INTERVISTE CINEMATOGRAFICHE
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IVAN FILA, Nessun Dogma nella mia vita
Il regista ceco autore de Il re dei ladri e di Lea ha soggiornato alcuni giorni a Firenze, ad agosto 2005, per partecipare con questi ultimi suoi due film alla prima edizione del Nessun Dogma International Film Festival, rassegna che raccoglie e presenta le migliori produzioni cinematografiche di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca dal 1989 ad oggi, ovvero dalla caduta del Socialismo reale. Sulla scia del tema portante della rassegna – l’avversione al concetto di dogma, sia esso quello del linguaggio cinematografico, come nella lezione di Lars Von Trier, sia esso quello politico e culturale del comunismo in cui i tre paesi sono stati immersi per trent’anni dalla fine dell’ultima guerra – il cinquantenne autore di alcune fra le più stimate opere drammatiche di produzione contemporanea ceca e tedesca ci racconta il suo modo di vedere il mondo, il cinema, la politica, il futuro dell’Europa e del suo paese, e soprattutto il grande momento di passaggio rappresentato dal 1989. Cresciuto in Germania fino alla caduta del Muro, Ivan Fila oggi è tornato in patria dove continua a raccontare attraverso il suo cinema il dramma dell’emigrazione, della solitudine, e del confronto fra storia e cultura dell’Est e dell’Ovest europeo.
Innanzitutto ritengo che non sia importante che questo festival si intitoli Nessun Dogma. Non è importante il nome, la parola, ma ciò che considero fondamentale sono i pensieri puliti, puri e schietti che lo animano, e l’entusiasmo che viene trasmesso alla manifestazione da parte di chi ha contribuito a realizzarla. Non mi interessa nemmeno se il cinema possa essere o meno incanalato all’interno di un dogma, che possiamo chiamare Nouvelle Vague o in un altro modo. Perché l’importante è l’impronta umana. D’altra parte non sono un grande sostenitore di Lars Von Trier e del suo Dogma 95 anche se mi è piaciuto molto Le onde del destino. Alcuni film che sono usciti dal progetto Dogma erano buoni, ma non buoni perché del Dogma, buoni in sé. Non sono assolutamente a favore di programmi come quello, scritti sulla carta e dai quali non si può mai deviare, perché mi fanno suonare il campanello d’allarme del fanatismo religioso. Diventano degli obblighi assurdi, dei diktat paradossali, che provocano conseguenze paradossali come quando Von Trier stava violentemente aggredendo un operatore di macchina che inavvertitamente accese una luce sul set di un suo film. Se si usa un po’ di musica, purché non sia diegetica e vada bene nel film, tanto meglio. Se si usano delle luci che creano un effetto positivo, perché no? Non mi piace che uno si debba sottoporre ad un programma rigidamente e dogmaticamente scritto sulla carta. Poi c’è il dato politico. Perché Nessun Dogma si riferisce anche all’esperienza storica che questi tre paesi hanno vissuto: quella del socialismo reale e dell’Unione sovietica di Stalin. Provengo da un paese che è stato terrorizzato per decenni dall’imposizione dogmatico-politica del socialismo reale, e anche per questo il dogma come concetto lo escludo in modo assoluto. Lo stesso vale per quanto riguarda il fanatismo religioso: voi in Italia avete la Chiesa cattolica che esprime degli aspetti estremi del fanatismo religioso, un’altra cosa che rifiuto con forza. È questo l’aspetto che conferisce maggiore specificità al festival, a differenza di altri più prestigiosi che non fanno altro che ripetersi, con gli stessi registi affermati, gli stessi film, ma non hanno una personalità propria.
