UOMO E DONNA
Psicologia dell'umana convivenza


EUTANASIA, SEDAZIONE PALLIATIVA, DIRETTIVE ANTICIPATE

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Relazione di Mario Riccio alla conferenza stampa dell’ass. Luca Coscioni – 18.3.2014

Come ha dimostrato nel 2007 uno studio dell’Istituto Mario Negri, più del 90% dei pazienti che viene ricoverato in una rianimazione italiana non è già più in grado di intendere e volere (non competent nella accezione inglese) al momento dello ingresso.

Anche se è opinione comune che i pazienti delle rianimazioni siano quasi esclusivamente acuti (intesi come traumatismi maggiori, patologie cardiache o cerebrovascolari), spesso i pazienti che vengono ricoverati in rianimazione sono invece portatori già da lungo tempo di patologie croniche degenerative neurologiche, cardiorespiratorie o metaboliche.

Il ricovero in un reparto di rianimazione è pertanto spesso dovuto al peggioramento di una malattia -a volte più malattie concomitanti - di cui il paziente è affetto da anni e la cui evoluzione degenerativa dovrebbe essere conosciuta dal paziente stesso.

Il condizionale in questo caso è d’obbligo e la questione – cioè l’effettiva conoscenza della malattia e della sua evoluzione da parte del malato – non è certo secondaria.

Infatti, se correttamente informato, il malato potrebbe innanzitutto decidere – o meglio, aver precedentemente deciso e già messo per iscritto - a quali ulteriori terapie intenda sottoporsi e quali invece vuole rifiutare, oltre che aver nominato un suo decisore sostitutivo che garantirà l’effettiva adesione alle volontà del soggetto.

Da ciò deriva che un paziente, la cui patologia cronica degenerativa comunque porterà ad una grave insufficienza d’organo tale da essergli proposto un ricovero in aria critica, potrebbe aver già deciso di non essere ricoverato in tale ambiente.

Ad esempio, in caso di una patologia degenerativa respiratoria, è inevitabile che si giunga all’indicazione clinica di una ventilazione meccanica invasiva, cioè al collegamento ad un ventilatore.

La cronaca degli ultimi anni ci ha presentato vicende di soggetti che - pur uniti da malattie sostanzialmente simili, cioè cronico-degenerative che portano inevitabilmente alla insufficienza respiratoria e pertanto alla indicazione clinica alla ventilazione meccanica - hanno assunto decisioni diverse al termine della vita: Luca Coscioni, Papa Wojtyla, Piergiorgio Welby ed in ultimo, in ordine temporale, il cardinale Martini.

Luca Coscioni scelse di non andare neanche in ospedale durante l’ennesima crisi respiratoria e morì a casa propria, senza alcuna assistenza sanitaria.

Papa Wojtyla accettò inizialmente alcuni trattamenti come la tracheotomia ed il sondino naso gastrico, rifiutando però infine la ventilazione meccanica e la nutrizione artificiale. Tale legittima decisione lo portò a morte in pochi giorni.

Piergiorgio Welby – come noto - accettò per 10 anni il ventilatore meccanico, che infine decise di rifiutare.

Il Cardinale Martini ha invece atteso serenamente di perdere anche la minima attività respiratoria, facendosi solamente sedare – come già da lui deciso e come riportato dalle cronache – poco prima di morire.

Il problema si pone invece per quei pazienti che – privi di una volontà precedentemente espressa -vengono ricoverati in rianimazione senza essere più in grado di intendere e volere, non competent. Questi sono più del 70 %. Infatti neanche il 20 % ,di quel 90 % che entra in aria critica non competent, aveva precedentemente espresso le proprie volontà rispetto ai trattamenti sanitari in maniera valida e certificabile o aveva nominato un decisore sostitutivo .

Va sottolineato che anche in paesi che riconoscono le direttive anticipate o living will, come ad esempio gli Stati Uniti, l'adesione dei cittadini a questo strumento giuridico non supera il 20%.

