t.me/multipolare


Edizione settembre 2025


Pubblicizza questo libro come credi, anche facendone oggetto di commercio, ma se lo modifichi non attribuire a me cose che non ho mai detto, a meno che tu non pensi di contribuire alla causa di un socialismo davvero democratico.




MIKOS TARSIS


IL DIRITTO BIFORCUTO



In rapporto a capitalismo e socialismo


Sommo diritto, somma ingiustizia.


Marco Tullio Cicerone


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Nato a Milano nel 1954, laureatosi a Bologna in Filosofia nel 1977,

già docente di storia e filosofia, Mikos Tarsis (alias di Enrico Galavotti) si è interessato per tutta la vita a due principali argomenti:

Umanesimo Laico e Socialismo Democratico, che ha trattato in homolaicus.com.

Per contattarlo:

info@homolaicus.com

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Premessa




La parola feticismo nel lessico del socialismo scientifico significa “credere vere delle cose false”. Ma si potrebbe anche rovesciare: “credere false delle cose vere”.

Il feticismo del diritto è strettamente correlato al feticismo delle merci. Su questo Il capitale di Marx ha scritto pagine importanti. Non c’è uguaglianza formale sul mercato senza uguaglianza formale nel diritto, e viceversa. Nell’ambito del capitalismo diritto ed economia sono strettamente correlati.

Il problema vero però, cui bisogna cercare di trovare una risposta, è il seguente: che cosa ha di specifico il diritto borghese che non esisteva nei diritti precedenti, quelli di epoca schiavistica e feudale? Il libro deve cercare di rispondere a questa domanda.

Il testo cui faremo costante riferimento è quello di Evgenij B. Pašukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, la cui prima edizione in russo è del 1924 (tradotto dall’editore De Donato, Bari 1975, a cura di Umberto Cerroni, e ristampato da Pigreco nel 2022). Tutti gli altri verranno citati strada facendo. E in ogni caso l’autore ci è servito per andare oltre il suo pensiero.

Se poi qualcuno vuole approfondire la filosofia del diritto di questo eminente giurista sovietico, ucciso dal regime stalinista, può consultare altri testi1:

P. I. Stučka, E. B. Pašukanis, A. J. Vyšinskij, M. S. Strogovič, Teorie sovietiche del diritto, ed. Giuffrè, Milano 1964.

Marco Cossutta. Formalismo sovietico: delle teorie giuridiche di Vyšinskij, Stučka e Pašukanis, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1992.

Antonio Negri, Rileggendo Pašukanis: note di discussione, in La Forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, ed. Feltrinelli, Milano 1977.

Carlo Di Mascio, Pašukanis e la critica marxista del diritto borghese, Phasar Edizioni, Firenze 2013.

Carlo Di Mascio. Note su ‘Hegel. Stato e diritto’ di Evgeny Pashukanis, Phasar Edizioni, Firenze 2020.


Introduzione generale




La Russia è un Paese strano. Il meglio di sé lo dà quando dimostra d’essere “asiatica”, cioè diversa dalla cultura dell’Europa occidentale, una cultura che ha inventato il peggio dell’umanità, cioè lo schiavismo privato, il servaggio feudale e il capitalismo (soprattutto nella sua forma privata, in quanto quella statale ha coinciso, per lo più, con esperienze politiche dittatoriali), benché queste forme disumane di vita sociale siano state, in qualche maniera, combattute dal cristianesimo, dai movimenti pauperistici, dal socialismo (utopistico e scientifico).

Pare però che di questa sua tradizione “asiatica” la Russia si vergogni un po’, in quanto cerca di superare la cultura occidentale sul suo stesso terreno, come se fosse imprescindibile: quello tecnico-scientifico, economico-produttivo e teorico-letterario.

Senonché, in tale confronto, spesso la Russia perde, semplicemente perché le sue tradizioni borghesi sono troppo recenti per essere davvero influenti: non sono in grado di competere sino in fondo con la nostra perfidia, la nostra spregiudicatezza. Il loro capitalismo non potrebbe mai essere privato come il nostro: quando han cercato di diventare come noi, nel periodo di El’cin, sono andati in bancarotta in meno di un decennio.

D’altra parte la Russia non ha neppure mai avuto un sistema schiavistico minimamente paragonabile a quello romano o greco. E anche il servaggio feudale non si poneva certo come una forma di “contratto personale” tra sovrano e feudatari. In Europa occidentale, se un imperatore veniva accusato dal papa d’essere un eretico, subito i feudatari ne approfittavano per ampliare i loro poteri, mettendosi dalla parte della Chiesa.

E che dire della teologia? Quella ortodosso-russa non è solo inferiore a quella greco-bizantina, ma non presenta neppure alcuna forma di astrazione metafisica (come quella latina), e neppure è mai stata in grado di porre le basi per una laicizzazione di se stessa (come fece quella protestantica). Solo alla fine dell’impero zarista si può parlare di una teologia innovativa, ma perché era influenzata dalla filosofia esistenzialista. Il meglio di sé la Russia, sul piano religioso, l’ha dato a livello artistico e architettonico.

Paradossalmente la Russia europea cerca di vincere la sua partita contro l’occidente sfruttando le immense risorse che le offre la sua parte asiatica (oggi soprattutto energetiche, mentre ieri riguardavano il legname, le pellicce, ecc.).2 Il paradosso sta nel fatto che, nel mentre vuole essere come noi, sfrutta un’area geografica che è la più lontana dal nostro modo di vivere. Invece di dire a se stessa: “Vogliamo essere un Paese asiatico senza fare riferimento ad alcun modello capitalistico”, finisce col far vedere che a questo mondo siamo tutti uguali, salvo qualche variante sul tema dello sfruttamento della natura.

La Russia è un Paese lacerato, combattuto, destinato a passare da un estremo all’altro, incapace di darsi una propria identità: sente di essere diversa, ma la tentazione di voler diventare come noi inevitabilmente prevale. È difficile pensare che da questo Paese possa venir fuori una chiara alternativa al capitalismo, anche se con Lenin si erano poste delle basi molto serie e credibili.

Tale dicotomia si è rivelata ben visibile anche quando, subito dopo la rivoluzione bolscevica, era necessario affrontare il problema del “diritto”, cioè il problema di come rielaborare la nozione, sommamente ambigua, di “diritto democratico”, ereditata dalla cultura borghese.

La tradizione asiatica ha impedito alla Russia di darsi un’elaborazione rigorosa di dottrine giuridiche. Durante la rivoluzione bolscevica erano considerate poco importanti, in quanto si voleva azzerare tutto per ricominciare da capo; e sotto lo stalinismo il diritto era semplicemente un paravento per gestire la dittatura. Uno “Stato di diritto” inizia solo con Gorbačëv: infatti è sua la definizione, con la quale ha sostituito quella, illusoria e incongruente, di “Stato di tutto il popolo”, che l’URSS si era data al tempo della stagnazione.

La stessa filosofia russa si esprimeva soprattutto in forma letteraria: nelle novelle, nei romanzi, nei racconti favolistico-fantastici (peraltro, quest’ultimi, incredibilmente complessi, in rapporto al target di riferimento). Tutte le volte che affrontano un argomento astratto, i russi amano essere concreti. Sono molto diversi dai tedeschi o dai greci.

In occidente, abituati come siamo ai ragionamenti cavillosi, pedanti, metafisici, gli intellettuali vedono con sufficienza un atteggiamento come quello russo e non si preoccupano granché di capirlo o di valorizzarlo (salvo i cultori specializzati, ovviamente); sicché quando lo esaminano, lo fanno quasi sempre per criticarlo.

