Tutto è incominciato dopo la prima metà dell’Ottocento, precisamente nel primo decennio successivo al giro di boa del mezzo secolo. Ad opera di un gruppo di pittori che, già attorno al 1860, si incontravano all’Académie Suisse di Parigi. Si chiamavano Claude Monet, Camille Pissarro, Armand Guillaumin, Paul Cézanne. Erano tutti fortemente attratti dal naturalismo di Gustave Courbet e Jean Baptiste Corot. Il naturalismo era una delle direttrici lungo il cammino dell’espressività ottocentesca, così come, su un versante opposto, lo erano le correnti spiritualiste, ovverosia le tendenze che si occupavano di un visibile inteso come fenomenizzazione dell’invisibile, del mistero. Fenomeno che, con un termine ampio e onnicomprensivo, si chiamò Simbolismo e che vide diversi esponenti autorevoli agire sulla scena dell’arte come Arnold Böklin, Caspar Friedrich, Max Klinger, Gustave Moreau, Dante Gabriel Rossetti, Edward Burne-Jones.

In ogni secolo, praticamente, l’arte era sempre risultata altalenante fra due poli: nel Trecento – tanto per esemplificare – da una parte era nata, a Firenze, con Giotto, ma preceduta da Cimabue, la scuola del disegno e dei volumi (anticipatrice dell’Umanesimo), mentre a Siena erano rimasti operanti, attraverso la corrente espressiva araldica e lineare prima di Duccio da Boninsegna e poi di Simone Martini, il gusto goticheggiante e l’interesse per il dettaglio minuzioso ed elegante. Altrettanto può dirsi del Quattrocento con la persistenza dello stile gotico di Lorenzo Ghiberti da una parte e le innovazioni linguistiche di Filippo Brunelleschi dall’altra, aggiungendosi ad essi le tendenze mediatrici del Beato Angelico.

Il Cinquecento aveva visto, su posizioni diametralmente opposte, la visione ideale, classica, equilibrata ed oggettiva del mondo di Raffaello Sanzio e di Donato Bramante, ma anche l’affermazione dei valori soggettivi, la volontà di rottura del canone, del Manierismo anticipato dallo spirito inquieto di Michelangelo Buonarroti.

Il Seicento si era diviso, in ambito pittorico, scultoreo ed architettonico, tra le esigenze del realismo (i Carracci e Caravaggio) e il desiderio di persuasione esploso nell’iperbole e nella sensualità di Francesco Mochi scultore; oppure tra le due weltanschaung di Lorenzo Bernini e Francesco Borromini. Anche il Settecento si era ripartito in due tendenze di segno contrario, come il frivolo Rococò della prima metà del secolo e l’austero e algido Neoclassicismo della seconda.
Tornando all’Ottocento – a quella prima parte del secolo che precedette la deflagrazione linguistica di cui diremo – anch’esso, come già anticipato, si trovava bilicato tra gli interessi naturalistici e quelli contrapposti dello spiritualismo. Esso fu un secolo caratterizzato da grandi fratture e da grandi speranze.

Mario de Micheli ha scritto che “Ha conosciuto una tendenza rivoluzionaria di fondo, attorno alla quale si sono organizzati il pensiero filosofico, politico, letterario, la produzione artistica e l’azione degli intellettuali”. Il fenomeno ebbe dimensione europea e nell’intero continente si verificò lo stesso tipo di reazione rispetto al tempo passato. La qual cosa ha convinto molti autori circa l’esistenza di una sorta di “Unità dell’Ottocento”. Fra questi si colloca Lewis B. Namier che scrisse: “Il sentimento europeo reagì agli impulsi e all’intimo dinamismo della rivoluzione con una notevole uniformità, nonostante le differenze di lingua e di razza, nonché a livello politico, sociale ed economico dei Paesi interessati”.

Il secolo in questione fu connotato da una serie rilevante di scoperte scientifiche e tecnologiche. Fra le tante quella della macchina fotografica, vale a dire di uno strumento capace di “riprodurre” la realtà in tempi brevi, con perfetta aderenza alla verità del modello ed a costi contenuti. La qual cosa mise in allarme la categoria dei pittori, dai ritrattisti, ai paesaggisti, a tutti gli altri. La pittura sembrava morta, soppiantata dallo strumento moderno e tecnologico.

