DALLA PARTE DI CAINO. Il Catechismo Universale e la pena di morte

DALLA PARTE DI CAINO

Il Catechismo Universale e la pena di morte

Si è fatto un gran discutere, in ambienti pacifisti e non-violenti, come ad es. Amnesty International, circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare -come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)- la pena di morte, seppure "in casi di estrema gravità".

Le motivazioni (ideologiche s'intende) sono -a nostro parere- di natura sia religiosa che politica.

Vediamo le prime. Al paragrafo 2259 dicono gli autori del CCC: "La Scrittura, nel racconto dell'uccisione di Abele da parte del fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza nell'uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale". (Il riferimento al cosiddetto "peccato originale", ogniqualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.)

Al paragrafo successivo gli autori ricordano che "l'alleanza [veterotestamentaria] di Dio e dell'umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e alla violenza omicida dell'uomo"(2260). Dei due "richiami", quello che più preme sottolineare agli autori non è il primo -come sarebbe naturale per una istituzione (la chiesa) che predica la legge dell'amore-, bensì il secondo. E di questo l'aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e semplice "divieto di non uccidere", quanto piuttosto il divieto di uccidere "l'innocente e il giusto"(2261): peccato, questo, "gravemente contrario alla dignità dell'essere umano".

Ora, proviamo a chiederci: per quale ragione la chiesa cattolica ritiene che "l'uccisione volontaria di un innocente è gravemente contraria alla dignità dell'essere umano"(2261)? Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l'essere umano in quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo violento?

La chiesa romana -qui autorevolmente rappresentata da un Catechismo "universale" -non è in grado di trarre le logiche conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi invece interessa mettere in luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente malvagia, allora anche Abele era "colpevole", ma se egli era "colpevole", il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. (Qui naturalmente non è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a delle considerazioni astratte).

Quel che è certo è che nel racconto biblico la "dignità dell'essere umano" dipendeva da altro rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il divieto del quinto comandamento. Non solo, ma egli venne "marchiato" proprio per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse vendetta contro di lui (se a quel tempo avessero dato per scontata l'intrinseca malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra soluzione che l'esecuzione capitale).

Sicché si può tranquillamente affermare, con A. Schenker p.es., che ai tempi di Caino era la dignità dell'uomo ad essere considerata intrinseca all'uomo stesso. Il peccato originale, cioè la violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita dell'individualismo, non determinò affatto l'impossibilità di opporvisi. Ancora non esistevano né l'idea dell'espiazione né il principio della retribuzione come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a testimoniare che, nonostante l'emergere dell'individualismo, i princìpi democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.

Viceversa, il divieto mosaico fa la sua comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta: segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui l'esigenza d'imporre al colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su quello giuridico, cioè su quello formale della legge.

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Ora, prima di rispondere adeguatamente alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere l'analisi del CCC, che si sposta dall'A.T. al Nuovo, esaminando la figura-chiave di Gesù Cristo.

Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe che un "nuovo Abele" che porge l'altra guancia, ama i propri nemici, non si difende da chi lo accusa ingiustamente ecc. (2262). Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61) al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si vuole far apparire il Cristo come un "perfezionatore" del divieto mosaico. Pur di dimostrare che l'uomo è intrinsecamente malvagio, Cristo -secondo il CCC- avrebbe non solo vietato l'ira, l'odio e la vendetta, oltre che naturalmente l'omicidio, ma si sarebbe anche offerto volontariamente come "agnello sacrificale" per i peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima della sua stessa "legge dell'amore assoluto", che gli impediva di trasformarsi in "giustiziere dei malvagi".

Come si può notare, questa interpretazione della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli rappresentano, per i quali il "divieto di uccidere" è una contraddizione in termini finché non si pongono le basi sociali che tolgano al delitto le sue motivazioni di fondo.

In effetti, se nel mentre si pone il divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto; e, viceversa, se si ha quella preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.

A parte questo, la chiesa romana non ha mai neppure capito il motivo per cui il Cristo si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve invece aver atteso (invano purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile. Imporre il proprio progetto democratico con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo significato realizzare un'alternativa alla logica del potere dominante (romano o ebraico che fosse).

