LA GRECIA TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Storia ed evoluzione della Grecia classica


L'ECONOMIA ANTICA

Alessandro Magno

M. I. FINLEY, The Ancient Economy, Berkeley and L.A., Un. of California Press, 1973 (“Sather Classical lectures”)

E’ un testo talmente ricco e interessante che, più che una recensione, ve ne propongo una sintesi.

Si tratta di una raccolta di sei conferenze.

La prima è intitolata a “Gli antichi e la loro economia”. Il concetto moderno di economia (come quello di famiglia) era sconosciuto agli antichi, che certo facevano più o meno tutte le cose che noi intendiamo come economia, ma non le riunivano in unità, in un “differenziato sistema sociale” (Parsons). Hume notò che nell’antichità nessuna città è nata per il sorgere di un’industria, Salin che le crisi dell’antichità sono sempre dovute a eventi eccezionali, mai ai cicli economici come li conosciamo oggi. Se per “sistema economico” si intende “un enorme conglomerato di mercati interdipendenti” (Roll), allora niente di simile esisteva in antico.

Non si tratta di un problema intellettuale, ma istituzionale; e i modelli moderni, applicati all’antichità, ci portano facilmente fuori strada. Ad es., in Grecia e a Roma salari e tassi d’interesse rimanevano stabili per lunghissimo tempo (salvo eventi esterni come guerre ecc.), sicché parlare di “mercato del lavoro” o “del denaro” è fuorviante. Persino in presenza di un florido settore di prestiti marittimi (che svolgevano anche le funzioni dell’assicurazione), un matematica attuariale non si sviluppò, e nemmeno una statistica, anche se la matematica degli antichi sarebbe stata perfettamente in grado di affrontare il problema: ma non lo fecero.

E poi c’è anche il problema dei dati, che sono quanto mai lacunosi, perché gli antichi non ragionavano in cifre. Eppure gli studiosi moderni continuano a ignorare questi aspetti.

Quanto al concetto di “antichità”, Finley lo restringe all’Europa greco-romana, escludendo il VOA (essenzialmente per la sua diversa struttura, templare-palaziale, ed il diverso regime dei terreni, pubblico anziché privato, e per la diversa natura delle terre, alluvionali anziché asciutte. E poi c’è il problema politico - eleutherìa e libertas non sono traducibili né nelle lingue dell’estremo oriente né in quelle del VOA). Tra l’altro, la riforma fiscale di Diocleziano fu complicatissima proprio perché teneva conto di situazioni giuridiche ed economiche diversissime nelle varie parti dell’impero.

Insomma, quando si parla di economia antica come se si trattasse di una “singola unità economica” si dice qualcosa di vago e indimostrabile fonti alla mano. Il commercio su vasta scala non escludeva l’esistenza di un’economia “domestica” di autosufficienza, e non esisteva una divisione del lavoro estremizzata, nel senso moderno. Finley ritiene comunque che si possa parlare di economia antica, perché negli ultimi secoli il mondo antico era un’unità (non economica, ma) politica, e perché c’era una struttura comune cultural-psicologica, la cui rilevanza economica Finley mette in luce in seguito.

La seconda conferenza è dedicata a “Ordini e Status”. Tra gli antichi, il giudizio su ricchezza e povertà era netto e privo di ambiguità: “Beati i poveri” viene da tutt’altra civiltà. Non che non esistessero la carità e la generosità (anche se la parola filantropia nel senso moderno non esisteva), ma la realtà si ritrova piuttosto nelle leggi sui debiti.

Un passaggio di Cicerone dal De Officiis (I, 150-151) espone con chiarezza il problema: alcune attività si addicono solo a uomini illiberali e indegni di approvazione: ad es., il commercio su piccola scala (mentre quello su larga scala, purché per l’importazione, andava bene). L’attività veramente liberale è quella agricola, quella del possidente terriero. Le distinzioni sono tre: ordine, status e classe. L’ordine implica differenze giuridiche (patrizi/plebei, i senatori, i cittadini, gli ordini di Solone), lo status (ad es., la nobilitas) no.