Forse il livello speculativo più avanzato della Russia è stato quello offerto dal marx-leninismo; tuttavia, siccome questo è stato vissuto sulla base di condizionamenti provenienti dall’area occidentale dell’Europa (lo stalinismo, infatti, fu una forma di “cesarismo”), quando ci si è accorti dei suoi grandi limiti (quelli appunto del socialismo statalizzato), i russi han pensato di sbarazzarsene molto velocemente, senza neppure preoccuparsi di sostituirlo con qualcosa di davvero alternativo. Semplicemente, con molta ingenuità, si è permesso alla cultura occidentale di penetrare in Russia come mai prima era stato fatto. E così dal cesarismo dello stalinismo, il quale, grazie alle tradizioni asiatiche (usate, purtroppo, solo in maniera strumentale), ambiva a porsi in alternativa all’occidente, si è passati a un cesarismo oligarchico, che (al tempo di El’cin) non aveva davvero nulla di diverso dai cesarismi che siamo abituati a vedere nelle aree occidentali del pianeta.

A questo capitalismo oligarchico ha poi dovuto porre un argine il successore di El’cin, Putin, che ha imposto una specie di capitalismo statale, cioè un capitalismo che nei suoi asset strategici (per es. energia, difesa ecc.) viene tenuto sotto controllo dalla politica governativa. Cosa che poi avviene anche in Cina, dove il controllo statale si estende anche alla terra.

Tuttavia l’ultima novità di rilievo, sul piano giuridico e culturale, è stata quella del periodo di Gorbačëv. Il putinismo, sul piano ideologico, assiologico, valoriale, non è che un ritorno al nazionalismo religioso di tipo ortodosso, non molto diverso da quello esistente prima della rivoluzione bolscevica, che, non a caso, viene definita dal putinismo come una specie di “anomalia storica” in un Paese come la Russia.


Quale transizione?




Una delle cose preliminari che bisognerebbe cercare di capire, sul piano del diritto, la si ricava da questa affermazione di Evgenij Bronislavovič Pašukanis (1891-1937): “Se, ai primi stadi dello sviluppo3, a generare la forma giuridica più primitiva, che troviamo nelle cosiddette leggi barbariche, è lo scambio di equivalenti in forma di taglione e di risarcimento del danno prodotto, nel futuro saranno i residui dello scambio di equivalenti nella sfera della distribuzione, che permangono anche nell’organizzazione socialista della produzione (fino alla transizione al comunismo avanzato)” (p. 55). Il pensiero è più lungo, ma questa citazione è sufficiente al nostro scopo.

Premettiamo, giusto en passant, che un’affermazione del genere lascia già presagire la tragica fine dell’autore nel corso delle purghe staliniane della seconda metà degli anni ’30. Infatti lo stalinismo, ideologia del socialismo statale, non poteva accettare lo scambio degli equivalenti nella sfera della circolazione delle merci. Lo Stato non solo controllava la proprietà dei principali mezzi produttivi, ma imponeva piani quinquennali per qualunque settore produttivo (cosa che a Pašukanis non piaceva); e a quello agricolo collettivizzato imponeva persino i prezzi delle derrate (il che voleva dire “abolire qualunque forma di mercato”).

Tuttavia la nostra domanda è un’altra: quali sono le condizioni perché una transizione dal socialismo al comunismo avvenga nel più breve tempo possibile? Cioè, dando per scontato che una transizione del genere non può essere imposta con la forza, quali sono i meccanismi sociali ed economici che la possono accelerare spontaneamente? Se si esclude a priori una qualunque forma “statalizzata” di socialismo, in quanto si è capito che una forma del genere non favorisce la democrazia ma la dittatura, quali alternative restano?

Qui non si può essere degli ingenui a credere che lo Stato possa favorire la suddetta transizione. Anzi, fino ad oggi, ovunque si sia affermato un “socialismo statale”, il potere politico ha fatto di tutto per ostacolarla, in quanto chi lo detiene non vuole essere sottoposto a giudizio, cioè è del tutto incapace di autocritica, oppure, nel migliore dei casi, tende a minimizzare i propri errori.

Un ente astratto come lo Stato non può tenere sotto controllo un organismo così altamente complesso come la società civile. L’uso di mezzi coercitivi diventa per forza di cose inevitabile. Uso e abuso si confondono, si equivalgono.

Bisogna quindi lasciare alla stessa popolazione il compito di autoregolamentarsi, evitando di illudersi che lo Stato possa essere un organo equidistante dagli interessi di parte. I cittadini vanno responsabilizzati su qualunque cosa, da quelle più piccole a quelle più grandi, da quelle della comunità locale a quelle trasversali alle varie comunità.

Uno potrebbe pensare che, per insegnare alla popolazione ad essere responsabile, sia necessaria la presenza di un’istituzione super partes. Ebbene, è sbagliato. La presenza in sé di una qualsivoglia istituzione favorisce inevitabilmente il meccanismo della delega, che, in ultima istanza, porta alla deresponsabilizzazione personale e collettiva. La delega ha senso se è limitata nel tempo, finalizzata a un obiettivo specifico e revocabile in qualunque momento. Inoltre il delegato deve essere vincolato al mandato ricevuto e il suo potere deve essere inversamente proporzionale alla distanza che lo separa dagli elettori, cioè tanto meno forte quanto più è lontano.

Che cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che il comunismo, se lo si pone come un obiettivo “futuro”, non vi è alcuna garanzia che si realizzi. Per avere questa garanzia, occorre che sia un obiettivo immediato, nel senso che, posta la proprietà sociale o collettiva dei principali4 mezzi produttivi, la loro corretta gestione va lasciata alla comunità locale. Tale comunità deve poter lavorare sul piano etico, basandosi su qualcosa che è già “comunistico” sul piano economico o sociale.

Solo là dove manca tale proprietà comune ci si può limitare a parlare di “socialismo”. Non a caso la parola “socialismo” viene tranquillamente usata nell’ambito del capitalismo occidentale (più europeo che americano). Già al tempo del nazionalsocialismo e del fascismo i leader di queste ideologie piccolo-borghesi si sentivano costretti, per ottenere ampi consensi, a inserire nelle loro piattaforme politiche taluni elementi che, sul piano ideologico, appartenevano, per tradizione, alle correnti socialiste o socialdemocratiche. Queste ideologie piccolo-borghesi non si facevano scrupoli a usare mezzi e metodi violenti e menzogne mediatiche, onde tutelare interessi economici dominanti.

Tuttavia, avendo a che fare con idee socialiste largamente diffuse nella società civile, sia il nazismo tedesco che il fascismo italiano dichiaravano di voler costruire una sorta di “capitalismo statale”, in cui lo Stato avrebbe sì tutelato gli interessi del grande capitale, ma non senza assicurare alle grandi masse un’esistenza dignitosa, migliore di quella che veniva garantita in Russia. Il che voleva dire, non potendo avere capra e cavoli, sponsorizzare idee di tipo colonialistico e imperialistico. Idee che non potevano essere realizzate se non rinunciando all’internazionalismo del socialismo occidentale (quello tipico della I e II Internazionale). Il socialismo piccolo-borghese del nazifascismo doveva per forza essere “nazionalistico” e quindi guerrafondaio.

Che poi, quando scoppiò la prima guerra mondiale, anche il socialismo internazionalista votò a favore dei crediti di guerra, facendo così capire che voleva difendere degli interessi nazionali (“patriottici”), opponendo il proprio proletariato a quello delle nazioni avversarie sul piano militare; e quindi evitando – come invece chiedeva Lenin – di trasformare la guerra imperialistica in guerra civile. Di qui la decisione dei bolscevichi di chiamarsi “comunisti” invece che “socialisti” o “socialdemocratici”.