Questo fatto influì certamente sull’evoluzione del linguaggio pittorico (e, di conseguenza, anche su quello scultoreo) determinando una forte scossa che indusse gli artisti ad interrogarsi sulla nuova funzione (e, quindi, sulla nuova natura) dell’arte, a meno che non la si fosse voluta considerare davvero morta.

Ecco che ritorniamo a quel gruppo di pittori che abbiamo lasciato, nel decennio 1860, attorno all’Académie Suisse di Parigi e che, nel frattempo, si era arricchito di altre personalità come Edouard Manet, Edgar Degas, Pierre Renoir, Alfred Sisley, affiancati da intellettuali come Joris Huysmans, Luis Duranty, Théodore Duret. Desiderando dare un senso nuovo alla pittura (e all’arte in generale) essi decretarono, in qualche modo, la fine della sua funzione mimetica, che aveva sempre svolto sin dalle origini, sia pure con diversi modi di intenderla da secolo a secolo oltre che, beninteso, da singolo autore a singolo autore.

Alla “riproduzione fedele” della natura delle cose avrebbe pensato ora la macchina fotografica. Al pittore spettava il compito di accentuare un valore che, finora, era rimasto sotteso alla rappresentazione realistica: parliamo dell’impressione individuale che deriva dagli oggetti. Per impressione intendendo ciò che l’occhio percepiva di un insieme di colori che mutavano col variare delle condizioni della luce che su di essi si posava.

Nacque così l’Impressionismo che dovette il suo nome ad un dipinto di Monet del 1872 intitolato “Impression. Soleil levant” esposto alla prima mostra del Gruppo organizzata da Degas presso lo studio del fotografo (!) Nadar nel 1874. Il quadro diventò, nel nuovo stile, una superficie pittorica che si poneva come realtà a sé stante, diversa da quella naturale e la cui materia era il colore colto nella sua autonomia, legato esclusivamente all’emozione individuale che scaturiva dall’impressione che il pittore riceveva dalle cose.

La pittura aveva trovato una strada nuova: non più mimesi del reale, non più funzione fenomenica, ma ricerca di sensazioni provenienti da oltre l’apparente.

In qualche maniera analoga situazione (mutatis mutandis) si era verificata tre secoli prima, nel Cinquecento, con un’altra straordinaria rivoluzione linguistica scardinatrice delle regole oggettive a vantaggio delle istanze individuali, comprese quelle dell’arbitrio, messa in atto dal Manierismo del Pontormo, di Rosso di San Secondo, del Beccafumi, del Parmigianino, di Daniele da Volterra e via dicendo.

La rottura con il passato era compiuta. Il diritto dell’individualità era conquistato, oramai, sul finire dell’Ottocento, senza più rischi di ripensamenti e di ritorni all’indietro. La pratica della manualità pittorica consentiva all’uomo-artista di andare alla ricerca di una verità seconda. Della prima si dovevano occupare gli strumenti meccanici (anche se, il tempo, dimostrerà poi che anch’essi, ben presto, si piegheranno, come sempre gli strumenti hanno fatto in ogni epoca, al bisogno dell’uomo di farsi, attraverso l’arte, linguaggio narrante e perciò, come dice Martin Heiddeger, di rivelare l’essere).

Da tale conquista dell’individualismo espressivo partì un movimento di forza centrifuga che moltiplicò le potenzialità linguistiche. La tendenza, in ogni secolo passato, di veder convivere due, al massimo tre, modi di ricerca, era del tutto conclusa. Iniziava adesso l’inebriante sarabanda di un pluralismo linguistico che sembrava inarrestabile e che avrebbe visto come protagonista assoluto il XX secolo con le Avanguardie Storiche della prima metà di esso e con le Neo-avanguardie della seconda metà, intramezzate da momenti di sosta, di sospensione, di ripensamento, seguiti da nuovi e più accelerati impulsi.