Il problema del rifiuto dei trattamenti non è ovviamente limitato alla ventilazione meccanica o alla terapia nutrizionale per via enterale, come si potrebbe dedurre dalle vicende Welby (ventilazione meccanica) o Englaro (nutrizione artificiale). Infatti in rianimazione ogni trattamento può essere correttamente definito una forma di sostegno vitale. La ventilazione a mezzo di una macchina,così come la dialisi in sostituzione della funzione renale, i farmaci che sostengono l’attività cardiaca,gli antibiotici per combattere gravi infezioni, le continue trasfusioni di sangue e tante altre ancora sono tutte terapie ordinarie e necessarie in rianimazione per sostenere un paziente critico. L’interruzione o anche la sola riduzione – ed ovviamente ancor di più il non inizio - di uno dei precedenti trattamenti porta a morte il paziente, alcuni immediatamente, altri in un tempo più lungo, ma comunque limitato a pochi giorni.

Sempre nello stesso studio già citato dell’Istituto Mario Negri del 2007, effettivamente ormai datato ma purtroppo non più riproposto con dati aggiornati come sarebbe auspicabile, è riportato che in Italia poco più del 60% dei decessi in terapia intensiva è dovuto alla decisione clinica di ridurre, interrompere o non iniziare del tutto una delle precedenti terapie. L’insieme di questi comportamenti è definito desistenza terapeutica.

Per capire la portata del problema, confrontiamoci con alcuni numeri, sempre contenuti nel lavoro del Mario Negri. In Italia vi sono circa 150.000 pazienti ricoverati annualmente in reparti di cure intensive. Di questi, un quinto muoiono, cioè 30.000 pazienti. Circa 18.000 pazienti muoiono annualmente nelle sole terapie intensive per una decisione di desistenza terapeutica, cioè quel già citato 60 %. Queste decisioni vengono adottate dai sanitari talvolta in assoluta solitudine, spesso assieme ai familiari con i quali si tenta di ricostruire la volontà del paziente. Operazione comunque complessa e delicata. Anche perché i familiari del paziente, a differenza di quanto si creda o venga presentato, non sempre risultano essere fra loro concordi ed univoci nelle posizioni. Inoltre tendono spesso ad anteporre le loro personali convinzioni, invece che impegnarsi a ricostruire la presunta volontà del loro congiunto. Il tutto – particolare non secondario – senza un reale titolo giuridico. In proposito è necessario fare alcune osservazioni.

Abbiamo già detto che una ridotta percentuale di pazienti in terapia intensiva rimane competent e pertanto capaci nelle loro scelte anche di sospendere, ridurre o non iniziare una terapia, determinando così la propria morte. Come nel caso Welby, che pur non essendo ricoverato in una rianimazione, era pur sempre collegato a casa propria ad un ventilatore meccanico, come avviene comunemente per migliaia di altri pazienti in Italia.

Ci sono invece pazienti non più competent che presentano situazioni cliniche la cui gravità li porterà inevitabilmente a morte in un tempo assai breve, nonostante le terapie a cui sono sottoposti: giorni o settimane. Ci sono cioè degli indici clinici predittivi chiari che permettono di prevedere l’esito infausto. In questo caso è più facile decidere insieme ai familiari la sospensione di ogni terapia ed assistere ad una accelerazione dell’ormai irreversibile percorso verso una morte comunque inevitabile.

Vi sono infine pazienti, ancorché incapaci di intendere e volere e con la prospettiva di gravi ed ulteriori disabilità, che possono invece ancora giovarsi di alcuni trattamenti sanitari. Trattamenti che pur non migliorandone la condizione, permettono loro almeno di stabilizzarla, come nel caso Englaro.

In pratica questi pazienti possono beneficiare di una evoluzione che da una iniziale instabile fase acuta può giungere ad una duratura fase cronica. Ma anche in questi casi talvolta, su indicazione dei familiari e/o persone a loro vicine che si fanno carico di rappresentare e testimoniare in tal senso la volontà del loro congiunto od amico, si decide di sospendere, ridurre o non iniziare quelle terapie, osservando in breve tempo la morte del paziente. Questo sempre al fine di rispettare la riferita volontà del paziente stesso.