A tutt’oggi in occidente si dà per scontato che qualunque ideologia socialista debba essere strettamente legata a interessi di tipo capitalistico. Questo tipo di socialismo non farà mai alcuna rivoluzione comunista. Anzi, da un socialismo del genere non ci si può aspettare un atteggiamento meno dittatoriale, meno guerrafondaio di quello che ebbero il nazismo e il fascismo.

Il che naturalmente non vuol dire che lo stalinismo fece bene a considerare come affini al fascismo gli esponenti occidentali del socialismo o della socialdemocrazia. Un’equiparazione così netta e categorica contribuì a impedire che si formassero dei fronti comuni tra socialisti e comunisti in opposizione al fascismo. Perché un partito possa essere qualificato come “fascista”, cioè violento, dittatoriale, ecc., bisogna dimostrarlo coi fatti, caso per caso, lasciando perdere le definizioni astratte, ideologiche.

Detto questo, ha senso parlare di “diritto comunista”? Diciamo che ha più senso parlare di “diritto socialista”, in quanto si presume che un diritto preveda dei “doveri”, e quindi la necessità che qualcuno faccia rispettare i doveri per tutelare i diritti di ognuno. Tuttavia chiunque si rende facilmente conto che se c’è qualcuno che, dall’esterno, impone il rispetto dei doveri (personali e collettivi), la democrazia non esiste né può formarsi, o comunque viene pesantemente minacciata, compromessa.

Un genitore potrà obbligare un figlio a rispettare determinati doveri, ma dovrà per forza allentare la presa, diminuendo le sue pretese, man mano che il figlio cresce, altrimenti rischierà di perderlo, trasformandolo in un nemico. Qui infatti non si sta parlando di persone “asimmetriche”, ma adulte, consapevoli di sé. Persone del genere non possono sopportare che qualcuno dica loro come comportarsi in una collettività libera, a meno che non commettano degli errori, per i quali non si può certo prevedere la pena di morte.

Un “diritto comunista” è quindi una contraddizione in termini. Nell’ambito del comunismo realizzato non è possibile rivendicare alcun diritto, poiché, se lo si facesse, lo si trasformerebbe, ipso facto, in un privilegio. La stessa idea di dover sottoporre qualcuno a dei “doveri”, implica di per sé una forzatura, una mancanza di fiducia, un’assenza di libertà. Diritti e doveri devono essere inclusi, in maniera spontanea, in un rapporto alla pari, in un rapporto naturale con le cose; e un rapporto del genere deve avere la sua base economica, in via preliminare, nella proprietà comune dei principali mezzi produttivi, quelli che garantiscono l’autosussistenza della comunità locale.

Purtroppo la cultura occidentale è lontanissima dal capire queste cose, proprio perché ha sempre collegato la libertà alla proprietà, e nell’uso di tale proprietà si prevede che il soggetto sia anzitutto individuale. Il che ovviamente non vuol dire che un capitalismo statale conduca più facilmente al comunismo. Pretendere di “controllare” le dinamiche borghesi o mercantili della società civile può essere fatto in nome del paternalismo, e questo può anche trasformarsi, in qualunque momento, per qualunque motivo, in una dittatura.


Le chiavi interpretative di Pašukanis




Nella “Premessa” alla seconda edizione del suo libro (la prima è del 1924) Pašukanis cerca di essere sintetico. Sarà stato forse per questo, ma il suo modo di esprimersi resta impreciso. Quando si parla di “denaro”, se non si fa distinzione tra società schiavistica e società capitalistica, si rischia di dire cose che possono generare equivoci.

Prendiamo ad es. questa affermazione: “In una società in cui esiste il denaro, nella quale, quindi, il lavoro privato individuale diventa sociale soltanto attraverso la mediazione dell’equivalente generale, sono già presenti le condizioni per l’esistenza della forma giuridica, con le sue contraddizioni tra soggettivo e obiettivo, privato e pubblico” (p. 56).

Un’affermazione del genere non spiega affatto la differenza tra schiavismo e capitalismo. Entrambe infatti sono “mercantili”, entrambe usano il denaro e il contratto. Il denaro svolgeva funzione di equivalente universale anche nella società greco-romana. Che fosse d’oro, d’argento, di bronzo o di rame non faceva molta differenza rispetto alle banconote e a tutti gli altri mezzi di pagamento tipici della società capitalistica. Così pure il diritto era un’ideologia specifica di quelle società antiche. Quello romano e bizantino è stato usato fino a Napoleone.

Nei mercati schiavistici si recavano persone giuridicamente libere o delegate da persone libere. Si potevano acquistare schiavi in senso fisico, materiale, come se fossero una qualunque merce. Si poteva acquistare la forza-lavoro di un salariato a giornata, che giuridicamente non era uno schiavo: era solo una persona priva di proprietà, e quindi molto povera. Se era capace di qualche mansione specifica, poteva fare il garzone presso una bottega artigiana, sperando, col tempo, di potersi mettere in proprio.

Lo schiavista faceva lavorare sui propri terreni gli schiavi che aveva comprato sul mercato, oppure li acquistava per esigenze personali (per es. come servo domestico o come insegnante per i propri figli o come gladiatore). Molti schiavi venivano acquistati da funzionari statali per svolgere mansioni di urbanizzazione, restauro, manutenzione delle infrastrutture. L’acquisto di uno schiavo da parte di una persona libera poteva essere convalidato da un contratto, quando non esisteva fiducia reciproca, oppure lo schiavo veniva marchiato con un segno indelebile sulla sua pelle, così come (anche in tempi recenti) gli allevatori facevano con le loro mandrie.

In quanto “schiavo” la sua socializzazione forzata era un fatto scontato: lavorava insieme ad altri schiavi. Se un agrario poteva permettersi di acquistare un certo numero di schiavi, molto facilmente mandava in rovina il piccolo produttore libero, che poteva basarsi unicamente sulle proprie forze.

I beni che produceva lo schiavo venivano venduti nei mercati. Era l’esistenza stessa del mercato basato sul denaro che escludeva tassativamente la preminenza dell’autoconsumo e quindi del semplice baratto delle eccedenze. Cioè l’autoconsumo di una famiglia contadina libera poteva anche esserci, ma la sua realtà era in via di dissoluzione. Infatti, laddove s’impone uno Stato schiavista, che favorisce chi possiede più terre e più lavoratori, e che premia chi si arruola nell’esercito, o che obbliga a farlo per sostenere guerre di conquista, è evidente che la piccola proprietà privata autogestita rischia di soccombere (si diventava schiavi anche soltanto per i debiti). Certo, uno può arruolarsi sperando d’ingrandire la propria terra, ma se in battaglia muore, la sua proprietà potrà essere assorbita da quella confinante, il cui proprietario è sopravvissuto, o aveva mezzi sufficienti per mandare a combattere i propri sottoposti, facendo loro qualche promessa.

Se il bene o il prodotto di una proprietà diventa “sociale” solo nel momento in cui su un mercato viene scambiato per avere denaro, possiamo star sicuri che la società è schiavistica (in forma o diretta o salariata) e che quindi è regolamentata dal diritto. In caso contrario il mercato serve soltanto nella forma del baratto.

Un bene scambiato con un altro bene, non può essere definito “merce”. È vero, nella società pre-schiavistica esisteva ugualmente un “mercato”, ma non esisteva uno scambio di equivalenti in cui il metro di misura fosse il denaro. Nel momento in cui si vende un bene per ottenere denaro, il bene diventa “merce”, l’autoconsumo è diventato irrilevante, l’antagonismo sociale si è imposto, e uno Stato produce leggi e denaro con cui difendere le classi dominanti. Cioè il momento della socializzazione avviene sul mercato tramite non lo scambio ma tramite il denaro.