NOVECENTO

Il XX secolo assume su di sé il compito di continuare, sviluppare, finanche estremizzare, il fenomeno della molteplicità dell’espressione in nome e per conto dell’individualismo linguistico. Ha scritto Carlo Munari nel 1973: “Decadono gli antichi metodi della rappresentazione. Comincia il tempo delle rivoluzioni, si instaura finalmente l’arte contemporanea: eterogenea per la pluralità delle sue proposte, questa meravigliosa avventura si prolungherà fino ai nostri giorni”. L’affermazione è da sottoscrivere ancor oggi, a trent’anni di distanza.

Nonostante l’indiscutibile proliferare, in ogni direzione, di sistemi lessicali diversi, si può ancora individuare, almeno nell’ambito delle Avanguardie storiche (quelle cioè che dall’inizio del secolo giungono, con fervore inventivo incalzante, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale), due linee guida con le quali vanno ad aggregarsi i movimenti innovativi: una riguarda le poetiche emozionali e l’altra quelle che potremmo chiamare le suggestioni “scientiste”. La prima afferisce alla sfera del sentimento, la seconda inclina verso quella della razionalità.

Il Fauvismo nasce in Francia agli inizi del Novecento ed il suo riconoscimento ufficiale avviene al Salon d’Automne del 1905. Gli esponenti più significativi sono Henri Matisse, Maurice De Vlaminck, André Derain, Georges Braque, Raul Dufy. Dice Matisse che il quadro ha da essere uno “spazio dello spirito”. Gli artisti fauves perseguono la semplificazione delle idee e delle forme e considerano l’arte pittorica come una liberazione totale dell’istinto proiettata sulla tela mediante colori forti (primari, per lo più) e forme anch’esse risolte in modo spesso primitivo. Vlaminck sostiene di voler obbedire soltanto alla libertà sfrenata dell’ispirazione.

Il movimento Fauve è da considerare una sorta di antecedente del più complesso, articolato e vasto Espressionismo. Se quella impressionista era stata un’arte che riproponeva la realtà “come la si vede” (attraverso l’impressione), quella cubista sarà adesso la riproposta del reale “così come lo si sa o lo si conosce”. Il Cubismo nasce pure in Francia, a Parigi, in Rue Ravignan, nel quartiere di Montmartre, all’interno di un edificio cadente chiamato “Bateau Lavoir” dove vive e lavora il giovane Pablo Picasso emigrato a Parigi dalla Spagna.

Preparato, sul piano ideale e formale, da due antefatti come il Neoimpressionismo (più noto come Pointellisme, con autori Seurat e Signac) e il senso volumetrico di Paul Cézanne, il Cubismo elabora una poetica che non rifiuta lo scientismo, anzi lo pone a fondamento della sua investigazione che mira all’organizzazione dei dati visivi nella sintesi intellettuale.

Il già citato Picasso, Georges Braque, Juan Gris, Férnand Leger, Albert Gleizes, Jean Metzinger ed altri danno vita a due momenti del Cubismo: quello analitico (1909) dei piani semplici spezzettati in “una sfaccettatura fitta, continua, che rompe l’oggetto, lo smembra in tutte le sue parti, lo analizza insomma, fissandolo sulla superficie della tela dove il rilievo è ormai ridotto al minimo” (M. De Micheli) e quello successivo sintetico che ricostituisce liberamente l’immagine scevra dalla prospettiva, riassumendo la cosa nella sua fisionomia essenziale, senza alcun rispetto delle regole dell’imitazione e concentrandola attorno al proprio peso (soprattutto nella scultura).

Del tutto italiana (anche se il suo Manifesto era stato pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti il 20 febbraio 1909 nel quotidiano parigino “Le Figaro”) è l’avanguardia del Futurismo. Che tuttavia dall’Italia si trasmette in breve in ogni parte d’Europa di cui supera poi i confini per arrivare persino nel lontanissimo Giappone.

Avanguardia nel senso più pieno del termine, il Futurismo nasce come antitesi violenta all’arte accademica e ufficiale (in Italia rappresentata da quella prodotta durante il periodo umbertino) e come aspirazione alla modernità.

Innamorati della macchina come simbolo di un presente vitale proiettato verso il futuro, del movimento e della velocità, i Futuristi esprimono la tensione verso una concezione dinamica dell’esistenza, facendo diventare il loro movimento, oltre che uno stile artistico, anche un modo di vivere. Tra i numerosi esponenti del Futurismo: Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini.

