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Intervista a Walter Galli di Davide Argnani

(in “L’Ortica”, n. 72/1998)

Argnani: 1) A cosa è dovuto, oggi, il successo del dialetto? 2) Si lamenta spesso che la poesia in dialetto è letta da pochi. Perché? In fin dei conti non si può pretendere che sia letta e capita o recepita da chi vive un’altra origine, ha altra cultura e conosce solo un’altra “lingua”.

Galli: La notorietà e soprattutto il consenso critico che in questa seconda metà del Novecento sta riscuotendo la poesia dialettale romagnola, sono indubbi. Né poteva essere altrimenti, poiché essa costituisce, da almeno cinque lustri, una presenza fra le più alte nel panorama della poesia dialettale italiana. Ciò peraltro non ci esime da alcune riflessioni che si propongono, per esempio, ogniqualvolta è dato di assistere ai cosiddetti “Incontro con l’Autore”: manifestazioni, invero, non sempre affollatissime. In primo luogo colpisce la mancanza di presenze giovanili, cosa certamente non beneaugurate per il futuro della poesia dialettale; poi la sensazione, palpabile, che gran parte del pubblico viva quell’appuntamento come una sorta di allegra ‘rimpatriata’ delle memorie e delle nostalgie dei bei (?) tempi che furono; insomma qualcosa che ha più a che fare con un momento di ludico paesano folclore che con la vera poesia. La riprova di questo equivoco è che difficilmente qualcuno sentirà poi il bisogno di entrare in una libreria, per un vero “incontro” con quell’autore, con quella poesia. A questo proposito, memorabile l’affermazione di Tonino Guerra circa l’amore dei romagnoli verso il libro: “in léz gnienca sta i amàz”. Come si vede, non è tutto oro ciò che riluce.

Argnani: 3) Fino a qualche anno fa il dialetto era lingua emarginata, parlata e usata da pochi. Come mai oggi si sta riscoprendo con tanta voglia? 4) Fino alla caduta del fascismo in Italia era ufficialmente vietato l’uso dei dialetti, mentre col dopoguerra si scoprì ch’erano pochi gli italiani che si esprimevano in lingua, pur essendo considerata una vergogna, allora, da parte dei “signori”, parlare il dialetto in pubblico. Oggi invece sembra esistere la contraddizione opposta. È una reazione ai mass-media? È un rifiuto inconscio della civiltà contemporanea a volersi confrontare liberamente o è un modo di sentirsi borghesi? Oppure è perché i poeti non sanno più scrivere in lingua?

Galli: 3) 4) È probabile, come viene affermato da parte di più di un critico letterario, che questa fioritura della poesia dialettale – particolarmente in Romagna – rappresenti una sorta di reazione, o rivalsa, alla perdita, sino quasi alla cancellazione, dei valori della nostra civiltà agricola / urbana nello sconvolgente scontro, nel dopoguerra, con la civiltà tecnologica / industriale, globalizzante e omologante, oggi imperante. I giovani poeti, in gran parte di estrazione dialettofona, ma oltremodo attenti e aperti al nuovo, scoprirono, pur attraverso i propri itinerari, che la rilettura / riappropriazione di quei valori e di quella lingua, il dialetto, conduceva a un approdo, ad una scrittura “altra”, fuori dalla babele degli strambi sperimentalismi che in quegli anni [nel dopoguerra] fiorivano e appassivano nel giro di una stagione. Mi pare di dover sottolineare che, purtroppo, questa nuova, e per qualche verso straordinaria, presenza sulla scena letteraria della poesia in dialetto, in tutta Italia, non ebbe vita facile: perdurava una certa disattenzione, se non emarginazione, da parte della cultura “alta” e della critica ufficiale. Nel 1960 Elio Vittoriani… mi prometteva che si sarebbe adoperato per trovare qualche buona rivista “disposta a pubblicare poesia non in lingua”(!). Del resto ancora oggi trovare editori importanti non è facile per un autore dialettale, soprattutto se esordiente.

Argnani: Esiste un rapporto tra lingua e dialetto?

Galli: Se esiste un rapporto fra poesia in lingua e poesia in dialetto? Non azzardo risposte: sono del tutto sprovvisto degli strumenti necessari; credo che ciò sia materia dei critici, dei sociologi, degli storici ecc. Posso dire, brevemente, di convenire con Bàrberi Squarotti, il quale pensa che “oggi la poesia dialettale abbia soprattutto un significato quando occupa uno spazio specificatamente suo, nel quale non sia in concorrenza con le forme geneticamente elevate della poesia in lingua”. Troppo semplice?

Argnani: Posso chiedere allora perché scrivi in dialetto?

Galli: I miei primi passi furono in lingua e risalgono alla fine degli anni Quaranta: un’esperienza che si protrasse, pur se episodicamente, per alcuni anni, con esiti, credo, non del tutto ignominiosi, ma dei quali io stesso non ero del tutto convinto. Mi accorgevo di essere un po’ troppo suggestionato dalla poesia dei maestri contemporanei, come del resto un po’ tutti allora, e, quel che è peggio, dalle sperimentazioni, dalle mode, dagli “ismi” che imperversavano in quegli anni, cui prima accennavo. Nel mezzo di questo momento di confusione e di riflessioni, incontrai la poesia di Tonino Guerra, del quale erano usciti nel 1946 e nel 1950 due libretti: I scarabócce La s-ciuptèda. Una poesia che sorprendentemente deragliava dai logori stereotipi attorno ai quali ancora indugiava, snervandosi e avvizzendo, gran parte della poesia romagnola dopo la felice stagione spallicciana. Un segnale, questo di Guerra, che costituirà una sorta di “via!” alla fioritura di un variegato ventaglio di voci poetiche, particolarmente nella sua Santarcangelo. Mi bastarono poche prove per scoprire quali straordinarie capacità esplorative, di comunicazione e di dialogo possedesse la disadorna, scabra, schietta parlata delle nostre radici. Avvertivo soprattutto la puntualità con cui senza affanno, senza artifici e fumosità letterarie, lingua e assunto s’incontravano, s’intrecciavano, convenivano a una sorta di osmosi che dava significato, necessità e autenticità al dire poetico.

Argnani: Infine che considerazione hai della scrittura e della letteratura in generale?

Galli: Le mie frequentazioni con la poesia contemporanea sono molto tangenziali ed episodiche – da cane sciolto, come si dice – per cui, onestamente, non mi sento di avventurarmi in disquisizioni su un mondo così poliedrico e, in qualche modo, misterioso. Se qualcosa posso azzardare, considerale impressioni, sensazioni. Dal mio piccolo angolo di lettore dire che molta poesia oggi in circolazione, si costituisce spesso in un mero racconto – certo non privo di valori sul piano formale – delle singolari, privatissime doglianze o epifanie del poeta. Restano fuori l’attenzione per l’uomo, voglio dire la centralità di questa presenza con le sue scelte esistenziali, nella temperie di un mondo e di un tempo impietosi, e più spesso ostili. Credo che questo sia il motivo, o uno dei motivi, del distacco, ai limiti del disamore, che avvertiamo sempre di più fra la poesia e la gente. E allora dovremmo porci un’altra domanda: morirà la poesia? Credo illuminante per tale interrogativo il pensiero di Montale, che invitava i poeti a servire all’uomo, a contare qualcosa per l’uomo, esortandoli a tornare alla luce e dire parole che possano tornare alla strada.