Prima di allora, come documentarista, mi ero interessato alla vita di due persone che, dopo essere state prigioniere nei gulag in epoca stalinista, una volta tornati nella parte orientale della Germania avevano continuato ad amoreggiare con il comunismo e con l’idea del socialismo reale, continuando incredibilmente a crederci con forza. Il mio primo film, In nome della rivoluzione, che è del 1989 appunto, è dedicato a Wolfgang Leonhard, autore di un libro molto importante che è La rivoluzione divora i propri figli. Leonhard, fuggito dalla Germania dopo la Prima Guerra e poi diventato prigioniero nella Russia di Stalin, una volta tornato di nuovo nella parte orientale della Germania è diventato uno degli ideologi della DDR, la Repubblica democratica tedesca dell’Est. Già prima dell’89 ero molto interessato al destino di queste persone perché non potevo assolutamente sperare che sarei mai tornato in Repubblica Ceca in vita mia, e non riuscivo a capire come questa persona, come anche altre di cui parlo in In nome della rivoluzione, potesse continuare a credere nell’idea del comunismo dopo tutto quello che avevano passato sulla propria pelle. All’improvviso ed inaspettatamente è caduto il Muro e ho quindi potuto raccontare, con il film successivo che era Passi nel labirinto, del 1990, il problema degli emigranti cechi che tornavano a casa. Dopo l’89 si è posto il problema, soprattutto nel mio paese, della differenza nelle scelte e nei destini fra quelli che erano rimasti e quelli che in qualche modo erano riusciti a scavalcare le barriere della Cortina di ferro. La differenza sostanziale stava nel fatto se i primi si erano sottoposti volontariamente al dogma o se viceversa gli erano sfuggiti: ma era giunto il tempo in cui bisognava sforzarsi di capire come riuscire a riunire questi due differenti destini. Ed è proprio questo che ho tentato di fare nelle mie prime opere di fiction. Ho dedicato uno dei miei lavori successivi all’89 anche ad Hitler, perché è un personaggio in qualche modo legato a tutti questi miei temi, di schieramento e di assoggettamento a idee forti quanto assurde. Poi sono passato a raccontare un altro tipo di dogma che è quello religioso con Storie da un altro mondo che è dedicato alla mania di Lourdes e all’ossessione della guarigione miracolosa. Io sono un ateo molto convinto e vivere l’esperienza di accompagnare a Lourdes alcune persone è stata tra le più strane e inaspettate della mia vita: si è creata in me una luce nuova, e ho capito che esistono molti punti di contatto fra il dogma politico e il fanatismo religioso. L’ossessione della guarigione, come una fede incontrollata in qualcosa di grande, e la potenza di questa fede, aiuta a capire anche l’altra ossessione, quella appunto del dogma politico.
Sono abbastanza scettico nei confronti dell’Unione europea e condivido questo scetticismo con la maggioranza dei miei connazionali. L’entusiasmo dovuto all’attesa dell’entrata nell’Ue, quando addirittura si contavano i giorni da quante aspettative c’erano intorno a questo evento, è stato però presto sostituito da un sensibile e convinto passo indietro. È come essere sottoposti ad un nuovo tipo di dogma, perché se prima gli Stati del Patto di Varsavia erano assoggettati volenti o nolenti a quanto veniva deciso a Mosca, adesso accade una cosa simile con Bruxelles in quanto s’impongono dall’alto regole nate in contesti sociali e culturali molti diversi dai nostri. Sono contento che per esempio in Francia e in Olanda la gente abbia votato contro la Costituzione europea. Da parte nostra non vogliamo assolutamente sostituire la moneta ceca con l’euro, né vogliamo sottostare ai comandi provenienti da Bruxelles. Siamo diventati consapevoli di poter bastare a noi stessi e di non avere più bisogno dei tanto agognati – fino a poco tempo prima – finanziamenti europei, cioè dell’elemosina degli altri paesi, e abbiamo eliminato quel complesso di inferiorità che prima invece ci apparteneva.