Preceduto, come già detto, dall’irruenza fauvista, compare, sulla scena europea e mondiale, l’Espressionismo, una sorta di neo-romanticismo a trecentosessanta gradi che deve le ragioni del suo nascere alla Germania e a tutte le altre nazioni del nord Europa, anche se poi si estende fino al Mediterraneo. Oltre che dai Fauvisti, l’Espressionismo era stato preparato anche dalle singolari, straordinarie figure di artisti solitari come il belga James Ensor, l’olandese Vincent Van Gogh, il norvegese Edvard Munch. Esso rappresenta una protesta contro l’ottimismo positivista, contro l’utopia del progresso risolutore di tutti i problemi dell’umanità. Deluso dalla realtà esterna esso cerca, in tutti i modi, di calarsi nel suo interno e in quello dell’animo degli artisti.

Sicché ecco elaborarsi una terza definizione dell’arte che rende la realtà “come la si sente”. Il sentimento – nelle sue più ampie e varie accezioni – è il filtro attraverso cui si vede e si percepisce il reale. L’Espressionismo origina in due città tedesche con altrettante esperienze: a Dresda nel 1905 con il Die Brücke (Il Ponte) e a Monaco, nel 1909, con il Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro). Alla prima partecipano Ernest L. Kirchner, Karl Schmidt-Rottluff, Otto Müller, Emil Nolde; alla seconda Wassilij Kandinskij, Franz Marc, August Macke, Paul Klee. A cui si aggiungono altre personalità isolate come Ernst Barlach, Käthe Kollwitz, Oscar Kokoschka, Egon Schiele e così via.

Il Kandinskij del Cavaliere Azzurro approda nel 1910 all’Astrattismo lirico connesso – citiamo ancora una volta Mario De Micheli – al “principio dell’ispirazione romantica intesa come effusione dello spirito”. Un astrattismo (vale a dire una non-figurazione) risolto con invenzioni segniche autosignificanti e con ideazioni cromatiche, sostenuto dal principio Alles ist erlaubt (In arte tutto è lecito) e stimolato dal bisogno di approfondimento di ciò che vive al di là del fenomenico, vale a dire dalla volontà di andare oltre, per cogliere le energie della natura mediante il loro contatto con l’io più profondo (principio espresso, sia pur con altre parole, anche da Paul Klee).

Esiste tuttavia un’altra dimensione dell’Astrattismo che giunge a Parigi dall’Olanda nel 1911. E’ quella del De Stijl (Lo Stile) elaborata da Piet Mondrian. Un astrattismo di sapore calvinista tanto è il rigore con cui pone la regola, la geometria e l’ordine alla base di ogni esperienza visiva. Esso si scaglia contro le passioni e i turbamenti sentimentali, attraverso un processo di spersonalizzazione di se stessi a vantaggio dell’assoluta oggettività dell’idea.

Il principio generale dell’astrazione, intesa, lo ripetiamo, come aniconicità (perché esiste anche un’astrazione figurativa: si pensi a quella prodotta dalle civiltà arcaiche sumere ed egizie o a quella bizantina, per intenderci), si estende, nel doppio filone kandinskijano e mondrianiano, in Russia dove si associa al già presente Cubo-Futurismo. Nascono così altre esperienze linguistiche che vanno sotto i nomi di Raggismo (Michail Larionov e Natalja Goncarova), Costruttivismo (Vladimir Tatlin), Suprematismo (Kasimir Malevic).

Un’avanguardia che più che produrre opere produce idee ma la cui importanza teorica avrà, anche nella seconda metà del XX secolo e continua ad avere oggi, conseguenze di ogni genere, è il provocatorio (quanto e più del Futurismo che ne è stato, in qualche modo, il precedente) Dadaismo. Esso deriva dalla parola dada che, ci hanno assicurato tanto il filosofo Hugo Ball quanto il poeta Tristan Tzarà che ne sono stati i padri teorici, non significa nulla. Nato a Zurigo nel 1916 presso il Cabaret Voltaire che stava al numero uno della Spielgasse (pochi numeri dopo, al dodici, abitavano Lenin e la sua compagna, la Krupskaija, esuli in Svizzera), esso si distingue per una totale e violenta negazione intellettuale, che rifiuta tutto, a cominciare dall’arte per finire con lo stesso Dadaismo, cioè con se stesso.