E’ da chiarire che questi pazienti non soffrono della propria condizione né emotivamente né fisicamente, come nel caso Englaro. Ovviamente non ci troviamo né giuridicamente, né eticamente di fronte a casi di eutanasia. Ma sicuramente entriamo in una zona grigia dal punto di vista giuridico oltre che soggetta a possibili differenti valutazioni etiche.

Prendiamo come esempio sempre il caso Englaro. Tutti ricordiamo che i genitori di Eluana avevano fin da subito sostenuto che la volontà della loro sfortunata figlia fosse quella di non voler ricevere alcuna terapia se si fosse trovata nella condizione, lo stato vegetativo, in cui effettivamente la sorte l’aveva condannata. Ma sono stati invece necessari al padre Beppino 17 lunghi anni per farsi prima nominare tutore e successivamente per dimostrare in quella veste di rappresentare la reale volontà della figlia.

Nei reparti di terapia intensiva si percorre spesso lo stesso cammino, ma in un tempo di pochi giorni e con parenti che non hanno effettivamente un reale titolo giuridico.

Se non possiamo certo parlare di eutanasia, non possiamo però nascondere che si tratta, in assenza di un chiaro quadro normativo, di una condizione definibile di clandestinità.

La situazione è talmente delicata che molti operatori sanitari preferiscono non affrontarla, non parlarne, qualora addirittura non fingano neanche di comprenderla. Limitandosi spesso soltanto a tentare di smentire una simile ricostruzione.

Certamente questo atteggiamento da parte della classe medica non favorisce la chiarezza su una tematica delicata che al contrario meriterebbe ben altra disponibilità. Ma chiunque abbia avuto un parente in quelle condizioni può essere sincero e fedele testimone della situazione.

Senza voler poi entrare ulteriormente nel merito giuridico, non avendone la competenza, risulta però evidente che come i parenti non hanno un immediato ed automatico reale titolo giuridico di decisore sostitutivo del paziente da presentare ai sanitari, questi ultimi non sarebbero neanche autorizzati ad assumere quei comportamenti - gli atti di desistenza terapeutica - che possano cagionare la morte del paziente. Al contrario, nella loro cosidetta posizione di garanzia dovrebbero appunto garantire ogni attività terapeutica atta a preservare il bene vita del paziente, in assenza di una esplicita e certificata volontà contraria dello stesso. E certamente non potrebbero addirittura sospendere trattamenti sanitari finalizzati al mantenimento del bene vita, sempre in assenza di una esplicita volontà del paziente.

Daltronde anche la famigerata proposta di legge Calabrò, inerente la materia del fine vita, impediva al medico di rispettare la volontà del soggetto anche se scritta e testimoniata, obbligandolo di fatto a porre in atto ogni trattamento sanitario che potesse mantenerlo in vita anche qualora questo fosse frontalmente in contrasto con le disposizioni scritte del paziente.

Ed è in questo ambito che invece sarebbe auspicabile se non necessario un intervento del legislatore per dotare anche il nostro Paese del moderno strumento giuridico del testamento di vita o direttive anticipate di trattamento.

Ma sempre in proposito ai limiti del ruolo del medico, pur in presenza della volontà del paziente, è interessante ricordare quanto scrisse il giudice dell’udienza preliminare nel luglio del 2007 nel prosciogliere dall’imputazione di omicidio del consenziente il medico, ossia il sottoscritto, che aveva staccato il respiratore a Piergiorgio Welby. Quel giudice infatti mi proscioglie non riconoscendo che il fatto non sussista, come richiesto dalla difesa e dalla stessa Procura, ma decidendo che il fatto cioè la morte di Welby non costituiva reato per l’esimente del dovere d’ufficio (art. 51 codice penale ) che era in capo al medico nei confronti del paziente. Scrive infatti quel giudice con molta chiarezza : “certamente la condotta posta in essere dall’imputato integra l’elemento materiale del reato di omicidio del consenziente…. (e che del reato, ndr ) sussiste anche l’elemento psicologico…”. Che ci potesse essere un dovere di ufficio del medico in una condizione assolutamente privatistica - Welby era nella propria abitazione e si era rivolto in forma privata al sottoscritto - è stato posto in dubbio da eminenti giuristi.