Ciò implica che sul piano produttivo la socializzazione è stata radicalmente trasformata. Non si è più tutti allo stesso livello, ma c’è uno che dà ordini e gli altri li eseguono. Nello schiavismo la socializzazione produttiva esiste, ma perché viene imposta con la forza fisica. L’agrario è in grado di pagare delle persone che controllano il lavoro degli schiavi. Poi col tempo si formerà una borghesia più finanziaria che produttiva (gli equites romani), ma questo è un altro discorso, relativo soprattutto alle province colonizzate dell’impero.

Qui si vuole semplicemente precisare che in una società del genere il diritto scritto serve per garantire il possesso giuridico di una proprietà privata, nella quale sono inclusi anche gli schiavi. Ecco perché sugli schiavi il padrone ha diritto di vita e di morte: può punirli o premiarli, venderli o affittarli come e quando vuole; e se fuggono, è autorizzato a chiedere alle autorità costituite che vengano ricercati e persino uccisi, se non si lasciano catturare.

Lo schiavo è una merce come tante altre, oggetto di compravendita su un mercato. Non è il diritto che legittima lo scambio: è il mercato, che implica l’uso del denaro. Se manca il denaro, può esserci sì un mercato, ma solo nella forma del baratto, e quando si parla di baratto, si sottintendono le eccedenze, cioè il surplus che non si riesce a consumare e che non ha senso risparmiare. Si scambiano alla pari le rispettive eccedenze, in quanto per le cose sostanziali, necessarie alla propria sopravvivenza, si è autonomi, non si dipende dal mercato. E lo scambio alla pari avviene perché i due soggetti contraenti, conoscono il valore di entrambi i beni. Certo, è un valore approssimativo, ma sufficiente a realizzare lo scambio. È un valore che tiene conto del tempo di lavoro necessario a produrre un determinato oggetto, il livello di perfezione artigianale con cui è stato prodotto, la qualità dei materiali impiegati, la loro disponibilità o rarità, e così via.

Tutte queste conoscenze implicano una cosa fondamentale, che tra le due persone ci sia fiducia reciproca, cioè che non vi sia bisogno di un contratto giuridico scritto. Entrambe si conoscono e, di tanto in tanto, si frequentano. Il mercato del baratto era un ritrovo periodico. Se in un mercato del genere s’impone un oggetto universale equivalente, che serve per agevolare lo scambio, bisogna essere sicuri che tale oggetto possa essere prodotto da entrambi i contraenti, o che comunque tutti conoscano bene il suo valore effettivo, intrinseco, come per es. i semi di cacao nelle civiltà mesoamericane.

Infatti, se chi vende, pretende denaro in cambio del proprio prodotto, il baratto non esiste più e l’autoconsumo tenderà a scomparire. Prima o poi il più debole soccomberà al più forte; e a quel punto, per giustificare la propria forza, ci si servirà del diritto, delle leggi e naturalmente dello Stato e dei suoi organi repressivi.


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Dunque, se si guarda solo il momento dello scambio, non si riesce a capire perché la società schiavistica non si sia trasformata in società capitalistica.

Bisognerebbe partire da una semplice domanda, la cui risposta però ha richiesto molti secoli prima di essere capita: perché nello schiavismo non esiste la tecnologia tipica del capitalismo? Non può essere solo una questione di “determinazioni quantitative”. Cioè perché nel capitalismo la schiavitù non può essere “fisica” ma solo “salariata”? Ovvero perché nel capitalismo, quando la schiavitù appare di tipo “fisico” (come quella conseguente al colonialismo europeo), si pretende, dopo un certo tempo, che diventi “salariata”? Cos’è che fa scattare la riprovazione nei confronti di un certo modo di condurre l’esistenza? Qual è l’ideologia che si usa per favorire il passaggio dallo schiavismo (o anche solo dal servaggio feudale) alla schiavitù salariata, che naturalmente viene contrabbandata, con somma ipocrisia, per “libertà personale”? È il cristianesimo. Occorreva un’ideologia sofisticata, sufficientemente astratta e universalistica, che permettesse una superlativa ipocrisia.

Uno schiavo pre-cristiano (pagano) può ribellarsi alla sua condizione sociale, per poter tornare a vivere nel suo ambiente naturale della comunità primitiva, e lì condurre un’esistenza normale, pacifica, basata su autoconsumo e baratto delle eccedenze. Il paganesimo è sostanzialmente una religione locale e naturalistica, almeno nelle sue forme totemico-animistiche. Poi naturalmente diventa una religione classista quando si inventano una serie di divinità che comandano su tutte le altre, con un fare molto aristocratico e paternalistico.

Tuttavia uno schiavo con una coscienza cristiana, incapace di avere una strategia politico-rivoluzionaria, finisce col chiedere il superamento della sua schiavitù fisica (o del servaggio) soltanto per accettare quella salariata, come accadde al tempo della guerra civile negli Stati Uniti, allorché gli schiavi di origine africana nelle piantagioni dei bianchi, preferivano diventare liberi per arruolarsi nell’esercito dei “nordisti” o per andare a fare gli operai nelle loro industrie. Non avendo mezzi propri, potevano solo sperare che qualcuno li riscattasse sul piano finanziario; o potevano fuggire a loro rischio e pericolo; o potevano ribellarsi, alleandosi col nemico dei piantatori schiavisti. Ma quali possibilità avevano di diventare effettivamente liberi? Al massimo potevano diventarlo sul piano giuridico, cioè in maniera formale, venendo incontro all’esigenza di manodopera salariata che aveva la neonata industria capitalistica.

È dunque il capitalismo di religione cristiana che ha bisogno di persone giuridicamente libere, per poterle sfruttare in maniera salariata. Di qui la grande ambiguità del diritto civile, penale e costituzionale, che è formalmente cristiano e sostanzialmente borghese.

Il cristianesimo nasce duemila anni fa. Non viene riconosciuto dai poteri schiavistici per tre secoli. Poi, quando ci si accorge che trovare schiavi sui mercati era diventato molto difficile (poiché nei conflitti armati le legioni romane non erano più forti come un tempo, oppure perché i nemici lo erano diventati molto di più), si decide di trasformare lo schiavo in colono, cioè in persona avente determinati diritti, tra cui appunto quello di non credere nell’ideologia pagana (naturalmente sul piano sociale erano importanti il diritto di sposarsi, di trasmettere in eredità ai figli i propri beni, di trasformare in denaro il pagamento degli oneri, così da poter coltivare le derrate più richieste sui mercati, ecc.).

Il successivo passaggio dal colonato al servaggio feudale avviene in un contesto in cui l’ideologia dominante era diventata cristiana, al punto che il paganesimo era letteralmente proibito (cosa che avverrà con l’imperatore Teodosio). Tale passaggio è stato favorito dalle invasioni cosiddette “barbariche”, cioè da quelle popolazioni collettivistiche asiatiche (o germaniche) che non praticavano lo schiavismo come sistema sociale di vita, e che conoscevano gli elementi fondamentali del cristianesimo (di derivazione ariana). Che questo cristianesimo fosse ariano o ortodosso cambiava poco: la sua idea di fondo era che, di fronte a Dio, si è tutti uguali. Cioè, può anche esistere differenza nella proprietà dei mezzi produttivi, ma in definitiva si viene tutti giudicati da un medesimo Dio, che eserciterà un giudizio di tipo etico.

Naturalmente esistevano differenze tra una confessione cristiana e l’altra. Per es. l’arianesimo sottoponeva la Chiesa sotto il controllo politico del sovrano, mentre nell’ortodossia vi era una certa diarchia dei poteri istituzionali, per cui il controllo politico del sovrano non era così scontato (si pensi solo alla questione dell’iconoclastia).