A favore della sfrenata libertà individuale, della più assoluta spontaneità, dell’immediatezza, dell’antistoricità, Dada è contro ogni forma di asservimento, sia pure quella di Dada su Dada. Nota giustamente De Micheli che, più che una tendenza artistica, il Dadaismo è una disposizione dello spirito e che il gesto conta più dell’opera. Tra i suoi esponenti più autorevoli Marcel Duchamp, Francis Picabia, Max Ernst, Hans Arp.

Infine l’ultima avanguardia, il Surrealismo, il cui primo manifesto risale al 1924, redatto da André Breton, muovendo dalle teorie freudiane sull’inconscio, sostiene l’importanza dell’automatismo psichico nel meccanismo formativo delle opere, nonché l’individuazione, dice Breton, di una sur-realité, ovverosia di una dimensione superiore in cui realtà e sogno cessano di essere contrapposte e dicotomiche per comporsi in una realtà nuova.

Esso vive almeno tre fasi che lo conducono fin dentro l’evento della seconda guerra mondiale e si invera in differenti soluzioni stilistiche rappresentate da diversi autori fra cui Max Ernst, Yves Tanguy, Salvador Dalì, René Magritte, Paul Delavux, Victor Brauner ed altri. Dello spagnolo Joan Mirò, Breton dice: “Egli è stato il più surrealista di tutti noi” mentre, in realtà, la sua posizione, rispetto al movimento, risulta marginale e atipica, ancorché, per qualche verso, tangenziale.

Una sorta di antecedente ideale del Surrealismo è invece la pittura di Giorgio De Chirico, nonostante l’artista italiano, con la sua Metafisica e con il suo andare continuamente all’indietro verso le memorie dell’antico e dell’arcaico, sostanzialmente proceda controcorrente rispetto all’evoluzione hegeliana delle avanguardie.

Le quali, pur nel loro inarrestabile procedere in avanti, si trovano ad operare accanto a situazioni di sospensioni e di ripensamenti, come appunto la pittura dello stesso De Chirico; come il cosiddetto Ritorno all’Ordine, consistente nel ripristino di una figurazione di impostazione tradizionale in opposizione alle esperienze avanguardistiche; come l’esperienza italiana di Ca’ Pesaro; come l’azione di diversi grandi autori isolati; come la prima esperienza dell’Ecole de Paris, ecc.

* * *

La seconda guerra mondiale ha lasciato, dopo più di un quinquennio di conflitti, in Europa e in altre parti del globo, situazioni gravi, ferite dolorose, nella realtà socioeconomica ma anche in quella ideale e culturale, di molte nazioni. Gli intellettuali hanno perduto ogni fiducia nelle capacità dell’uomo di gestirsi ed è sceso in essi una sorta di disincanto, favorito anche dal diffondersi della filosofia esistenzialista che si impossessa degli uomini di pensiero europei – soprattutto degli artisti – i quali hanno dinanzi agli occhi le conseguenze materiali (distruzioni, lutti) della guerra.

La perdita di fiducia riguarda anche il sentimento delle cose e delle loro immagini. Sicché la pittura si orienta verso il superamento della forma espresso attraverso un indirizzo definito Informale, il quale, a sua volta, si ripartisce in tre ordini: Materico (che recupera il principio ilozoistico, cioè della materia vivente, che era stato proprio delle scuole filosofiche presocratiche e poi ripreso nel Rinascimento da Telesio, Bruno e Campanella); Segnico (il segno vale per ciò che è, senza rimandi ad altro da sé); Gestuale (il segno si identifica, secondo Gillo Dorfles, con “la velocità dell’esecuzione e con l’impulso cinetico ad essa dato”).

L’Informale, soprattutto quello materico, fu definito anche Espressionismo astratto. Questa denominazione ci consente una riflessione e cioè che, anche dopo la seconda metà del secolo, i punti di riferimento di base sono sempre le avanguardie storiche. Esse vengono sviluppate, innovate, frantumate in una congerie di linguaggi ancor più numerosi, tanto da rendere quasi impossibile una loro enumerazione completa ed una elencazione esaustiva.