In Grecia, all’emergere della democrazia, il passaggio dall’ordine allo status fu ancora più netto. La proprietà terriera era solo dei cittadini, mentre il prestito era appannaggio degli stranieri: questo ovviamente comportava gravi inefficienze economiche, ma a nessuno venne mai in mente di rimediarvi.

Il concetto di “classe” (anche nel chiaro senso marxiano, di possesso o relazione con i mezzi di produzione) non è facile da applicare all’antichità: schiavi e liberi salariati da una parte, ricchi senatori o piccoli proprietari terrieri dall’altra, fanno forse parte della stessa classe? C’è poi il pasticcio degli equites, che molti credono esser stati dei capitalisti ante litteram: ma al 90% erano proprietari terrieri, mentre solo pochi erano pubblicani (concessionari di imposte, banchieri ecc.), e non erano affatto una classe a sé né rappresentativi di tutti gli equites. La realtà è che nell’antichità gli aspetti economici, politici e religiosi erano connessi in modo inestricabile (Lukàcs).

I tassi d’interesse furono spesso, e con successo, limitati dalla legge. I prestiti erano diffusissimi e necessari, anche per gli alti costi della politica (da cui anche lo stimolo a depredare le province). L’attività di faeneratores era illiberale in sé, ma come sottoprodotto della carriera politica andava benissimo. L’attività di avvocati e giureconsulti, analogamente, era gratuita e comportava obblighi di tipo non economico.

Infine, l’attività commerciale: l’unica compatibile con la liberalitas era l’industria dei mattoni (in quanto strettamente connessa alla proprietà terriera). Nell’antichità, esisteva il gentleman farmer, non il gentleman merchant. Perché? Per ragioni ideologiche. I Romani delle classi superiori avrebbero potuto svolgere attività economiche, ma non volevano perché il loro codice di valori non glielo permetteva. E quando si tratta dell’economia antica, bisogna che nei nostri modelli lasciamo spazio a queste questioni di status.

La terza tratta di “Padroni e Schiavi”. Non c’è niente, dice Finley, che abbia creato più confusioni fra gli studiosi moderni della schiavitù. La figura dello schiavo nell’antichità è diversificata: non esiste solo lo schiavo “bene mobile” (chattel), ma anche gli Iloti a Sparta, o l’istituto del peculium a Roma. Soprattutto è fuorviante la tripartizione schiavi/servi/liberi salariati. Il concetto di lavoro “libero” è complesso e tardo.

Tanto per cominciare, nell’età arcaica e poi nel tardo Impero (dopo il IV secolo d.C.) la schiavitù fu un fenomeno marginale, e in certe zone (come Egitto e Siria) lo fu sempre. Ma nel periodo classico, in Grecia e a Roma, fu centrale: ogni attività economica di una certa portata comprendeva schiavi, e certe attività (come le miniere o il lavoro domestico) erano riservate agli schiavi. I lavoratori liberi erano diffusi ovunque, ma di norma erano lavoratori autonomi (cfr. la distinzione romana tra locatio operis e locatio operarum). Insomma, Grecia e Roma erano società “schiavistiche” proprio come gli Stati del Sud USA (anche se la proporzione di proprietari di schiavi sull’intera popolazione era nell’antichità assai più elevata).

I salari restavano stabili a lungo, né esistevano programmi di sostegno al lavoro (in senso moderno). Non esisteva neppure un concetto di “lavoro” come funzione sociale universale, che abbracciasse tutti gli uomini; il concetto biblico del lavoro come maledizione del genere umano era sconosciuto.

C’è poi il problema dell’efficienza economica della schiavitù. Di solito la si nega, ma le prove non sono univoche. Di fatto, comunque, gli antichi (così come gli schiavisti USA) ci tenevano ai loro schiavi, a prescindere da considerazioni economiche, il che dovrebbe implicare che concetti come crescita economica, progresso tecnico, efficienza non sono “naturali”, non sono sempre stati conosciuti o ricercati.

