UOMO E DONNA
Psicologia dell'umana convivenza


Androcrazia: infamia e imbecillità

di Carlo Tamagnone

U.A.A.R Rivista L’ATEO n° 4/2006

Il rapporto tra le femmine e maschi nelle società tecnologicamente evolute è oggetto di barzellette e gags di vario genere, prevalentemente tendenti ad evidenziare il comico dominio, tra le mura domestiche, di qualche matronale virago su un povero maritino debole, vessato e frustrato. La comicità emerge proprio dall’inversione dei ruoli sociali della tradizione maschilista, ma ciò è da noi possibile perché il patriarcato è ormai indebolito e la parità tra i sessi, almeno giuridicamente, raggiunta. Non così dove esso (e parliamo del 90% dei consorzi umani) è del tutto operante, al punto che tale ironia non è neppure pensabile. Al di là del riconoscimento di differenti ruoli biologici e sociali, il patriarcato, o più propriamente l’”androcrazia”, è il risultato di una visione distorta della realtà, basata su concezioni antropologiche e teologiche che vedono il maschio in posizione dominante.

L’androcrazia si connota così come un retaggio culturale che non riconosce soltanto all’uomo la patria potestà e la difesa della dimora in caso di necessità, ma anche superiorità assiologica sulla donna, che “vale meno” ed è relegata nel ruolo di fattrice (avendo goduto della fecondazione del maschio), di educatrice dei figli (godendo del privilegio-onore concessogli dal marito) e di custode della casa (godendo della fiducia del padrone di essa).

Il potere maschile nel diritto arcaico è “non condivisibile” con la femmina, imposto de iure ed erga omnes, e tutt’al più delegabile dalla benevolenza del patriarca, che può, a suo insindacabile giudizio, “cedere” parte del potere alla femmina. Il paradosso che ne nasce è che la donna viene considerata “inferiore”, mentre il suo ruolo, da tutti i punti di vista, è superiore a quello del maschio, ad esclusone di quello in cui sia richiesta maggiore forza fisica (che non coincide con la resistenza fisica). Il dominio del maschio è nato in contesti militarizzati e in situazioni di belligeranza, quando differenti gruppi umani hanno cominciato a venire in conflitto. In tali situazioni il ruolo del maschio risultava valorizzato ed esaltato, facendo di esso il protagonista eroico di un’emergenza vitale per la comunità, dove erano richieste doti decisionali di forza e di violenza meno presenti nelle donne. La violenza diventava quindi una sorta di “categoria” assiologica eminente attribuita all’uomo; l’adeguazione alla violenza e la capacità di produrla, tipiche del maschio, sono diventate così “doti” esaltate e tradotte in seguito in miti guerrieri. Miti in seguito testimoniati in narrazioni tramandate oralmente e spesso trasferite in opere letterarie prodotte dai maschi, poiché, come si sa, nei contesti culturali arcaici e in quelli teocratici l’istruzione è considerata inadatta o disdicevole alla femmina.

Ma è anche l’ipostatizzazione di un nemico onnipresente dietro ogni angolo che assiomatizza la violenza e produce il mito della “difesa della patria”, con la quale il maschio viene investito di un ruolo precluso alla donna e la cui cogenza si perpetua attraverso la militarizzazione dei giovani maschi e l’addestramento alla guerra. Nascono così quelle “virtù guerriere” dove coraggio, eroismo, e abnegazione sarebbero prerogative esclusive del maschio, il che è falso. Esse sono infatti virtù presenti in misura non certo inferiore nella femmina, la quale, anzi, molto spesso, le possiede in maggior grado del maschio e le esercita in situazioni e contesti (come la difesa dei figli) assai più nobili, naturali e plausibili di quelle della razzia, della conquista e del conseguimento del potere sui propri simili: tutte prerogative della mascolinità. Da situazioni di emergenza, quindi, surrettiziamente istituzionalizzate e miticamente perpetuate è nato quel nobile “mestiere delle armi” che ha caratterizzato fino a tempi recenti anche le culture più evolute. Ci sono voluti i massacri e i genocidi della prima e della seconda guerra mondiale per mandare in soffitta la cultura della “gloria militare”, ma essa sussiste ancora, in forma volgarizzata ed elementare nel guappismo da strada e nel teppismo da stadio.

Naturalmente non negheremo la naturale androcrazia nella struttura sociale dei mammiferi superiori, dove il capo-branco è sempre maschio, ma ciò avviene perché la biosfera è teatro di conflitto continuo per la sopravvivenza e per il dominio di un territorio vitale, dove quindi la prestanza fisica e il coraggio più che l’intelligenza, la giustizia e l’etica, sono garanzia di successo. Parrebbe allora che la conflittualità possa essere all’origine dell’androcrazia ancor prima dell’origine teologica, che potrebbe configurarsi come la ratifica a posteriori di una dominanza di fatto del maschio (1).