Il processo che era stato messo in atto da quella forza centrifuga di cui abbiamo già parlato è in continua accelerazione e scaglia attorno a sé frammenti in quantità sempre maggiore: ognuno di essi diventa una modalità del dire visivo ed è capace di ridividersi a sua volta, in un processo apparentemente senza fine. Ma tutto ciò avviene in conseguenza dei dettati linguistici fondamentali delle grandi Avanguardie le quali restano al fondo di ogni composizione grammaticale e sintattica nuova.

Ognuna di queste ultime modalità, inoltre, tende non solo e non tanto a ricondursi ad uno specifico riferimento avanguardistico ma cerca di essere un compendio di tutti. Infatti, nei nuovi linguaggi, è facile rintracciare le stimmate di più d’una avanguardia anche se, magari, con la chiara prevalenza di una sulle altre. A parte ciò, alcune di esse, come l’Espressionismo, per esempio, oppure il Surrealismo o il Dadaismo, risultano essere sopravvissute, più delle altre, alle morti storiche dei propri movimenti trasformati in modalità dell’essere e in atteggiamenti dello spirito.
Come dicevamo sopra, elencare tutti i vari movimenti, le correnti, le linee di sviluppo delle avanguardie storiche – metabolizzate e tradotte in innovazioni espressive – prodotti nella seconda metà del secolo, è pressoché impossibile.

Così come lo è indicare le tante personalità che, sia riferendosi propriamente ad antecedenti avanguardistici sia elaborando specifici e più autonomi alfabeti, hanno contribuito ad arricchire vieppiù il già di per sé ricco panorama lessicale del secondo Novecento (visto che l’evento espositivo di cui ci occupiamo si svolge nelle Marche, ci sembra opportuno ricordare l’apporto di grande rilevanza che hanno offerto alcuni artisti marchigiani linguisticamente piuttosto tangenziali rispetto ad indirizzi avanguardistici precisi, come Osvaldo Licini, Pericle Fazzini, Corrado Cagli, Edgardo Mannucci, Giò e Arnaldo Pomodoro, Valeriano Trubbiani, tanto per citare qualche nome). Ci atteniamo pertanto alla messa in evidenza di una linea base di percorso che consenta di comprendere il senso dello sviluppo dell’arte in mezzo al proliferare di tante lingue che persino la biblica Torre di Babele avrebbe faticato a registrare.

La linea è questa: almeno fino all’Arte concettuale, ovvero fino alla fine degli anni Settanta, più o meno, prevale una sorta di equazione che identifica il portato qualitativo dell’opera con il suo quoziente di invenzione linguistica. Come a dire: se il sistema lessicale è nuovo e inusitato, esiste di certo in esso la qualità. Il risultato negativo di questa asserzione è che, molto spesso, la trovatina viene scambiata per valore.

In ogni caso il procedere (attraverso la Body Art, la Land Art, l’Arte Povera, l’Environment, le Installazioni, l’Arte Comportamentale) verso l’estremizzazione concettuale, vale a dire (come esasperazione dei postulati dada duchampiani) verso la graduale sparizione dell’oggetto a favore del primato della dimensione mentale e quindi in direzione di un’arte che sia idea, al massimo definizione dei suoi strumenti, analisi linguistica dettagliata, conoscenza mediante il pensiero e non più attraverso la materialità dell’opera, determina una crisi profonda nel sistema dell’arte e conseguentemente fa nascere la necessità di una svolta radicale, in mancanza della quale si profila all’orizzonte il rischio di una scomparsa della stessa natura dell’arte, almeno così come – pur nelle infinite varianti ermeneutiche – essa si è andata sviluppando e consolidando dalla Preistoria al Novecento.

Anche il mercato – da sempre componente rilevante del sistema dell’arte – entra in gioco in questa situazione di crisi. La radicalizzazione concettuale a favore dell’idea, tesa alla negazione d’ogni valore dell’opera, gli sottrae la materia prima su cui costruisce la sua ragion d’essere. Al massimo ora esso può occuparsi dei surrogati (fotografie o filmati) dell’effimero, come le azioni, gli environment, gli happening, ma si tratta di ben poca cosa rispetto alla dimensione economica che ne sosteneva prima il sistema. E’ un po’ come se l’apparato commerciale delle gioiellerie – a seguito d’una scomparsa improvvisa dei manufatti d’oro e di altri materiali preziosi – si riducesse a vendere la bigiotteria, anche se di pregio.