Ma l’aspetto che risulta evidente anche ad un modesto cultore della materia del biodiritto è che quel giudice riconosce – non di fatto, ma di diritto - la morte di Welby come conseguenza diretta del distacco del ventilatore, nonostante i periti della Procura fossero stati altrettanto chiari nelle conclusioni della loro relazione tecnica, scrivendo: …quindi, ad entrambe le sostanze (da me usate per la sedazione di Welby, ndr) non è possibile attribuire loro un qualsivoglia ruolo causale o concausale di rilevanza penale nel determinismo del decesso del Sig. Welby... in conclusione è possibile affermare che l’irreversibile insufficienza respiratoria che ha condotto al decesso il Sig. Welby Piergiorgio sia da attribuire unicamente alla sua impossibilità di ventilare meccanicamente in maniera spontanea a causa della gravissima distrofia muscolare da cui lo stesso era affetto. Riconoscendo così che la morte del paziente era da attribuire alla sua patologia e non al distacco del ventilatore, azione questa che rispondeva alla sola richiesta di Welby – soggetto oltretutto capace di intendere e voler fino all’ultimo giorno della sua vita a differenza dei degenti delle rianimazioni di cui sopra - di veder riconosciuto il suo diritto costituzionale, come peraltro più volte ricordato anche dal GUP nella stessa ordinanza di proscioglimento, di rifiutare una terapia.

Né in queste situazioni è possibile per il sanitario appellarsi ad un concetto di morte naturale, intesa come assolutamente estranea all'azione del medico, per giustificare le proprie decisioni, semplicemente perché la stessa non esiste. Infatti l’evoluzione di una patologia sia cronica che acuta, anche se non guaribile, può sempre essere modificata, rallentata, combattuta dalla moderna medicina, ovviamente se il paziente lo desidera. Tutti noi moriamo con una diagnosi, una prognosi e una terapia, almeno nel mondo occidentale.

Ed ancor più inutile sarebbe, in questo scenario, cercare di stabilire un concetto condiviso di accanimento terapeutico. Semplicemente perché – datasi la sua assoluta soggettività – non è oggettivabile. Ed infatti tale termine non è usato nel dibattito bioetico, giuridico e politico di nessun altro paese occidentale.

Accanimento terapeutico è un ossimoro che vanterebbe la pretesa di definire un limite in medicina – valido per tutti - oltre il quale non si dovrebbe andare. Invece ognuno può stabilire il proprio personale limite. Vivere collegati ad un ventilatore polmonare o dipendenti dalla dialisi, così come sostenuti dalla terapia nutrizionale o dipendenti da periodiche terapie o addirittura in condizioni di incoscienza, è una scelta che ormai la moderna medicina ci offre ordinariamente.

Esiste invece il concetto anglosassone di futility. Un trattamento è futile/inutile quando non può produrre alcun risultato clinico. Un classico esempio è quello di ventilare meccanicamente un paziente con un esteso tumore polmonare. L’ossigeno immesso nelle vie aeree non trova più alcun tessuto polmonare per poter entrare nel sistema circolatorio.

Pochi giorni prima che Welby morisse, l’allora ministro della salute on. Turco chiese al Consiglio Superiore di Sanità (CSS) se il caso poteva definirsi una forma di accanimento terapeutico. Il CSS elaborò in tempi assai brevi un documento che fu reso pubblico il giorno precedente alla morte di Piergiorgio Welby. In quel documento – a riprova di quanto appena sostenuto – viene riconosciuta l’inaffidabilità del concetto stesso di accanimento terapeutico. Conclude infatti il C.S.S.: riteniamo opportuno che si provveda in tempi rapidi all’emanazione di specifiche linee guida di riferimento per ricondurre l’accanimento terapeutico ad una sfera di principi e valori condivisi… Ovviamente – pur trascorsi tanti anni- nessuno si è ancora cimentato in quella missione tanto impossibile quanto inutile. Pertanto il CSS riconosceva semplicemente che la condizione di Welby non poteva certamente considerarsi di futilità clinica. Era infatti di immediata comprensione – anche ad un profano - che si trattava dell’unica terapia che garantisse l’ossigenazione, e quindi la sopravvivenza, del paziente. Non sarebbe stato neanche necessario scomodare il CSS per giungere a quelle ovvie conclusioni. Il problema non risiedeva infatti nella evidente corretta indicazione clinica del trattamento sanitario in atto, quanto nella liceità di un trattamento non più voluto dal paziente.