Le considerazioni sopra esposte richiedono però un approfondimento di carattere etologico, poiché, se è vero che nel gruppo degli altri mammiferi superiori domina il maschio, tale dominio è in un certo senso “pilotato” dalle femmine. Il maschio infatti può coprire la femmina soltanto se questa è “pronta” e glielo consente, e sa bene che se si azzardasse a violentarla contro la sua volontà metterebbe a repentaglio la propria incolumità. Nel maschio umano è invece retaggio antico la convinzione di potere violentare la femmina e appropriarsene, non essendo possibile il contrario.

Non sarà fuori luogo ricordare che in termini biologico-zoologici nei rettili, negli uccelli e nei mammiferi la femmina sia non soltanto più piccola, ma anche meno dotata di elementi superflui di carattere seduttivo. Questi sono prerogativa del maschio, poiché è attraverso essi che egli si propone ad una partner, essendo essa “che sceglie” il maschio e non viceversa. Il che avviene spesso anche nei consorzi umani, per quanto qui l’androcrazia abbia istituito una codifica “artificiale” in base alla quale è la femmina che deve rendersi appetibile. Essa viene così “istituzionalmente” costretta a curare il proprio corpo e il proprio abbigliamento non già in quanto libera opzione (possedendo essa un elevato senso estetico ciò le è congeniale) ma in quanto ritagliato per un oggetto di appetito che può essere superficiale e fatuo rispetto a un maschio razionale e concreto.

Nella realtà la donna non soltanto è biologicamente più importante e fisicamente più dotata, ma lo è molto spesso anche intellettualmente, in quanto più concreta nei suoi progetti e non meno efficiente e capace sul piano professionale. Una realtà che emerge in maniera evidente proprio nei contesti più ottusamente androcratici del terzo mondo, dove la donna fa praticamente “quasi tutto” a parte la guerra: fa i figli e li cresce, lavora nei campi, tiene la casa e l’orto, amministra le risorse (laddove il maschio passa il proprio tempo in cose perlopiù futili e inessenziali, come il gioco e la conversazione).

I contesti socio-culturali in cui la donna è l’elemento portante della società (essendo per contro considerata “inferiore”) costituiscono la maggior parte delle società del pianeta, e ciò avviene per un perverso abbraccio tra ideologia androcratica e ideologia religiosa, dove spesso l’una alimenta l’altra e questa ratifica quella. Nei contesti definiti comunemente “terzo mondo”, in larga parte del “secondo” e in numerose nicchie sociali del “primo” l’androcrazia domina e imperversa, compie i suoi disastri socio-culturali e miete le sue vittime. Essendo il problema è culturale ed avendo carattere ubiquitario è sotto il profilo storico-antropologico che va affrontato, per cercare di cogliere il momento pregresso in cui l’androcrazia è nata. È probabile che il suo instaurarsi si sia verificato col passaggio dalla caccia-pesca-raccolta alla pastorizia, all’agricoltura e all’allevamento, generando da un lato la necessità della difesa delle greggi e delle derrate alimentari e dall’altro la possibilità della loro predazione manu militari.

Vi è quindi un momento storico in cui il cui il maschio assume il controllo delle comunità umane in maniera pressoché assoluta, coincidendo ciò, probabilmente, con l’abbandono del culto della Dea-Madre (quale espressione dell’”accoglienza” della terra e del suo offrire risorse) a favore di quello di un Dio-Padre celeste che attraverso i suoi favori o le sue punizioni meteoriche (fulmine, uragani, siccità, ecc.) può mettere a repentaglio i raccolti e il bestiame. Una divinità maschile che non essendo più sotto i piedi dell’uomo com’era la Madre-Terra si colloca sulle cime o nel cielo e va blandito con culti e riti di propiziazione o addirittura con la violenza di rituali sanguinari.

