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LA PAZINZIA DI GALLI E LA VETRINA DEL FARMACISTA

La pazìnzia

T'a n' creda ch'é possa tiré avènti acsé
ancora pr'una massa
da dis an int un bus un sora cl'ètar
cun chi du bòch 'd sussidi
e un pach dla San Vincenzo e' dé 'd Nadèl.

T'a n' degga dop che te t'a n'e' savivta.
Se st'invéran u si dà amalè i burdéll
lo e' spaca la vidrena a e' farmacesta.

(gennaio 1960)

La pazienza

Non credere che possa tirare avanti così
ancora per molto
da dieci anni in un buco uno sopra l'altro
con quella miseria di sussidio
e un pacco natalizio della San Vincenzo.

Dopo non dire che non lo sapevi.
Se quest'inverno gli si ammalano i figli
lui spacca la vetrina al farmacista.

Commento

Agli inizi degli anni Sessanta, a Cesena, non si vedono ancora gli effetti del boom economico nazionale, tanto meno nel quartiere popolare della Valdoca, dove il poeta ha vissuto gran parte della sua vita e che fu ristrutturato alla fine degli anni Settanta fra mille polemiche, in quanto molti, a causa della sua fatiscenza, avrebbero preferito un totale rifacimento. La miseria è ancora forte e i sussidi, pubblici e privati, sono del tutto insufficienti. (1)

Questa poesia di Walter Galli ha indubbiamente qualcosa di teatrale: è come se un attore si stia rivolgendo a un altro attore, di cui il primo parteggia per la realtà, mentre l’altro finge di non vederla; uno è preoccupato, l’altro invece minimizza o relativizza, pur avendo i mezzi o il potere per far qualcosa.

Non è il dialogo tra un povero e un ricco, poiché il primo non avrebbe avuto il coraggio di parlare come se si sentisse in diritto-dovere di muovere un’accusa d’ignavia; e il secondo non l’avrebbe neppure ascoltato o non si sarebbe affatto sentito giudicato. (2)

È la conclusione di un discorso che tra i due protagonisti s’è già svolto e che non si ha bisogno di riportare, proprio perché Galli fa poesia, non teatro, ma non ci vuol molto per immaginarsi un’equivalente scena teatrale.

Questa lirica-denuncia vuol essere uno spaccato sulla comunicazione tra un io e un tu, che conversano come un noi, parlando di problemi altrui, di gente che per un motivo o per un altro non è a loro molto lontana. Sembra quasi il dialogo tra due coniugi, dei quali la donna rappresenta l’io responsabile, che si preoccupa dei figli degli altri, mentre l’uomo rappresenta il tu indifferente, forse imparentato con la persona d’aiutare.

L’io sa, cioè conosce l’entità del sussidio pubblico e il valore della donazione natalizia, conosce addirittura il reddito della famiglia bisognosa e sa che, nonostante gli aiuti esterni, è del tutto inadeguato alle esigenze.

Anche il tu sa, ma finge di non sapere e non vuole far nulla di concreto, ma l’io gli ricorda che se persiste in questo atteggiamento, la situazione peggiorerà. Deve far assolutamente qualcosa per aiutare il terzo protagonista della poesia, che è, in fondo, anche se muto, l’attore principale, in quanto è a causa della sua condizione che nasce il dialogo e la poesia che lo riassume empaticamente.

Qui sono le assenze che parlano: il miserabile e la prima parte del dialogo tra i due attori. Ma ve ne sono molte altre: p.es. quella dello Stato (o del Comune), che col proprio sussidio non è in grado di risolvere la povertà di quella famiglia, se non in maniera molto irrisoria. Ma anche la Chiesa (qui rappresentata dalla più antica associazione laica della storia del volontariato italiano, nota per assistere i bisognosi, la San Vincenzo de Paoli), che provvede ancor meno, col pacco natalizio di generi alimentari.