Il termine eutanasia passiva è una sorta di cavallo di Troia con lo scopo di scardinare il primo principio della bioetica, nonché già diritto costituzionale: l’autodeterminazione del paziente.

Il mio diritto all’autodeterminazione nel rifiutare ogni forma di terapia non può avere una lettura doppia o peggio ambigua. Ovviamente questo ragionamento vale soprattutto quando l’avente diritto - pur competent - sia impossibilitato materialmente a sospendere la propria terapia, come nel caso Welby. Ed è ancor più evidente nel caso che il soggetto non sia più competent, come nel caso Englaro. La differenza tra eutanasia ed interruzione delle cure dovrebbe essere stata chiarita in tutti gli aspetti.

Ben comprendo però che nell’attuale clima politico e culturale del nostro paese, è assai difficile parlare di un tema così delicato come l’eutanasia.

Ma a differenza di quanto si possa pensare e di quanto alcuni ambienti politico-culturali vogliano farci credere, l’eutanasia – nei pochi paesi ove è stata introdotta - non rappresenta una facile scorciatoia per eliminare il paziente con tutte le sue problematiche, comprese quelle economiche. Se ci riferiamo – ad esempio - all’Olanda dobbiamo innanzitutto considerare che si tratta di un paese con una profonda ed antica attenzione al paziente terminale. Dotato da decenni di centri per il trattamento del dolore, con una fitta rete di assistenza domiciliare tra le più avanzate al mondo. Un paese con un rapporto pil/percentuale di spesa sanitaria tra i maggiori al mondo. Non ci troviamo pertanto in una realtà sanitaria che ha voluto eliminare un paziente per incapacità assistenziale o problemi economici, come ci potremo aspettare in una realtà del terzo mondo. Ma abbiamo assistito ad un lungo dibattito culturale, politico e legislativo che ha portato ad una legge di regolamentazione della eutanasia. Preso atto che esiste una percentuale che rappresenta il 4-5% dei pazienti terminali che, nonostante le migliori cure palliative, sono destinati a vivere gli ultimi mesi di vita in condizioni drammatiche di sofferenza fisica e psicologica: quella che viene definito di dolore totale. Per questi pazienti, e solo per loro, è stata introdotta quindi la possibilità di accedere - attraverso un percorso strettamente definito - all’atto eutanasico.

Si tratta della somministrazione - da parte di un terzo - ad un soggetto che ne ha fatto esplicita richiesta di una o più sostanze atte a interrompere rapidamente, direttamente e definitivamente l’attività cardiaca e/o respiratoria. Avendo come conseguenza diretta ed immediata la morte del richiedente, ovviamente previa sedazione. E’ da sottolineare che nei pochi paesi che ne hanno legalizzato la pratica, questa richiesta è riservata unicamente a soggetti competent. Cioè che al momento della richiesta – e per tutto il tempo dell’iter burocratico necessario, circa 6 mesi – siano in grado di intendere e volere. In pratica la richiesta di eutanasia non può essere contenuta in una Direttiva Anticipata di Trattamento (DAT).

Il caso Englaro – ed ancor più il caso Welby – non possono essere indicati come casi di eutanasia, come invece lo sono stati da una certa parte dell’opinione pubblica del nostro paese. Infine è da sottolineare come assai difficile che atti eutanasici possano avvenire in un ambiente ospedaliero, in particolare in reparti ad elevata assistenza tecnologica. Infatti si dovrebbe ipotizzare che una tale iniziativa – pur ascrivibile eticamente e giuridicamente al singolo operatore - trovi il consenso, o almeno la non opposizione, di fatto la complicità, delle molteplici figure professionali presenti contemporaneamente in quei reparti. Inoltre – sempre in quei reparti - i pazienti sono sottoposti a costante sorveglianza sia diretta del personale che strumentale, quest’ultima attraverso apparecchiature particolarmente sofisticate e dotate di memorie informatiche. In pratica sarebbe necessario il concorso di molteplici soggetti che dovrebbero provvedere peraltro a modificare o cancellare numerosi rilievi parametrici. Inoltre sempre in quegli ambienti ospedalieri altamente specialistici, come abbiamo appena dimostrato, non risulta neanche necessario somministrare alcun preparato farmacologico al paziente, cioè attuare un protocollo eutanasico, per condurlo a morte. Ma è sufficiente sospendere, ridurre o non aver iniziato una delle tante terapie a cui sono sottoposti.

