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La vója o la patria?

Le poesie dedicate alla pace e alla guerra, ai partigiani e agli americani, in una parola alla retorica della “patria”, sono – com’era naturale che fosse – principalmente quelle della prima silloge di Walter Galli, La pazìnzia, che è un monumento contro la stupidità di quei governi che pensano di poter risolvere i loro problemi di politica interna con lo strumento della guerra contro altri Stati.

E’ rèduce è toccante. Finita la guerra, un militare torna a casa riconoscendo tutto del suo passato: la stradina lungo il corso del fiume, i due pioppi nell’aia, il cancelletto che cigola; ma quando il figlio lo vede, scappa intimorito: “Mama, mama: córr… u j è un òman!”.

La fèsta è molto impegnata, in stile brechtiano: vi si denuncia tutta la retorica dello Stato nei confronti dei propri caduti, i quali ovviamente non possono parlare. Nella versione originaria, pubblicata nel 1962 nell’antologia di Mario Dell’Arco, Fiore della poesia dialettale, pur essendo sicuramente meno rifinita stilisticamente, conteneva alcuni versi politicamente forti, che Galli però decise di rimuovere in quella definitiva per l’opera omnia: “e’ cór in pèsa e un pó d’areclàm / par la Patria / pr’un’èta guèra” (“il cuore in pace e un po’ di reclame / per la Patria / per un’altra guerra”). La rimozione fu forse dovuta al fatto che nel 1976 (anno dell’uscita della Pazìnzia) i governi avevano smesso da un pezzo di usare il concetto di “patria” in maniera propagandistica.

A proposito di questo confronto tra versioni diverse di una stessa poesia, assai notevoli sono le varianti operate sulla poesia La vója, apparsa per la prima volta, senza titolo, nella rivista “La situazione”, dell’agosto 1961 (n. 21-22), ma scritta verso la metà degli anni Cinquanta. La versione definitiva porta invece la data del novembre 1960.

Mettiamole a confronto.

Ho pers e’ mi marid par cl’ètra guèra
e po de’ trentasia e’ burdèl
ch’l’era andè volontèri in Abissinia.
A m’i s’era racmandèda a mèin pighidi
“valà purèin sta a ca’ tua
ch’u n t’suzèda una sgrèzia alà vajun”.
– La Patria, la Patria – ; me a ne so…

La vója

Ò pers e’ mi marid par cl’ètra guèra
e pó de’ trentasia e’ burdèl grand
ch’l’era andè volontèri in Abissinia.
A mi s’era racmandèda a mèn pighidi:
“Dà rèta, fiól, stat a ca’ tua
ch’u n’ t’suzèda una sgrèzia alà vajun”.
Ma lo l’aveva cla vója; u n’ s’ tniva pió.

Ho perso mio marito nell’altra guerra / e poi il figlio nel trentasei / andato volontario in Abissinia. / L’avevo supplicato a mani giunte / “Da’ retta, stai a casa tua / che non ti succeda una disgrazia da qualche parte”. / – La Patria, la Patria – io non lo so…

La voglia

Ho perso mio marito nell’altra guerra / e poi il figlio maggiore nel trentasei / andato volontario in Abissinia. / L’avevo supplicato a mani giunte / “Da’ retta, sta’ a casa tua / che non ti succeda una disgrazia laggiù”. / Ma lui aveva quella voglia; non si teneva più.

Si noti la differenza anagrafica di quel figlio: nella prima versione non appare come primogenito, quindi si può presumere fosse molto giovane, ma allora è anche meno irresponsabile la decisione di abbandonare a se stessa una madre già vedova sin dalla prima guerra mondiale. Tuttavia un primogenito che partiva volontario per l’Abissinia poteva sempre pensare che alla madre avrebbero provveduto gli altri fratelli, quella volta sempre numerosi. E forse poteva anche pensare di tornare a casa presto dopo aver fatto fortuna. Tuttavia la poesia lascia credere che il figlio fosse partito proprio per fare la guerra etiopica e che fosse morto prima del maggio 1936, allorché la guerra si concluse.

La stranezza tra le due versioni non sta qui, ma proprio nel titolo della poesia. Nella prima versione il figlio va a combattere in nome dell’ideale della patria e la madre sembra non capirlo: sembra essere lei in torto, lei l’egoista, quella che non ha più voglia di avere altri “eroi” in famiglia e che ora, temendo per la propria vecchiaia, non vuole restare più sola di quanto già non lo sia. Lei pensa d’aver già dato abbastanza alla “patria”.

Ma questa è solo l’apparenza. In realtà è proprio la donna a esprimere una positività, è lei a capire che il concetto di “patria” è solo un inganno, poiché il marito che ha già perduto nella prima guerra mondiale non l’ha aiutata a risolvere i suoi problemi familiari, e il figlio, partito volontario, era soltanto un illuso, ammaliato dall’idea fascista dell’impero, un altro inutile martire dell’ideologia militarista.

Anche nella versione definitiva c’è la critica galliana della guerra e dell’idea imperialista di patria, ma in forma diversa. Il figlio questa volta viene presentato non come un fanatico dell’ideologia fascista, ma come un irresponsabile egocentrico, che parte sotto l’impulso irresistibile per l’avventura, una “voglia” irrazionale che non tiene in minimo conto i problemi oggettivi della famiglia. Il suo gesto non ha alcuna motivazione, né politica né ideologica né economica, e la madre non può farci niente, è del tutto impotente.

Ma – ci si può chiedere – se la madre non avesse già perduto il marito, la “voglia” del figlio sarebbe stata più giustificata? Qui si ha l’impressione che, nel passaggio da una stesura all’altra della poesia, in Galli si sia attenuata la valutazione di netta condanna politica del colonialismo fascista, a vantaggio di una valutazione di tipo etico, secondo cui l’essere pro o contro una certa ideologia può essere deciso soltanto dalla singola persona, a prescindere da quanto le accade esternamente. Il Galli de La vója è più fatalista di quel che non sembri e per stigmatizzare l’assurdità dell’avventura colonialista ha voluto o dovuto aggiungere che il figlio era il primogenito.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte - Cesena - Storia - Poeti - Galli
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Aggiornamento: 02/10/2012