UOMO E DONNA
Psicologia dell'umana convivenza


EUTANASIA E TESTAMENTO BIOLOGICO

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Nessuna discussione sul testamento biologico può prescindere da una discussione sull'eutanasia, proprio perché in entrambi i casi si chiede di evitare l'accanimento terapeutico e quindi in entrambi i casi chi è contrario parla di "omicidio" (così come ne parla quando c'è di mezzo l'aborto).

Ma, mentre sull'espressione "accanimento terapeutico" ci si può confrontare abbastanza serenamente, cercando di chiarirsi, tecnicamente, quando è lecito cominciare a parlarne e quando no, viceversa sulla parola "eutanasia" ("buona morte", alla lettera) - condizionati come siamo ancora dall'uso mistificatorio che ne fece il nazismo - le opinioni sembrano convergere verso un assunto abbastanza condiviso: legalizzare l'eutanasia è troppo rischioso, potrebbe portare a conseguenze eticamente imprevedibili.

Ciò su cui ci si scontra è la difficoltà di poter stabilire fin dove può arrivare la libera volontà in un individuo consapevole di essere affetto da una malattia molto dolorosa e/o incurabile (si pensi ai casi di Piergiorgio Welby o di Giovanni Nuvoli). Tanto più ci si chiede come sia possibile stabilire tale volontà in un soggetto giovane clinicamente morto ma tenuto in vita vegetativa da una strumentazione specifica, nell'ovvia speranza che possa risvegliarsi e concludere il suo ciclo vitale in maniera naturale.

Partiamo da quest'ultima ipotesi, che ha trovato in un caso molto famoso, quello di Eluana Englaro, materia sufficiente per scatenare durissime polemiche, al punto che il parlamento non è ancora riuscito a varare una legge sul testamento biologico (l'unico testo a disposizione è quello approvato dal Senato il 26 marzo 2009).

Intorno a questo caso i dibattiti si sono concentrati su due argomenti: uno tecnico (fino a che punto l'alimentazione forzata è un atto dovuto e non una terapia arbitraria?) e l'altro etico (ha senso parlare di violazione del diritto alla vita in un soggetto incapace non solo di intendere e volere, ma anche di percepire e sentire?).

Ad un certo punto ci si chiese se non fosse necessario che ogni persona maggiorenne stabilisse, preventivamente, per iscritto, le proprie ultime disposizioni in caso di improvvisa situazione comatosa, anche per sollevare il personale medico dagli inevitabili dubbi amletici.

Tuttavia anche in questo caso la domanda restava in tutta la sua pregnanza: davvero si viola la libertà di coscienza quando si cerca di tenere in vita una persona giovane che pur aveva preventivamente dichiarato di fare nulla in caso di situazioni disperate? E se quella persona si risvegliasse e fosse contenta di averlo fatto?

Ci può essere una soluzione convincente a questo problema? Fino a che punto il proprio diritto alla vita può diventare un dovere altrui senza violare la propria libertà di coscienza? Ci si può sostituire alla coscienza di un individuo caduto improvvisamente in coma, decidendo se farlo morire o se farlo vivere in una condizione vegetativa?

E se il soggetto, una volta risvegliatosi, non fosse affatto contento della nostra iniziativa terapica? Se si ritrovasse in una condizione di estrema difficoltà, in cui dovesse p.es. imparare di nuovo a parlare o a mangiare o a fare movimenti coordinati, sarebbe davvero contento di ricominciare da capo?

Qual è dunque il limite oltre il quale una legittima assistenza medica, volta a tutelare il diritto alla vita, può trasformarsi in un atto arbitrario che viola la libertà di coscienza? Il limite può essere deciso solo dal soggetto e il soggetto può stabilirlo solo se viene informato di tutte le possibili conseguenze della sua decisione. Quindi ciò presuppone ch'egli sia cosciente, poiché solo se è cosciente può arrivare a capire che anche un'esperienza di dolore può essere significativa.

Nessun diritto alla vita può diventare un obbligo a vivere, né può sostituirsi a una libera scelta di un'esperienza di dolore. Quindi se da un lato è giusto rendersi conto che anche la scelta di vivere un'esperienza dolorosa può essere un atto umano, dall'altro bisogna convincersi che un'esperienza del genere non può essere imposta.

Dunque in caso di coma, qual è il limite oltre il quale un eventuale risveglio non garantirebbe il ripristino delle precedenti funzioni vitali nelle condizioni in cui erano? Esiste un limite ragionevole di tempo? La scienza è in grado di stabilirlo? Se il rischio è quello che un eventuale risveglio non è assolutamente in grado di garantire il recupero integrale delle proprie facoltà (o almeno un loro recupero significativo, che non pregiudichi la dignità della vita), per quale ragione la scienza deve avere più potere della coscienza?

Per quale motivo deve essere la scienza a decidere quando uno in coscienza preferirebbe morire piuttosto che trovarsi in una condizione assolutamente diversa da quella che aveva quand'era sano? Questo potere della scienza non rischia di trasformarsi in un potere politico e amministrativo sul corpo di un paziente?


Foto di Paolo Mulazzani

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Uomo-Donna
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Aggiornamento: 14/12/2018