Ora finalmente possiamo rispondere alla suddetta domanda, se il lettore non l'ha già fatto per contro proprio. La chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di tipo "etico-religioso": essendo la natura dell'uomo intrinsecamente malvagia, la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo, viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente imperdonabile.

In altre parole, è intollerabile per la chiesa veder uccidere un "innocente", colui cioè che, meglio di altri, combatte contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo ancora troppo giovane d'età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o le tentazioni di quella colpa). "L'omicida e coloro che volontariamente cooperano all'uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo", specie nei casi di "infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione del coniuge"(2268). (Si deve però andare al paragrafo 1867 per accorgersi che fra i "peccati che gridano al cielo" non vi è solo l'omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche "il lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova e dell'orfano"; infine, "l'ingiustizia verso il salariato").

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Ma la cosa più singolare di tutta questa esegesi del CCC circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella seconda parte del capitolo (quella dedicata alla "legittima difesa") -e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica- la chiesa romana, servendosi delle sentenze dell'Aquinate, arriva a formulare cose del tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica, la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.

Sulla base della motivazione vista sopra, la chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte. Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione "religiosa", dev'essere sempre pronta al perdono.

Tuttavia, la trattazione religiosa dell'argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere "giudizi di valore" categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico "ha una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto"(2261), per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze; sia per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle persone disposte a crocifiggerlo. Come restare indifferenti al cospetto di un'ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi, non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.

Infatti, "l'amore verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. E' quindi legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita", "poiché -come dice Tommaso d'Aquino- un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui"(2264).

Curiosa questa citazione dell'illustre Dottore della chiesa. Egli ha senza dubbio ragione quando afferma che "se nel difendere la propria vita uno usa maggiore violenza del necessario, il suo atto è illecito". Ma che dire del fatto che la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente soggettivo? Da una chiesa che pretende di fare dell'ideale "divino" la sua raison d'être, sinceramente ci si aspettava qualcosa di più sublime.

In effetti, se la legittima difesa è il modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti, nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un "bene comune", cioè un valore, un ideale, un "diritto", se si vuole, o comunque una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che, liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à tout prix, hanno preferito l'idea del sacrificio personale a quella della legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico (umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini meramente giuridici?

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Quando poi ci si addentra sul piano più propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome dell'interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l'affermazione secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di chi "è responsabile della vita altrui"(2265).

Come spesso succede le parole che si usano non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla realtà, il più possibile "scientifici": cioè esiste sempre la possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro la propria volontà, o comunque esiste sempre la possibilità che qualcuno non ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima difesa per tutelare l'incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se noi dicessimo: le autorità costituite, nell'adempiere al dovere di difendere i cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo forse delle perplessità?

La frase incriminata dalle associazioni pacifiste è stata la seguente: "la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso: "da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte"(2266).

Si noti il sofisma dell'espressione "pene proporzionate": forse il popolo può impedire, nella concezione politica della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e considerato che per la chiesa lo Stato è soggetto non alla "volontà popolare" ma solo alle "leggi"(1903), che devono essere conformi a "un ordine prestabilito da Dio"(1901)? Se la "volontà popolare" fosse il principio fondamentale dello "Stato di diritto", la pena di morte potrebbe forse essere considerata una "pena proporzionata" a un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E' forse questo l'insegnamento del Cristo nell'episodio della "donna adultera"(Gv. 8,1ss.)?

Il fatto è che -secondo gli autori del CCC- la società (e quindi la chiesa) deve comunque difendersi da chi la minaccia con l'uso della forza. Su questo il CCC è molto esplicito: "i detentori dell'autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità civile..."(2266).

La chiesa non vuole prospettare neanche sul piano ipotetico l'idea che gli aggressori si comportino così proprio perché si appellano al principio della "legittima difesa", e che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità costituite. "La pena ha lo scopo di difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone"(2266) - sentenzia il CCC. Non ha quindi senso chiedersi se tale difesa sia "sempre" lecita o se non sia meglio mettere in discussione il valore del cosiddetto "ordine pubblico".

Thomas More, martire della libertà di coscienza, santificato dalla chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia: gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro "allevano dei ladri per poi punirli con la morte". F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: "se la società toglie a migliaia di individui il necessario per l'esistenza...; se mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni finché non sopraggiunga la morte... questo è assassinio... contro il quale nessuno può difendersi... perché non si vede l'assassino, perché questo assassino sono tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale, e perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione".