Inoltre nell’Europa occidentale le popolazioni asiatiche (o germaniche) poterono penetrare molto facilmente, proprio perché qui i poteri dominanti non erano disposti a riconoscere l’egemonia culturale del cristianesimo con la stessa facilità che le popolazioni ebbero, a partire da Costantino, nell’area greco-bizantina. Cioè l’area occidentale era meno coesa, più frastagliata e quindi meno capace di difendersi. La sconfitta di quest’area occidentale dell’impero fu la sconfitta dello schiavismo privato rispetto al collettivismo asiatico, nonché del paganesimo rispetto al cristianesimo ariano. Poi in occidente quel collettivismo si trasformò in servaggio e l’arianesimo in cattolicesimo-romano (o latino).

Viceversa, l’area bizantina poté prosperare per un altro millennio proprio perché la popolazione cristiana si riconosceva nel collettivismo ortodosso, favorito sia dal sovrano che dal primate di Costantinopoli, giudicato “primus inter pares”, essendo collegiale la direzione della cristianità. La società era feudale (nel senso che i proprietari terrieri fruivano di un certo potere), ma il ruolo del sovrano era quello di un monarca assoluto, non vincolato da rapporti di vassallaggio. E la Chiesa non ambiva ad avere un ruolo politico antagonista a quello imperiale, anzi, lo sosteneva sotto ogni punto di vista.

In questa società i commerci si svilupparono molto tranquillamente, ma la borghesia non poteva rivendicare un ruolo politico. L’impero bizantino non riuscì a essere conquistato dalle popolazioni asiatiche di religione ariana, ma da popolazioni di religione islamica e cattolico-romana. In ultima istanza si preferì il dominio islamico (prima degli arabi, poi dei turchi) a quello latino, poiché quest’ultimo veniva giudicato molto negativamente: una specie di cristianesimo “traditore”.

Ora, la domanda fondamentale cui bisogna trovare una risposta è la seguente: perché il capitalismo si è sviluppato nell’arretrato feudalesimo dell’Europa occidentale, in cui la religione dominante era il cattolicesimo-romano, e non si è sviluppato nella ricca area bizantina? Entrambe le confessioni erano cristiane, ma perché la società bizantina non diventò mai una società capitalistica?

Il motivo sta nel fatto che il diritto borghese ha potuto creare una democrazia formale proprio perché il diritto ecclesiastico-feudale (canonico) era basato su una falsità di fondo, quella di voler far credere che la Chiesa di Stato meritasse di diventare uno Stato della Chiesa, in quanto offriva una salvezza superiore a quella di qualunque sovrano.

La Chiesa romana, per bocca del suo pontefice e del suo alto clero, predicava l’uguaglianza degli uomini davanti a Dio e la piena disuguaglianza tra proprietari terrieri e servi della gleba, e tra gli stessi proprietari terrieri, privilegiava nettamente quelli ecclesiastici, e su questi ultimi voleva esercitare un controllo totale e incondizionato, come pretendeva un monarca assoluto (il pontefice) nei confronti di tutti gli altri sovrani (re o imperatori che fossero). Il pontefice si sentiva superiore a qualunque organo monocratico o collegiale in ambito laico ed ecclesiastico.

Di fronte a questi abusi e a queste contraddizioni molti imperatori e sovrani nazionali reagirono, ma chi davvero scardinò le fondamenta del sistema cattolico-feudale fu la classe borghese, che nacque intorno al Mille, istituendo dei Comuni autonomi.

La falsità del cristianesimo borghese fu inizialmente appoggiata dalla Chiesa romana, che poteva strumentalizzarlo in chiave anti-imperiale. La stessa borghesia era soddisfatta di questo appoggio. Quindi, se non si può dire che sia stata la Chiesa romana a porre direttamente le basi della società borghese, bisogna però dire che, nella fase iniziale dello sviluppo di questa società, essa non fece nulla per opporvisi. A svolgere questo compito oppositivo erano solo i movimenti pauperistici, che però il papato, definendoli “ereticali”, sterminò piuttosto facilmente.

I problemi vennero fuori quando la borghesia cominciò a reclamare anche un potere politico. La borghesia lo pretendeva perché il capitalismo non poteva limitarsi a essere di tipo artigianale-commerciale o mercantile-monetario o di semplice manifattura. Il capitalismo voleva industrializzarsi e produrre oggetti in serie. Tutte le cosiddette “riforme protestanti” e tutte le rivoluzioni nazionali gestite dalla borghesia sono servite per dare al capitalismo una veste industriale, il più possibile autonoma da controlli politico-statuali. Se controlli dovevano esserci, non potevano che favorire lo sviluppo dello stesso capitalismo.

A partire da questo momento (cui la Chiesa romana si oppose con la Controriforma) tutti dovevano considerarsi giuridicamente liberi, anche se socialmente molti sarebbero stati costretti a subire dei rapporti salariati. La conseguenza più evidente di questa libertà fittizia è stata che tra un proprietario e un nullatenente, giuridicamente libero, occorreva una macchina per sfruttarlo. Cioè non bastava il diritto contrattuale. Ci volevano macchine che, in un sistema di crescente competizione economica, dovevano essere perfezionate continuamente.

In virtù di questa tecnologia il capitalismo fece (e ancora oggi fa) aumentare enormemente il benessere, anche a costo di distruggere la natura. Per poter fronteggiare la concorrenza, il capitalismo non ha pace, essendo perennemente alla ricerca di risorse umane e naturali da sfruttare. Si entra in un circolo vizioso (il crescente benessere non diminuisce lo sfruttamento ma l’accentua), da cui è possibile uscire solo con una rivoluzione dell’intero sistema, sul piano sia politico che economico.

Tuttavia una rivoluzione del genere non può pretendere di conservare una tecnologia nata in ambito capitalistico. Cioè anche se si elimina lo sfruttamento del lavoro, attraverso la proprietà comune dei principali mezzi produttivi, resta sempre il problema di come garantire alla natura il diritto alla riproduzione secondo i propri ritmi.


Forma e contenuto del diritto




La filosofia dell’economia, nell’ambito del capitalismo, si chiama diritto. Il diritto ha queste due caratteristiche: difendere degli interessi e imporre dei doveri.

Gli interessi che difende sono quelli delle classi dominanti, anche se formalmente sembra che difenda gli interessi di tutti. Di fronte alla legge non si è forse tutti uguali? Come in campo religioso lo si è davanti a un dio. Di fatto però i doveri che la legge impone riguardano solo le classi inferiori o subordinate, a meno che non vi siano scontri tra “potentati”, per una diversa spartizione del potere.

Nel capitalismo bisogna sempre distinguere tra forma e contenuto. La forma è generale o astratta; il contenuto è invece specifico. Il più delle volte i due aspetti sono in contraddizione tra loro. Il che riflette una contraddizione ancora più grande, quella tra schiavitù reale (fisica, tributaria o salariata) e democrazia formale.

La democrazia formale non è che il paravento che si danno i rapporti sociali antagonistici basati sulla proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi, quelli che permettono la sussistenza di una determinata collettività. In tal senso la democrazia reale non è altro che il processo politico con cui si elimina l’appropriazione privata di tali mezzi. Il che però non vuol dire che l’espropriazione debba coincidere con la forma della “statalizzazione”, poiché lo Stato è uno degli strumenti politici della classe borghese.

La proprietà dei principali mezzi produttivi deve tornare ad essere quella ch’era un tempo: una proprietà sociale (o pubblica) condivisa da tutti gli elementi di una collettività. In tale contesto il diritto, inteso come tutela di determinati interessi e imposizione di determinati doveri, ha poco senso. Infatti diritti e doveri, interessi e bisogni sono tutti aspetti, personali e collettivi, che dovrebbero confondersi tra loro, condizionandosi reciprocamente.