Per concludere l’argomento eutanasia vorrei proporre uno spunto di riflessione. Oggi – come noto - a molti pazienti, alla fine della loro storia clinica viene proposta una sedazione un tempo definita terminale oggi palliativa, per non generare una confusione che potrebbe lasciar intendere che la causa di morte possa essere la sedazione stessa e non la loro malattia. Pazienti terminali oncologici ma non solo, negli ultimi giorni di vita, refrattari alla normale terapia palliativa, vengono definitivamente sedati – su loro espressa richiesta - per un accompagnamento dignitoso alla morte. Non riprenderanno più coscienza, vivranno in media 4-5 giorni, ovviamente non vengono più sottoposti ad alcuna ulteriore terapia, compresa quella nutrizionale. Se in questo arco temporale si somministrasse loro una sostanza atta ad interrompere l’attività cardiaca e/o respiratoria, che avrebbe ovviamente come conseguenza immediata la morte, tale gesto come dovrebbe o potrebbe essere definito? Giuridicamente non vi sono dubbi: omicidio volontario, eventualmente da valutare se di consenziente o meno. Ma eticamente, vi sarebbero sostanziali differenze con la sola sedazione terminale o palliativa? Di quel arco temporale di pochi giorni o ore, chi ne trae un qualche vantaggio? Non certo il paziente che non essendo più cosciente, non avrà più alcuna relazione con l’ambiente o le persone. Forse i parenti o i suoi cari che si illuderanno di averlo vicino ancora un poco. Ma sembrerebbe più un sentimento egoistico – inteso in senso affettivamente positivo - che un concreto interesse per il loro congiunto. Nel periodo finale della vita di un paziente si osserva infatti spesso un forte atteggiamento dei suoi cari a trattenerlo in vita il più a lungo possibile. E' difficile dire se questo prolungarsi della vita per alcune ore o giorni è privo di alcun contenuto di relazione concreta fra loro. Verosimilmente rappresenta più una sorta di guadagno temporale nel difficile processo di elaborazione della perdita della persona cara.

Spesso poi i parenti, quando gravati dal peso delle decisioni finali come precedentemente descritto, sembrano voler ritardare il più possibile la morte del loro congiunto. Quasi come se un lasso di tempo più lungo possibile fra la scelta di interrompere ogni terapia e la morte, possa ridurre la gravosità delle decisioni assunte. Inoltre è ovvio che l’oggettiva difficoltà in cui si trovano i parenti, li costringa a decisioni che potrebbero contrastare anche con la volontà del paziente stesso. Mi spiego meglio. Molto spesso i parenti, di fronte al fallimento delle terapie invasive in atto, confessano che il loro caro non avrebbe neanche voluto essere ricoverato e sottoposto a quei trattamenti. Riconoscendo che il paziente vi sarebbe giunto solo per una loro decisione, stante la sopravvenuta condizione di incompetence dell’interessato. Riconoscono inoltre che una sorta di egoismo ha impedito loro di essere i fedeli testimoni della reale volontà del congiunto.

La questione quindi si complica ed assume un aspetto quasi paradossale.

Risulta infatti alla fine meno complicato aver compiuto quello che di fatto è una violazione di un diritto costituzionalmente protetto, cioè l’autodeterminazione in materia sanitaria, che assumere un comportamento virtuoso nonché giuridicamente corretto, quale l’interruzione di una terapia non voluta. Cioè appunto il rispetto dello stesso diritto costituzionale.

Mario Riccio


Foto di Paolo Mulazzani

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Uomo-Donna
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Aggiornamento: 14/12/2018