Il passaggio dal culto della Dea Madre a quello del Dio-Padre non è avvenuto immediatamente ed il politeismo ha costituito di tale passaggio una fase intermedia assai lunga, ma la tendenza si esprime già nel dio-capo di altri dèi, qual è, ad esempio, lo Zeus greco. D’altra parte, anche dove prevale l’impersonale dio-necessità panteistico (come nel mondo indiano) il purusha primitivo vedico è maschio, come lo sono Brama, Krishna, Shiva e Vishnu. Il culmine del maschilismo è tuttavia Jahvè, il quale, ovviamente, non può che creare prima l’uomo-maschio, Adamo, a sua immagine, e “da lui” Eva. È molto interessante il fatto che Eva venga ricavata da Adamo quale suo “accessorio”, a ratificare che ella ontogeneticamente lo seguirebbe. Il fatto è che è vero tutto il contrario, poiché la femmina dell’homo sapiens nasce (in quanto si definisce biologicamente) circa 80.000 anni prima del suo maschio. Il cromosoma Y, che qualifica il maschio umano attuale (e si trasmette di padre in figlio) è infatti comparso solo 59.000 anni fa, mentre il dna mitocondriale (proprio della femmina attuale) era già comparso 143.000 anni fa (2).

Ciò ci autorizza a concludere che l’elemento biologico caratterizzante la femminilità sia nato molto prima di quello della mascolinità e che quindi Adamo deriva da Eva. La femmina homo sapiens ha continuato, quindi, ad accoppiarsi con maschi meno evoluti fino a generare il “suo” maschio definitivo. Ma la priorità del femminile è molto più profonda, poiché prima dell’avvento della meiosi la biosfera è stata per miliardi di anni dominata dalla mitosi, quando esistevano unicamente cellule-madri che si dividevano in cellule-figlie, destinate, a loro volta, a generare altre figlie. Biologicamente il maschio è perciò null’altro che un’assai tarda differenziazione di una fase intermedia di passaggio dalla mitosi a una meiosi basata sull’ermafroditismo femminile.

Solo un netto miglioramento dei livelli di sviluppo civile e culturale può determinare la messa in mora dell’androcrazia, che non è soltanto crimine sociale, ma probabilmente all’origine della maggior parte delle ideologie perverse. Non saremo lontani dal vero se vedremo l’eroismo guerresco e l’intolleranza verso il “nemico”, con tutto il suo corredo di idiozie e di miti maschilisti, quale causa primaria di intolleranze razziali ed etniche foriere della più parte delle sciagure umane lontane e recenti. È persino difficile immaginare gli stati di guerra lontani e recenti se fossero le femmine al potere; la femmina è infatti troppo legata alla natura e alla realtà per cedere alle perverse fantasie ideologiche che fioriscono in menti maschili ipercreative e deviate, che sono poi le stesse che si sono inventate dèi e spiriti, angeli e demoni, ecc.

Ma non mancano nemmeno gli aspetti imbecilli dell’androcrazia, come quelli relativi all’”onore maritale”, per cui in certi contesti arcaici il marito è costretto dal costume tribale ad uccidere la donna infedele, quantunque, continuando ad amarla, sarebbe dispostissimo a perdonarla. Nel migliore dei casi la donna viene ripudiata e in qualche caso sfregiata, come avviene in certe nicchie culturali dell’India contemporanea, allorché la donna si sia permessa di rifiutare il maschio assegnatole. Così come in alcune zone dell’Africa viene negato alla donna il piacere clitorideo (dovendo essa rimanere puro oggetto sessuale al servizio dl maschio) e si pratica la resezione anatomica infibulatoria per mutilarla.

Solo il progresso della scienza (che non significa solo tecnologia), della cultura in generale, della libertà civile e l’instaurazione di una solida, potranno mettere fine all’androcrazia. Io credo, ragionevolmente, che non si debba soltanto auspicare un maggior potere alle donne per un migliore bilanciamento del governo dei popoli, ma addirittura la loro prevalenza. Sono sicuro, quantomeno, che un capo-donna sarebbe assai meno incline a ricorrere alla violenza delle armi per risolvere i contrasti internazionali, religiosi o tribali, così come non riesco ad immaginare donne nei panni di Mussolini, di Hitler, di Stalin, di Pol Pot e di tanti altri squallidi personaggi che con i loro deliri ideologici hanno provocato terribili disastri umani. Tanto più che disastri di quel genere (anche se più localizzati) si verificano continuamente nel terzo mondo ad opera di capi tribali che incarnano l’androcrazia più radicale e profonda, quella che fa le pulizie etniche e schiavizza le bambine-soldato, che di giorno vengono fatte combattere allo sbaraglio quale “carne da pallottola” e di notte vengono stuprate quale “carne da piacere”.

Note

(1) Si tenga comunque presente che nel mondo degli insetti il rapporto è spesso rovesciato, e a dominare, anche in termini di massa fisica e forza, è la femmina.

(2) È il risultato di una ricerca condotta alla Stanford University a fine anni ’90 da Peter Oefner e Peter Underhill (si veda la rivista Quark, marzo 2001, pp.94-97).

Testi di Carlo Tamagnone


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Uomo-Donna
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 14/12/2018