Quando un soggetto si sente parte di un collettivo, avverte inevitabilmente che tutto quanto appartiene al collettivo, appartiene anche a se stesso. La proprietà – viene detto – è “indivisa”. Se esiste un qualche “regolamento”, riguarda unicamente delle norme comportamentali di base, che però si possono acquisire anche con la sola esperienza, limitandosi a frequentare la comunità che le mette in pratica.

La scrittura, in un’esperienza del genere, ha un’importanza molto relativa. Non è certamente la scrittura che “regolamenta” un’esperienza. È sufficiente il rapporto umano diretto, non mediato da nulla, cioè lo scambio naturale, spontaneo, di pareri, opinioni e una presa comune di decisioni (o comunque maggioritaria). Tali decisioni non sono mai irrevocabili, anche se, nel mentre vengono prese, sono vincolanti.

Si discute e si decide: questa è la vita di una comunità dove le cose, che le permettono di sopravvivere, sono compartecipate, alla portata di tutti. Se esiste qualcosa di scritto, deve essere facilmente comprensibile da parte di tutti. E comunque bisogna sempre stare attenti che non sorgano degli intellettuali che interpretano le regole comuni in maniera arbitraria e che pretendano d’imporle sugli altri. Sappiamo bene che la presenza stessa della scrittura autorizza a sospettare che all’interno della comunità vi siano differenze a livello intellettuale.

La scrittura è qualcosa di complicato, che si pone come un filtro tra i rapporti umani e impedisce un confronto diretto, alla pari. È una forma di aristocraticismo. Piuttosto è l’esperienza che deve decidere come sia meglio vivere; non possono essere delle parole scritte, poiché, appena vengono messe su carta, congelano l’esperienza, la fossilizzano, mentre la bellezza della persona umana sta nel carattere mutevole della sua libertà di coscienza e nell’ambiguità semantica delle parole che usa.

Dare a ogni espressione verbale un significato letterale e uno simbolico, è una delle cose più interessanti del genere umano. Forse le uniche parole che meritano d’essere scritte sono quelle poetiche, che possono essere recitate o cantate. Ma andrebbero imparate a memoria e usate davanti a un pubblico. Anche le fiabe ancestrali hanno un loro incredibile fascino.


Diritto ed economia




Quando nel sistema capitalistico si isola il diritto dall’economia, gli ingenui pensano che il diritto abbia qualcosa di “oggettivo”. Per es. gli operai sanno d’essere sfruttati sul piano economico-produttivo, ma, attraverso i sindacati, che li tutelano sul piano giuridico, s’illudono d’esserlo di meno. Il rinnovo dei contratti offre la percezione che la tutela sindacale sia sufficiente per sopportare meglio lo sfruttamento economico.

Il che ovviamente non vuol dire che la lotta sindacale non sia giusta. Semplicemente bisogna saper distinguere tattica da strategia, riforma da rivoluzione, successo particolare (una battaglia) da conquista generale (la guerra).

Si può passare da una coscienza sindacale (settoriale, categoriale) a una coscienza politica generale e persino a una consapevolezza rivoluzionaria? Certo che si può, ma bisogna saper leggere la realtà complessiva, capire esattamente quali sono i rapporti di forza in campo. È infatti evidente che la reazione del capitale di fronte a una rivendicazione sindacale sarà molto diversa da quella di fronte a un tentativo insurrezionale.

La contestazione sindacale, eminentemente giuridica, serve come “scuola di resistenza”, ma se ci si prepara a ribaltare il sistema, bisogna abituarsi all’idea di finire in clandestinità, nell’anonimato. E una volta che si è scelta una strada del genere, bisogna aspettarsi di tutto: esilio, prigione, torture, tradimenti, omicidi, gravi minacce a parenti, amici, compagni di lotta… Forse per questo Lenin, quando i bolscevichi decisero di rovesciare il governo di Kerensky, disse: “Se non lo facciamo adesso, approfittando della sua debolezza, ci uccideranno tutti”.

Prendiamo come esempio Gesù Cristo, che ho studiato nei suoi aspetti eversivi. Dopo il primo tentativo insurrezionale (quello contro il Tempio) fu costretto a espatriare dalla Giudea. Scelse la Galilea non solo perché qui aveva degli appoggi significativi, ma anche perché la giurisdizione era diversa: vi comandava Erode Antipa, non Pilato (e il suo alleato Caifa).

Fu poi costretto a nascondersi in Perea (o Transgiordania) per non essere catturato. Assassinarono Lazzaro, suo compagno di lotta, sperando che lui uscisse dalla Perea; cosa che fece, ma con molta circospezione. Continuamente cercavano di linciarlo sul posto quando negava alla religione un valore liberatorio o salvifico. Si recava a Gerusalemme solo in occasione delle grandi feste, spesso in incognito, quando, a causa dell’affluenza massiccia, non era facile catturarlo; e, se si esponeva in pubblico, non lo faceva mai da solo, ma protetto da un servizio d’ordine. Per non sentirsi ricattato nei suoi legami di sangue o affettivi, affermava che i suoi unici parenti erano i suoi seguaci. Per non apparire troppo diretto nel linguaggio, usava metafore, similitudini, allusioni simboliche. Fu tradito da un discepolo, nel momento più inaspettato, cioè quando era pronto a occupare la Fortezza Antonia, e si consegnò ottenendo in cambio la liberazione dei suoi seguaci.

Insomma, era sì un uomo determinato, volitivo, ma anche prudente, accorto, di larghe vedute, altruista. Certamente voleva un’insurrezione contro i Romani e i collaborazionisti sadducei, ma a condizione che fosse “popolare”, non un colpo di stato. A Gerusalemme, pur avendo una largo seguito di persone armate, entra in groppa a un asino non a un cavallo (come invece avrebbe fatto qualunque generale romano). Sapeva bene che la reazione di Roma, di fronte a un’insurrezione popolare e nazionale, sarebbe stata durissima, per cui bisognava assolutamente restare uniti.

Penso che, in soldoni, gli unici messaggi ideopolitici del suo messaggio siano stati i seguenti:

1- piena liberà di coscienza nelle questioni religiose;

2- piena equiparazione di tutte le etnie e nazionalità della regione (la Palestina);

3- piena affermazione della proprietà comune dei mezzi produttivi;

4- piena affermazione dell’uguaglianza di genere.

Erano quattro princìpi assolutamente rivoluzionari, nessuno dei quali, dopo duemila anni di storia, è ancora stato realizzato in maniera concreta e definitiva.

Ad essi si dovrebbe aggiungere un quinto aspetto di natura geostrategica, stando ai viaggi compiuti nella Decapoli e nel Libano: per combattere l’imperialismo romano bisognava andare oltre la differenza tra ebraismo e paganesimo.

Tutto deve partire dall’interno




Nell’Introduzione generale al suo libro c’è già tutto il suo pensiero. Pašukanis aveva capacità sintetiche. Studiava filosofia del diritto per dire che il diritto doveva scomparire, e con esso lo Stato. Era un visionario e non poteva certo andare d’accordo con lo stalinismo, per il quale lo Stato andava rafforzato sempre più per vincere i “nemici del popolo”, una categoria ideologica e politica, nei confronti della quale il diritto era solo un instrumentum regni.

Paradossalmente anche sotto lo stalinismo il diritto sembrava essere scomparso (tant’è che Gorbačëv dovette rinominare lo “Stato di tutto il popolo” in “Stato di diritto”). Ma era scomparso sulla base di mezzi, metodi e finalità che Pašukanis non poteva accettare.