La scelta di proporre solo film drammatici e nessuna commedia è dovuta a canoni estetici. Nonostante che il 90% dei film che vengono prodotti in Polonia siano commedie, queste sono stupide, insignificanti, di bassissima qualità: avrebbero annoiato e disgustato il pubblico italiano. Sono come i vostri film di Natale, con risate sciocche – e un tipo di umorismo che è molto legato a specificità ceche e non sarebbe capito dagli stranieri – condite di sesso e comicità volgare. E soprattutto sono film assolutamente non rappresentativi della Repubblica Ceca e del suo cinema. Ma questo non vuol certo significare che il mio sia un popolo triste. Pellicole problematiche invece, che siano capaci di far pensare, sono molto poche in Repubblica Ceca. Da noi i produttori sono troppo legati al guadagno, al marketing cinematografico, e non investano in altro che non sia la commediola stupida.
Mi sono formato con i vecchi film e a loro sono rimasto affezionato. Ad Antonioni e Fellini – soprattutto Il grido, Blow up e Amarcord – Bergman e Forman. Della contemporaneità mi piace poco: detesto Tarantino e odio Pulp Fiction che mi sembra gratuito e sterile. Ma fra i film italiani recenti ricordo con piacere La seconda volta di Mimmo Calopresti.
Facciamo un paragone. Pensiamo ai magnifici monumenti che avete qui a Firenze e poi guardiamo l’architettura di oggi, i palazzi spesso inguardabili fatti di vetro e metallo. Cosa penseranno di noi i posteri, di quello che stiamo creando? Beh, per il cinema è lo stesso: un tempo i film di qualità erano in numero maggiore rispetto ad adesso, mentre la grande maggioranza della produzione cinematografica di oggi se non esistesse affatto non ne sentiremmo certamente la mancanza. Ecco, non posso immaginare cosa il pubblico italiano porterà a casa, con sé, nelle proprie teste, dalla visione di questi film, però se fossi al loro posto sarei molto contento di vedere cose curiose, completamente diverso dal cinema commerciale e di massa, e che allarghi la gamma delle mie percezioni, che mi faccia riflettere, che osi un po’ e che si difenda dalla mcdonaldizzazione del mondo e dal terrorismo culturale che questo comporta.
La prima grande differenza è la libertà nella scelta dei temi. Purtroppo questa maggiore libertà non ha portato anche una maggiore qualità. Nel mio paese per esempio manca del tutto l’attenzione produttiva per il cinema d’impegno civile e politico. A guardare i film cechi di adesso sembra quasi che il periodo comunista non sia mai esistito! Durante gli anni Settanta e Ottanta, sotto il diktat del dogma comunista, i film che venivano prodotti erano di qualità maggiore. Gli autori cercavano di farsi spazio fra le fitte maglie della censura, rischiando ma raccontando con il punto di vista dell’arte la realtà di allora. Adesso si parla solo di denaro, sembra che la cosa più importante non sia più il talento artistico ma il talento nel marketing cinematografico, quello che ti porta a raccogliere fondi per fare il film. E inevitabilmente si producono quasi solo pellicole per il grande pubblico, lasciando l’arte in secondo piano, perché se un film mediamente cosa 700mila euro occorrono ben 300mila spettatori solo per rientrare nelle spese. È questo il motivo per cui si scommette solo sulle commedie che vanno incontro al gusto dello spettatore di massa. Ho provato a mettere in piedi un progetto produttivo puramente ceco, senza denaro straniero. Ma non sono riuscito a realizzarlo perché tutti i produttori mi hanno risposto che i temi che io tratto sono sicuramente interessanti, e che possono dar vita a film pronti a vincere grandi festival internazionali, ma che nessuno sarebbe mai venuto a vederli nei cinema cechi. A questo punto non mi resta che creare il Ministero del dogma, che potremmo intitolare anche Ministero della cretinaggine, dove io vorrei ricoprire il ruolo di Gran Censore e Inquisitore, per bocciare tutti i progetti di film cretini. |
a cura di Edoardo
Semmola - www.alteredo.org
(Giornalista e Critico cinematografico)