Di tutto ciò prende atto un critico italiano di grande talento, Achille Bonito Oliva, il quale comprende che l’estremizzazione concettuale deve pur avere un punto terminale da cui far ripartire l’intero processo. Ma come? Volgendo lo sguardo indietro, recuperando le vecchie tecniche della pittura e della scultura rese obsolete dall’acuirsi avanguardistico, rimettendo in gioco, anzi al centro di esso, la materialità dell’opera. Egli teorizza una sorta di lateralità e di nomadismo dell’artista rispetto al farsi dell’arte e al divenire della storia. Lateralità e nomadismo che consentono all’operatore di guardare ai modelli del passato – non importa di quale epoca – e di riproporli, anche ecletticamente mixati, purché filtrati sempre attraverso la sensibilità del proprio tempo.

Si instaura così, all’inizio degli anni Ottanta (la teorizzazione bonito-oliviana è iniziata sul finire del decennio Settanta) un clima post-moderno all’interno del quale riaffiorano le istanze ideali, formali e cromatiche dell’Espressionismo, ivi comprese quelle del suo esordio fauve. La parola d’ordine è: recuperare l’opera, ridarle un senso mediante la riproposta del sentimento, esprimere ciò che si ha da dire in modo diretto, elementare, finanche semplicistico e sgrammaticato, se si sono dimenticate le regole della fine dizione, ma tornare a farsi intendere con le opere pittoriche e scultoree presentate nella loro materialità.

E’ la “rivoluzione”, a ritroso se si vuole, della Transavanguardia la quale, partita dall’Italia, dilaga nel mondo ed ovunque attecchisce con poche e non particolarmente significative varianti nazionali. Globale era stata la crisi determinata dall’arte concettuale, altrettanto globale ne è la risposta. I primi artisti che rappresentano il nuovo corso, nella sezione Aperto della Biennale di Venezia del 1980, curata da Bonito Oliva, sono Francesco Clemente, Sandro Chia, Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Mimmo Paladino.

Costoro sono e restano i pilastri fondanti dell’importantissimo evento internazionale. Ad essi si affiancano altre esperienze pressoché analoghe come quella dei Nuovi Nuovi (Luigi Ontani, Salvo, A. Spoldi) tenuti a battesimo da Renato Barilli e operanti tra “tecnologie e citazione”; oppure quella dei Neue Wilden (Nuovi Selvaggi), affermatasi a Berlino con George Baselitz, A. R. Penk, Markus Lüpertz e i più giovani Rainer Fetting, Werner Büttner, Bernd Zimmer ed altri.

La legittimazione a far propri elementi stilistici ovunque carpiti, da qualsiasi epoca storica, apre la strada alla “citazione” come connotato caratterizzante della produzione artistica. Già nel passato, periodicamente, la Storia dell’Arte ha conosciuto momenti citazionisti, intesi come rivisitazioni di epoche e di stili precedenti: alcuni di questi episodi hanno anche assunto una rilevanza qualitativa di spessore. Certe volte – come nel nostro momento storico – il ricorso alla citazione è dovuto probabilmente alla carenza d’una carica creativa originale che obbliga a rifugiarsi nell’interpretazione di soluzioni già sperimentate (d’altra parte ciò non accade oggi soltanto con le arti visive: si pensi, per esempio, al dilagare delle “riscritture” in campo teatrale e musicale).

Dunque, si diceva, la “citazione” diventa la protagonista del processo creativo. Ecco allora una nuova corrente, teorizzata da Maurizio Calvesi, farsi avanti nella Biennale veneziana del 1984 con Alberto Abate, Roberto Barni, Ubaldo Bartolini, Stefano Di Stasio, Omar Galliani, Carlo Maria Mariani e così via. Essa si dà il nome di Pittura Colta (si può citare soltanto essendo colti), si oppone decisamente all’avanguardia ormai diventata accademia e guarda con interesse ripropositivo alle tradizioni classica e manierista italiane, dando vita anche ad una seconda e più definita linea espressiva detta Nuova Maniera con Bruno D’Arcevia, Antonio D’Acchille, Floriano Ippoliti ed altri.