Aveva capito che Marx, nell’ultimo periodo della sua vita (a partire dalla Critica del programma di Gotha, nel 1875) si era stancato di analizzare il capitalismo e aveva smesso d’illudersi che dal capitalismo potesse scaturire una transizione verso un autentico socialismo. Stava cioè cercando un’alternativa al capitalismo che superasse tutti i condizionamenti dello stesso capitalismo. Riteneva che la transizione al socialismo, partendo dalle basi del capitalismo, sarebbe stata molto lunga, troppo lunga per la sua esistenza personale. Ecco perché negli ultimissimi anni della sua vita si mise a studiare l’etno-antropologia. Gli sembrava d’aver intuito, nella sua genialità, una cosa che nella sua vita non aveva mai approfondito a sufficienza: l’importanza del valore d’uso nelle comunità primitive, pre-schiavistiche.

Anche Pašukanis sembra essersi accorto di questa svolta, ma si limita a constatarla. In pratica fa questo ragionamento: finché esiste uno scambio di equivalenti (nel senso che a un determinato lavoro corrisponde una certa remunerazione), dal diritto e dallo Stato (che gli è necessariamente correlato) non si esce, anche se non esiste più un conflitto di classe generato dalla proprietà privata dei mezzi produttivi. È vero, ma qual è la conclusione? Pašukanis purtroppo non la trae.

Invece bisogna chiedersi, da subito: quali sono le condizioni pratiche, operative, per andare oltre lo scambio paritetico degli equivalenti? Il risultato finale della rivoluzione o della transizione non può essere frutto di una percezione soggettiva, né di un decreto imposto dall’alto; e neppure ha senso aspettarsi che la società socialista diventi così ricca o produttiva da favorire la possibilità di lavorare molto meno e di affidarsi molto di più all’automazione tecnologica.

La garanzia che la transizione al socialismo democratico avvenga con sicurezza, deve essere fornita il più presto possibile, lasciando alla popolazione il diritto-dovere di gestirla come meglio crede. Quando si fa una rivoluzione popolare sulla base di pochi princìpi fondamentali, bisogna dare alla popolazione il compito di farli rispettare.

Ognuno deve assumersi le sue responsabilità, a titolo personale e come appartenente a un collettivo. I rapporti antagonistici non si sono affermati nella storia dell’umanità perché qualcuno aveva la forza per imporli. Le concezioni schiavistiche non sono nate al di fuori di un contesto comunitario. Si sono sviluppate semplicemente esercitando la facoltà di parlare, di pensare, di confrontarsi liberamente su opinioni diverse. Dopodiché si sono prese delle decisioni.

Oggi si deve fare il processo inverso, sicuramente molto più faticoso (anche perché il tempo non passa mai invano): all’interno di società antagonistiche si devono porre le condizioni, morali e materiali, che favoriscono un’alternativa verso qualcosa di molto diverso. Non ha alcun senso aspettarsi l’arrivo di un “messia”, cioè una soluzione “miracolosa”, dall’esterno dei problemi conflittuali.

Ecco, da questo punto di vista, anche se può sembrare paradossale, è più facile togliere all’antagonismo sociale la sua base materiale (trasformando da privata a pubblica la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi) che non superare la sua decadenza sul piano morale.

Eliminare i valori e i comportamenti tipici dell’individualismo, del cinismo, dell’egoismo, dell’indifferenza, del fanatismo ecc., non è un’operazione semplice. Anzi è quasi impossibile che uno possa riuscirvi da solo. Bisognerà sapersi controllare a vicenda, senza ferirsi eccessivamente quando si sbaglia, poiché la suscettibilità umana è sempre incredibilmente complessa da gestire. Bisognerà fare in modo che un errore non comprometta in maniera disastrosa un faticoso lavoro di aggregazione, di riconciliazione, che sicuramente avrà richiesto molto tempo.

Lavorare sui rapporti umani è infinitamente più complicato che trasformare le cose per ottenere oggetti di uso quotidiano. La coscienza morale non nasce mai spontaneamente: richiede sempre un certo lavoro su di sé, in cui la relazione sociale gioca un ruolo insostituibile, di grandissimo peso.


Regolare o regolamentare?




I rapporti sociali sono in grado di regolare se stessi senza darsi una veste giuridica? In genere nelle lingue europee si fa una certa distinzione tra “regolare” e “regolamentare”.

Se usiamo la forma riflessiva, “regolarsi”, non si presume un “regolamento”, che in genere è scritto. Uno si può regolare semplicemente col buon senso, ancor meglio se maturato con l’esperienza. A maggior ragione ciò dovrebbe esser vero in una comunità.

Certo, ci si può anche “autoregolamentare”, ma a che servirebbe darsi un regolamento scritto quando, per imparare a convivere in un collettivo, basta guardare ciò che fanno gli altri? Le cose s’imparano strada facendo. Si possono fare degli errori, anche imitando gli altri, ma ciò che più importa è saperli correggere.

Una collettività naturale, che rispetta le esigenze riproduttive della natura e che condivide la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi, non ha bisogno di darsi un regolamento scritto, neanche se fosse molto numerosa. Al massimo potrebbe darsi un regolamento tecnico, relativo alle mansioni da compiere, ma questa cosa – lo capisce chiunque – soddisfa un senso di giustizia piuttosto elementare, superficiale.

È la natura e la vita in comune che danno a ogni individuo le regole che deve mettere in pratica. Certo, una differenza esiste: la natura è dominata dalla necessità; gli esseri umani amano la libertà e non sono sempre convinti che la libertà stia nella necessità, come volevano Spinoza, Hegel e in genere tutti gli stoici.

La natura dà sicuramente sicurezza coi suoi ritmi sempre uguali (quando non vengono stravolti dall’agire umano). Tuttavia nel collettivo bisogna fare periodicamente delle scelte, poiché l’essere umano è dotato di libero arbitrio, che la natura non conosce. In natura gli esseri si adattano alle circostanze, che possono ovviamente mutare; gli umani invece hanno facoltà di modificarle, anche se devono capire fino a che punto possono farlo.

Nell’ambito di una società comunista, se la comunità, a livello locale, volesse darsi un regolamento, dovrebbe essere così generico da risultare inutile. Guardiamo i comandamenti mosaici: anche considerando le successive interpolazioni religiose, restano di una banalità sconcertante. Evidentemente, se il suo autore aveva avvertito il bisogno di metterli per iscritto, significa che il suo collettivo di appartenenza era indotto (in Egitto) a comportarsi molto diversamente, cioè era condizionato da uno stile di vita antagonistico (si pensi solo al fatto che i matrimoni tra parenti molto stretti venivano praticati per mantenere il potere all’interno della famiglia reale, con conseguenze deleterie sul piano della salute). Il fatto che, ad un certo punto, quello stesso collettivo avesse deciso di rifiutare quel Decalogo (adorando un vitello), dimostra che quei condizionamenti erano ancora molto forti.5 Il che voleva dire che l’aver creato un “comunismo” sul piano economico non poteva essere considerato sufficiente per garantire un’eticità davvero umana.

Sotto questo aspetto non serve a nulla reprimere con violenza i trasgressori di determinati comandamenti anti-conflittuali: diventa un controsenso, una contraddizione in termini. È come voler imporre con la forza la verità.