Come si sa, la schiavitù non fu abolita,, ed era ancora diffusa, ma insomma è evidente che nel IV-V secolo d.C. aveva perso il suo ruolo chiave. Una spiegazione è che, con l’estensione dell’Impero, fossero venute meno le fonti d’approvvigionamento di schiavi. Ma secondo Finley non è vero (di fatto l’ampliamento dell’Impero era terminato già nel 14 d.C., mentre l’acquisto di schiavi continuò). La ragione, secondo Finley, è invece il mutamento della struttura sociale, che ritornava al periodo arcaico (anche grazie alla nascita dell’Impero burocratico e onnipotente), con la distinzione honestiores/humiliores che rimpiazzava quella liberi/schiavi. Di certo il Cristianesimo (che mai chiese l’abolizione della schiavitù) non influì. Influì invece il crescente peso fiscale: i piccoli contadini divennero coloni, non schiavi ma nemmeno liberi; la schiavitù declinò perché la manodopera era già disponibile a sufficienza sotto forma di coloni.

La quarta conferenza è su “Proprietari e contadini”. Per i greci e i romani in epoca repubblicana, la tassa sui terreni era il marchio della tirannide. Ciononostante, erano i cittadini (gli unici a possedere la terra) che contribuivano ai bisogni dello Stato. Nel tardo impero romano, invece,a contribuire erano solo le classi inferiori e la classe media (e proprio mediante tasse sulla terra).

Innanzitutto, le dimensioni della proprietà terriera variavano enormemente: da Erode Attico al proprietario di 6 acri; questi ultimi facevano un’agricoltura di mera sussistenza e con grande fatica; nei centri agrari, praticamente la moneta non c’era e si praticava il baratto. Soprattutto, nessuno mai parlò di idee come l’accrescimento della produzione e dello scambio e la circolazione dei capitali: come diceva Catone, “un pater familias deve vendere, non comperare”. Nessuno pensò mai ad economie di scala (e così quando Plinio il giovane vuole comperare un terreno sito accanto ai suoi, a tutto pensa – inclusa la bellezza della veduta - meno che alle economie di scala). Quello dell’ absentee landlord era un sistema economico tradizionalistico: anche l’affitto decennale era un istituto abbastanza sfavorevole ad ogni innovazione tecnologica e ad aumenti di produttività (dato che all’affittuario ovviamente mancava qualsiasi incentivo in tal senso). Insomma, nessuno ci pensò mai: non si varcò mai la soglia oltre cui la proprietà terriera si sarebbe trasformata in vera e propria impresa.

Le uniche forme di impiego del denaro ammesse per i ceti ricchi erano: terra, prestiti a breve con interesse e casseforti. Nessuno mai neppure sviluppò il concetto di ammortamento. Nemmeno esisteva un vero mercato immobiliare, tanto che non esistevano agenti immobiliari. Insomma, si comperavano terre non per ragioni economiche (benché gli immobili fossero un “buon investimento”), ma per ragioni ideologiche (la terra è “naturale” e il suo possesso è “morale”).

La quinta lezione è su “Città e campagna”. Gli antichi elogiavano la campagna e consideravano le città come il fondamento della civiltà. Ma, come notò Max Weber, le città antiche erano fondamentalmente centri di consumo, parassitiche, e si basavano (anche per le difficoltà di trasporto su strada: in pratica, gli unici trasporti affidabili erano per via d’acqua) su 4 risorse: 1) la produzione agricola locale, 2) la presenza di risorse speciali (miniere di argento e altri metalli), 3) commercio e turismo e 4) entrate da rendite, tasse, bottino, tributi, doni ecc. L’apporto dell’industria era del tutto trascurabile. Questo vale anche per il famoso passo di Senofonte (Ciropedia VIII.2.5) sulla divisione del lavoro nelle attività industriali cittadine (in pratica, non esisteva alcuna elasticità della domanda e la produzione non si poteva ampliare).

Inoltre, non esistevano moneta fiduciaria né titoli di credito: l’unica moneta era quella metallica- e sovente scarseggiava. Non esisteva neppure un debito pubblico.