Con il trionfo del “citazionismo”, definito anche “Appropriation Art”, si interrompe dunque ogni rapporto con l’evoluzione tecnologica capace di elaborare sistemi linguistici nuovi? Abbiamo visto come le Neoavanguardie del dopoguerra abbiano utilizzato tutti i modi ed i materiali possibili per cercare di esprimere i sentimenti, le problematiche, le passioni, le emozioni, dell’epoca moderna. Spesso riuscendoci, qualche volta isterilizzandosi attorno all’ideuzza, altre volte invischiandosi tautologicamente sul proprio impianto strutturale (è il caso dell’Arte programmata in tutte le sue molteplici varianti in parallelo con l’Arte cinetica e quella visuale). Ma abbiamo anche visto che, alla fine, dopo averle provate tutte, sono state costrette ad issare una sorta di bandiera bianca ed a arrendersi dinanzi al dilagare di una cultura rivisitatrice del passato.

Eppure, nonostante ciò, qualche cosa di profondamente innovativo, in parallelo con le neoavanguardie e con questa impasse, è serpeggiato all’interno del Novecento. Mi riferisco all’uso dell’elettronica ai fini artistici. Già a partire dalla fine degli anni Cinquanta, il movimento Fluxus aveva mosso i primi passi introducendo la luce fisica nell’opera. Poi l’artista americano (di origini coreane) Nam June Paik aveva dichiarato che “il tubo catodico” sarebbe diventato “il pennello del futuro”, con ciò dando vita, praticamente, al fenomeno della Video Arte.

Nata quasi come tecnica di documentazione creativa delle performance concettuali, essa si è, via via, affrancata da ogni condizione di servizio e, favorita dallo sviluppo delle tecnologie digitali che consentono la manipolazione delle immagini, si è posta ben presto come forma di linguaggio autonomo, aprendosi un campo d’azione molto vasto. Mixando gli esiti statici della pittura tradizionale con quelli dinamici e narrativi del cinema e della televisione, questa nuova espressione sta raggiungendo risultati stupefacenti e del tutto inusuali. Che però rimandano anch’essi, in qualche modo, al passato.

Voglio dire che recuperare, nell’ambito del visivo, la narrazione avendo la possibilità di estrinsecarsi in spazi tanto chiusi quanto aperti, vede ingigantirsi la possibilità di raccontare ad un pubblico sempre più vasto, per esempio quello che si raduna nelle piazze e nelle vie urbane (cosa che già accade, nelle grandi città, con la comunicazione dinamica dei messaggi pubblicitari) oppure in luoghi chiusi o semichiusi, ma sempre di forte aggregazione. Un modo nuovo di portare l’arte alla gente più che la gente all’arte? Senza dubbio. Ma anche un modo antico che, servendosi di tecnologie modernissime, sembra riproporre l’esperienza medievale dei cicli narrativi biblici dipinti all’interno delle cattedrali, la quale fece dire a Papa Gregorio Magno, nel VI secolo, che la pittura altro non era che “scriptura pauperum”.

Forse è questo il testimone che il XX secolo lascia al XXI. E mentre rimane perfettamente lecito continuare ad operare servendosi delle tecniche tradizionali e ad elaborare gli esempi stilistici proposti dalle epoche passate, antiche e meno antiche, per esprimere le proprie poetiche individuali (così come il poeta fa, da sempre, mediante l’uso delle parole), altrettanto lecito – ed anche affascinante – è il pensare che la “pittura” elettronica potrebbe rappresentare una svolta millenaria, in grado di condurre verso obiettivi di creatività e di fruizione che allo stato non è neppure possibile immaginare. A ciò stanno lavorando Bill Viola, Dan Flavin, lo Studio Azzurro, Fabrizio Plessi e Mario Sasso: quest’ultimo, forse, con maggiore velocità tecnologica rispetto agli altri, ma anche con più sentita e partecipata adesione alla più pura delle tradizioni pittoriche.

Marco Ginesi - www.leggereil900.it/approfondimenti/scheda.php?id_iniziativa=105  


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte
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Aggiornamento: 13/05/2015