Sono tutte assenze che parlano in maniera eloquente, senza alcun bisogno d’essere descritte. Parlano anche i figli di quel poveretto, gracili, deboli, a rischio costante di malattia (3); parla anche la loro madre, che ormai non sa più cosa fare e che, anche nel caso in cui lavori, non riesce a contribuire al reddito familiare in maniera significativa. Ma è dubbio che lavori, in quanto la prole è numerosa, infilata nei letti a castello d’un vero tugurio.

Parla anche il farmacista, che evidentemente non è disposto a offrire medicine a credito e tanto meno a fare sconti o regalie per i casi più disperati.

Parla anche il titolo, proprio perché dieci anni di vita grama sono diventati ormai troppi, e la pazienza sta per finire. E parla anche la consapevolezza di quel povero padre di famiglia, che, essendo abituato ad affrontare da solo i suoi problemi, senza avvalersi di associazioni, sindacati, partiti..., rischia di non vedere altra soluzione che quella più immediata e disperata: rompere una vetrina.

In una poesia di otto versi, così asciutti, così diretti, così assolutamente antiretorici e persino antiletterari, frutto di un parlato casalingo, gli attori che si raccontano sono davvero tanti. È questa coralità implicita, questo non detto incredibilmente presente che rende grande un poeta come Walter Galli.

Note

(1) Da notare che nella prima versione pubblicata su “il Nuovo Belli” (n. 1/1960) non si parla neppure di “du bòch ’d sussidi”, bensì di “du boch che bósca d’ogna tèint”, lasciando credere che il soggetto in questione non fosse proprio un utente della pubblica assistenza, quanto, più semplicemente o meno drammaticamente, un lavoratore molto precario e sottopagato.

(2) Da notare ancora che nella versione originaria l’intero verso “T’a n’ degga dop che te t’a n’e’ savivta” era tutto racchiuso in un lapidario e minaccioso “Sta’ attenti”, non privo peraltro di ambiguità, in quanto l’avviso sembra essere rivolto o a un parente di quel padre esasperato, il cui gesto dimostrativo potrebbe avere un effetto negativo anche su di lui parente, sulla sua onorabilità, oppure a una persona influente della comunità, che deve tutelare l’ordine pubblico e che non può permettere che si compiano azioni del genere. Il consiglio di “stare attenti” non si rivolge alla “coscienza” di un uomo che deve avere pietà, ma alla “funzione pubblica” ch’egli ricopre, ed è quindi più freddo o meno diplomatico, al punto che chi lo dà pare preoccupato non tanto del caso umano di quella povera famiglia, quanto delle conseguenze sociali che tale povertà potrebbe provocare. In questo rafforzamento dello spessore etico si registra un’evoluzione nella personalità del poeta, ch’egli ha cercato di dissimulare conservando la medesima data di stesura della lirica: “gennaio 1960”, che invece, stando al curatore della rivista “il Nuovo Belli”, era stata scritta tra il 1954 e il 1956.

(3) Nella versione originaria Galli aveva voluto mostrare che per scongiurare il gesto eclatante di rompere la vetrina del farmacista doveva essere considerata sufficiente l’eventualità che durante l’inverno s’ammalasse “un ènt burdèl”; in quella definitiva invece egli sembra già essere consapevole che l’evidenza d’una malattia individuale, in quel dramma familiare, non è affatto sufficiente per indurre a compiere un’azione risolutiva, per cui opta per una soluzione di compromesso: il postulante si rivolge al “buon cuore” di chi ha il potere di fare qualcosa di utile, paventando il rischio che s’ammalino tutti “i burdéll” di quella famiglia. È dunque evidente che tra l’una e l’altra versione vi è un’attenuazione della carica politicamente eversiva del poeta, in direzione di un approfondimento delle cose di tipo etico o esistenziale. Tale evoluzione, che molti critici han creduto di ravvisare tra la prima silloge di Galli, La pazìnzia, e la seconda, Una vita acsé, in realtà s’era già consumata nel corso degli anni Cinquanta.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte - Cesena - Storia - Poeti - Galli
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Aggiornamento: 15/08/2012