla sua
morte.
Lo sviluppo commerciale degli stati europei continentali infatti, stava
minando sempre più chiaramente la supremazia commerciale inglese,
ciò che costringeva l'Inghilterra a 'ripiegare' su uno sviluppo
di tipo coloniale (e ciò, in quanto le colonie erano una sicura
fonte sia di materie prime a basso costo, sia di nuovi mercati)
e, in modo complementare, su misure di carattere protezionistico.
Due accorgimenti che, ovviamente, finivano per legare sempre più
strettamente tra loro le problematiche politiche (e i poteri militari)
con le ragioni dello sviluppo economico, secondo una direzione diametralmente
opposta a quella indicata dallo stesso Spencer, il quale considerava
l'economia borghese - fondata cioè sulla produzione e sul
libero scambio dei prodotti - come foriera di uno sviluppo
pacifico, nonché di una fondamentale libertà dei cittadini
nei confronti del potere centrale dello stato.
Erano insomma in atto due fenomeni:
a) da una parte - come si è appena visto - quello della statizzazione
dell'economia e della società, scaturente non solo da ragioni
di carattere economico, ma anche da una maggior complessità
della società stessa, che portava quest'ultima a esigere sempre
maggiori restrizioni e sempre maggiori controlli al livello delle proprie
attività interne (un fattore quest'ultimo che, seppure costituiva
l'esito inevitabile dell'incalzante complessità a livello
sociale, non per questo era stato previsto da Spencer);
b) dall'altra, vi era la formazione di poteri economici di carattere monopolistico.
Una tendenza quest'ultima (secondo Marx, peraltro, connaturata
all'evoluzione stessa dell'economia capitalistica, i cui capitali finirebbero
nelle mani di un sempre più ristretto numero di persone) sulla
quale Spencer non si espresse mai in modo critico e negativo, considerandola
come l'esito inevitabile e largamente positivo della crescente
integrazione delle attività umane, sempre più articolate
e diversificate, e richiedenti quindi un'organizzazione sempre più
piramidale e socializzata, con la conseguente riduzione dell'anarchia
e dell'arbitrio individuali. (Si noti, a un tale proposito, la differenza
che sussiste - nella visione spenceriana - tra l'invasività
dello stato, che limita con la sua azione il libero sviluppo dell'economia,
e la realtà delle grandi associazioni produttive e commerciali,
che di un tale sviluppo sarebbero invece un esito naturale!)
Nel giudizio positivo espresso da Spencer in merito alle nascenti realtà
monopolistiche, possiamo scorgere uno dei motivi reazionari della
sua visione politica (per altri versi invece, ampiamente innovatrice),
come anche un elemento di affinità con la sociologia comtiana.
A sua volta difatti, anche il sociologo francese - seppure per ragioni
molto diverse - vedeva nei monopoli un elemento essenziale della
futura società positiva, identificandoli con le stesse basi
produttive di essa (e ciò secondo la tripartizione della
società tra i sociologi (i 'sacerdoti' della società
positiva), gli industriali (i 'manager', ovvero gli organizzatori
delle attività produttive) e gli operai (la classe lavoratrice)).
Spencer insomma, fu un tipico esponente della corrente positivista: come
tale fu essenzialmente incurante delle problematiche più peculiarmente
economiche, e convinto assertore - al pari di Comte - della capacità
della società capitalista borghese di 'risolvere' (attraverso,
nel suo caso, l'eliminazione degli elementi socialmente più 'deboli')
quei vasti problemi di povertà, di sovrappopolamento, ecc. da cui
essa era - ed è - naturalmente afflitta.
(c) Il dibattito tra Spencer e Mill sullo Stato
In merito al tema della libertà degli individui nei confronti del
potere statale, è da segnalare il dibattito che si sviluppò
tra lo stesso Spencer e un altro grande esponente del pensiero liberale
e della scuola degli economisti 'classici', John Stuart Mill.
Quest'ultimo infatti, pur sottolineando la validità dei
meccanismi auto-regolativi del mercato e della libera concorrenza a livello
commerciale, auspicava anche in particolari frangenti l'intervento dello
stato contro gli eccessi di sperequazione della ricchezza e contro (ed
emerge qui, molto chiaramente, la differenza d'impostazione rispetto
a Spencer) la formazione a livello economico di poteri di carattere monopolistico!
Al contrario, Spencer ribatteva che tali limitazioni sarebbero state l'espressione
dell'invasività dello stato nei confronti del libero sviluppo
e dell'evoluzione selettiva (secondo lui orientata, senza alcun dubbio,
verso il miglioramento dell'uomo e delle sue condizioni di vita)
dell'economia e della società industriale.
A difesa di una tale convinzione inoltre, egli sosteneva che la difesa
dei ceti più deboli equivalesse anche a quella degli elementi socialmente
più improduttivi, e che come tale essa si scontrasse con
la reale utilità sociale!
Dunque, se i monopoli erano per Spencer l'espressione del naturale corso
evolutivo della società nel suo stadio industriale, corso orientato
verso una sempre maggiore complessità ed efficienza strutturale
(ma anche - notiamo noi -, almeno in questo caso, verso una riduzione
della libertà individuale!), la selezione degli elementi più
deboli (quelli cioè incapaci di trovare una propria collocazione
all'interno del sistema produttivo) era una necessità improrogabile,
al fine di migliorare la specie umana, consentendole così un futuro
più brillante e felice.
In termini marxisti quindi, se Mill si dimostrava un "riformista borghese"
(fiducioso, come tale, nelle capacità correttive del sistema produttivo
capitalista, attraverso l'instaurazione di opportune misure legali,
attuate per mezzo di un potere quale quello dello stato, superiore
agli interessi privati), Spencer mostrava al contrario di essere un economista
borghese 'puro' (fiducioso cioè nell'intrinseca capacità
auto-correttiva dell'economia di mercato, senza bisogno di azioni
- politiche e giuridiche - a essa estrinseche).
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