In Grecia, non esistevano neppure esempi attestati di attività creditizia (a Roma, invece, sì: c’erano i faeneratores). A Roma non esistevano società commerciali (benché, ad altri fini, le società fossero conosciute). Tutto ciò dimostra che il problema non era di mezzi, ma di mentalità: la mentalità era acquisitiva, non produttiva. Gli unici ceti che nell’antichità avrebbero potuto (essendo liberi dai vincoli morali e ideologici delle élites) sviluppare il capitalismo – cioè i meteci, i liberti, gli schiavi – non possedevano i mezzi necessari; le classi superiori viceversa, che i mezzi li avevano, non ne avevano la volontà. E questa è anche la ragione per cui non vi furono innovazioni tecnologiche, che pure erano alla portata degli antichi. “Progresso tecnico, crescita economica, produttività, persino efficienza, non sono stati scopi significativi” fino a tempi recenti.

L’ultima conferenza è dedicata a “Stato ed Economia”. In origine le liturgie (incarichi piuttosto onerosi, attribuiti annualmente a vari cittadini) erano onorifiche e anche assai ambite, ma nel tardo Impero romano divennero obbligatorie. Servivano a pagare le spese pubbliche, con le tasche dei ricchi. Ma nel tardo Impero, i più ricchi vennero esentati, a differenza dei coloni e della classe possidente provinciale.

In antico, come si sa, la potestà dello Stato era assoluta, non esistevano diritti inalienabili. Ecco perché, se non ci fu “intervento dello Stato nell’economia”, ciò non avvenne certo per via dell’esistenza di una dottrina di laissez faire (anche perché non esisteva nemmeno il concetto di “economia”, né una scienza economica). Le decisioni politiche non venivano prese per ragioni economiche (v. l’azione romana contro Rodi) e le loro conseguenze economiche erano del tutto trascurate. Si pensi alla questione del divieto agli stranieri di possedere terreni: le (gravi) conseguenze economiche del divieto non interessavano nessuno. Quanto alle guerre: nel periodo arcaico, erano spesso razzie; ma successivamente, l’elemento economico divenne sempre meno rilevante; né esistono esempi di “guerre commerciali” come quella anglo-olandese.

L’intervento dello Stato nell’economia fu scarsissimo, né cambiò di natura passando dalle piccole città-Stato al grande Impero romano. Ciò che importava non era lo sviluppo commerciale, ma la soddisfazione dei bisogni materiali impellenti. Col tardo Impero romano (ad es. la trasformazione della Sicilia nel granaio di Roma e dell’esercito) si creò un vero e proprio complesso militar-industriale i cui effetti furono perniciosi (esclusione del settore privato dal vasto settore delle forniture militari, ritiro delle classi alte nell’auto-produzione, e conseguente riduzione nella produzione totale). Al riguardo, è significativo l’atteggiamento verso gli stranieri e la questione della reciprocità nella condizione giuridica. I Romani ci arrivarono lentamente, prima con trattati, poi direttamente con leggi imposte unilateralmente; i Greci, con trattati;ma ad Atene, che aveva un enorme bisogno dei mercanti stranieri, si garantì con legge ai mercanti stranieri pari accesso alla giustizia senza richiedere alcuna reciprocità (e Senofonte arrivò a proporre di concedere ad essi anche la proprietà terriera).

Le tasse venivano applicate senza alcun interesse per i loro effetti economici; le esenzioni erano concesse per scopi onorifici (come l’attribuzione di un seggio a teatro alle personalità illustri) e i Romani non fecero nulla di meglio, anzi (la struttura fiscale era regressiva, e lo fu sempre più).

“Il mondo antico affrettò la sua fine grazie alla sua struttura sociale e politica, al suo sistema di valori profondamente <<embedded>> e istituzionalizzato e, sotto a tutto ciò, all’organizzazione e allo sfruttamento delle sue forze produttive. Questa, se proprio si vuole, è una spiegazione economica della fine del mondo antico”.

(Luca Simonetti) - urbiloquio.com


a cura di Adriano Torricelli

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Antica
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Aggiornamento: 01/05/2015