Naturalmente gli esegeti più ipocriti sostengono che la chiesa si limita a "riconoscere" agli Stati l'uso estremo della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è falso, sia perché la chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale forma di condanna solo nel 1969, sia perché la necessità di tale pena si evince -come si è visto- dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il Vaticano assai raramente si è pronunciato contro gli Stati che comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile riscontrarle in chiese locali o nazionali, come ad es. nella commissione per la vita della Conferenza episcopale cattolica degli USA).

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In realtà, a queste conclusioni, assai poco democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di alcun riferimento storico o sociale concreto.

"La pena -dice il CCC- ha valore di espiazione"(2266), in quanto il "colpevole" è solo "colpevole". Il riferimento qui va soprattutto al caso dell'omicidio volontario, per il quale non esistono attenuanti. Solo quando il si parla di quello involontario (come se, sul piano etico, si possa fare una distinzione così precisa!), gli autori del CCC fanno un'annotazione complementare usando i "caratteri piccoli": "Tollerare -viene detto-, da parte della società umana, condizioni di miseria che portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa ingiustizia e una colpa grave"(2269). La chiesa qui intende riferirsi a coloro che usano "pratiche usuraie e mercantili". Costoro, indirettamente (solo indirettamente? in una società capitalistica?) "commettono un omicidio".

Il CCC insomma non si preoccupa di "capire" il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce istintivamente facendosi giustizia da sé; non si preoccupa minimamente di giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti; si preoccupa soltanto di trovare dei "colpevoli", siano essi volontari o involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali dominanti di una determinata società.

Ormai, come ognuno si sarà certamente accorto, le parole non hanno più alcun significato. La chiesa è disposta ad affermare tutto e il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che fanno parte dell'ideologia laica e democratica. Il problema non sta più nella scelta delle parole, ma solo nell'atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti della chiesa. E l'atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto esponente della curia vaticana l'ha contestato, può essere considerato quello delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha reintrodotto, nonostante l'opposizione della Conferenza episcopale filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.

p.s. Nella Evangelium vitae (1995, tre anni dopo la pubblicazione del CCC), Wojtyla ha ammesso che l'ergastolo  è una sanzione più moderata e rispettosa della vita rispetto alla pena capitale.

LA PIGRIZIA INTELLETTUALE
TEORIA DELLA RESPONSABILITA' SOCIALE

In un paese dove vige la pena di morte che senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una contraddizione in termini?

Se anche dal punto di vista tecnico, materiale, non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?

Come si può pensare che un individuo sano di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?

Se una persona fosse assolutamente libera di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la libertà?

Nessuno vive così isolato dagli altri da poter dire con sicurezza: "Ho scelto liberamente, senza condizionamenti di sorta". Chi vivesse isolato dal mondo probabilmente non si porrebbe neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che l'isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.

Viviamo in una società in cui i condizionamenti sono reciproci: dunque per quale motivo quando si tratta di giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?

Gli uomini vivono assieme come tanti individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta, involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin dalla sua nascita). Nella vita reale non si è capaci di assumere reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.

Eppure l'isolamento che si vive in società è anch'esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società ma proprio perché si è isolati nella società.

Il crimine è sempre frutto di un condizionamento sociale: ecco perché indirettamente si è tutti colpevoli. Il crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del vivere civile.

Insomma la teoria del ragionevole dubbio dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società nei confronti dell'imputato che ha commesso un reato.

Anche la teoria della presunzione d'innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi sostenere il contrario, e cioè che in un modo o nell'altro siamo tutti colpevoli e che quando si tratta di giudicare qualcuno anzitutto bisognerebbe chiedersi che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.

Bisognerebbe partire da premesse di colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l'imputato un individuo isolato, un estraniato.

Questo ovviamente non significa che il reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza; significa semplicemente che nei confronti del reato bisogna assumere un atteggiamento pedagogico.

Il reato è un indizio di malessere sociale. Dall'analisi dei sintomi bisogna saper trovare una terapia per vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.

Dobbiamo abituarci a considerare i condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento su cui la libertà va costruita. Siamo liberi appunto perché condizionati. Il nostro compito è quello di rendere positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.

Wojtyla-Ratzinger