Ecco perché l’ebraismo più maturo arrivò a dire che tutta la legge mosaica si risolveva in un unico comandamento: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Che non è esattamente identico all’altro, posto in negativo: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, che Kant fece suo, da buon cristiano-borghese moralista, ma che si trovava già nel confucianesimo mezzo millennio prima che apparisse nel vangelo matteano, i cui autori l’avevano preso dal rabbino Hillel. “Amare” non è come “non fare del male”. Che poi il cristianesimo più spiritualistico, quello del IV vangelo, arrivò persino a sostenere che “nessuno ha amore più grande di colui che sacrifica la propria vita per i suoi amici”. Il che voleva dire che “bisogna amare il prossimo molto più di se stessi”. Infatti, se il modello di riferimento è l’“amor proprio”, non si può esser sicuri che sia sufficiente per stabilire una solida relazione sociale.

Si dirà, naturalmente, che quello giovanneo è uno spiritualismo astratto, in quanto sarebbe meglio porre le condizioni concrete affinché nessuno si debba sentire indotto ad autoimmolarsi per il bene dei propri compagni. Si dirà anche che il martirio, di per sé, non indica un livello di moralità superiore a quello delle persone normali (come invece pretendeva Kierkegaard). Si dirà infine che duemila anni fa le tensioni all’interno dell’impero romano erano molto forti, per cui morire da martiri veniva considerato un titolo di prestigio.

Sia come sia, bisogna comunque ammettere che, pur nell’ambito di una concezione così spiritualistica, la comunità era in grado di “autoregolarsi”: non aveva bisogno di un regolamento scritto né di un’autorità statale. Avere a che fare con qualcosa di esterno da sé, che non sia naturale, è sempre indice di immaturità esistenziale. Che poi gli autori del IV vangelo, sicuramente appartenenti a una comunità monastica, abbiano voluto trasformare il Cristo in una “divinità”, questo rientra nei limiti insuperabili del cristianesimo in sé.


Etica e diritto




È assurdo pensare a un diritto antecedente all’etica. Anche perché, quando si parla di etica, non la si deve intendere come una semplice “coscienza morale”, tanto meno se individuale.

In realtà l’etica è un ethos popolare, cioè un insieme di norme comportamentali che appartengono a un collettivo, sulla base di usi e costumi tradizionali.6

Le norme di tale collettivo possono essere benissimo orali, acquisite per esperienza diretta, in rapporto all’età, al ruolo, alle funzioni che inevitabilmente caratterizzano qualunque essere umano, ovunque si trovi.

Se queste norme sono scritte, ciò è sempre dovuto al fatto che l’etica è venuta meno, si è affievolita. Tale debolezza può apparire spiacevole, può essere foriera di conseguenze indesiderate, ma questa involuzione resta un fenomeno naturale. L’essere umano non è sempre al massimo di ciò che ci si aspetta da lui.

Tuttavia è difficile pensare che una norma scritta, che in genere prevede un divieto e una pena per una trasgressione, possa colmare la mancanza di un’etica solida. L’essere umano deve ritrovare in sé la forza di recuperare ciò che ha momentaneamente perduto. L’importante è non creare i presupposti che impediscono o rendono molto difficile tale recupero.

Ecco, in tal senso bisogna dire che la nascita dello schiavismo, coeva a quella del diritto7, ha posto una seria ipoteca al ripristino di quell’etica tipica del comunismo primitivo. Duemila anni fa Israele avrebbe avuto la possibilità di recuperare tale comunismo, eliminando la presenza romana nel proprio territorio, ma la sprecò in maniera irreparabile.

Nel passaggio da uno stile di vita all’altro, in cui – a differenza di quanto pensa un certo marxismo evoluzionistico o positivistico – non c’era nulla di necessario, qualcosa ha fatto difetto: è mancata una indispensabile volontà oppositiva, una determinata intelligenza delle cose. Forse ha prevalso una qualche forma di ingenuità, tipica peraltro di chi è abituato a vivere un rapporto armonico con la natura e una proprietà comune dei mezzi produttivi, e non ha ancora sperimentato su di sé la perfidia dell’individualismo.

Il problema purtroppo è che, una volta posto l’antagonismo sociale e, di conseguenza, lo sfruttamento della natura, occorre poi molta scaltrezza per riconoscere gli inganni, i sotterfugi nelle pieghe del diritto. Quante volte i nativi nordamericani venivano raggirati dagli europei che emigravano nelle loro terre per arricchirsi?

Il diritto è sempre “biforcuto”, come la lingua dei bianchi, dicevano i cosiddetti “indiani”. Una funzione è quella di fare gli interessi della classe dominante; un’altra quella d’illudere di essere equidistante da tutti gli interessi particolari. In tal senso diritto e Stato (o istituzione governativa) marciano sullo stesso binario: si giustificano a vicenda. Che il diritto sia in forma laica o religiosa, dipende solo dalla cultura dominante in un determinato momento, ma sul piano pratico non fa molta differenza. Ovviamente il cristianesimo va considerato più spiritualmente evoluto del paganesimo, ma anche, proprio per questo, soggetto a una strumentalizzazione immorale più sofisticata. In tal senso, ferme restando la basi capitalistiche del sistema, l’ulteriore laicizzazione del cristianesimo (quale si può riscontrare nella filosofia europea a partire da Cartesio, o nella scienza astronomica del XVII sec., o nel diritto a partire da Ugo Grozio), non può essere considerata migliore del cristianesimo (sia esso ortodosso, cattolico o protestante). Così come l’ateismo del socialismo statale non si sottraeva all’accusa di essere, in definitiva, un’altra forma di “religione”.

Ciò non vuol dire che in una società socialista non debba esistere il diritto. Però bisogna convincere la popolazione che non dipenderà dal diritto (e tanto meno dallo Stato) la transizione dal socialismo al comunismo. Nel senso che le basi per favorirla vanno poste il più presto possibile, affinché la transizione stessa sia credibile.

Per es. la proprietà comune dei principali mezzi produttivi deve essere immediatamente sociale, non statale. È la collettività nel suo insieme, anzitutto nelle sue determinazioni locali, che deve assumersi la responsabilità di una gestione collegiale dei mezzi produttivi e di una valorizzazione dell’etica umana. In questo compito nessuno può sostituirsi a qualcuno, meno che mai in via definitiva. Se chi realizza il socialismo, non capisce una cosa così elementare, non è molto diverso dal nazista. Ai fini dell’esercizio della libertà di coscienza, che una dittatura sia di destra o di sinistra, non cambia nulla.

Detto questo, si può anche sostenere che, col tempo, l’etica possa essere soggetta a mutamenti. Tuttavia vi sono dei limiti oltre i quali, se si vuole restare umani, non si può andare. E i limiti sono quelli offerti da due prerequisiti fondamentali di ogni relazione umana: il rispetto delle esigenze riproduttive della natura (che non possono essere soddisfatte in maniera artificiale), e il rispetto della proprietà comune dei mezzi che garantiscono alla comunità locale di sussistere. Su questo pianeta non vi sono altre condizioni. Tutto il resto può essere lasciato al libero arbitrio nel rispetto della libertà di tutti.


Politica e diritto




Quando si parla di preminenza della struttura economica, il socialismo scientifico, nel migliore dei casi, specifica che si tratta di un primato in ultima istanza, in quanto ritiene che la coscienza morale, la cultura, l’ideologia ecc. possano influire su questa struttura.

Inutile dire che il leninismo rovesciò questo modo un po’ meccanicistico di concepire le cose. Per Lenin, infatti, il primato spettava alla politica, ritenuta un concentrato, una sintesi dell’economia. Infatti, se si riconosce all’economia una maggiore importanza rispetto alla politica, diventa più facile essere riformisti che rivoluzionari, anche se l’accusa di volontarismo, indirizzata ai bolscevichi, era sempre dietro l’angolo. Naturalmente loro rispondevano d’aver fatto una rivoluzione popolare non un colpo di stato: il che è dimostrato dall’aver vinto in maniera schiacciante la successiva guerra civile.

In ogni caso questi erano i motivi per cui i dirigenti della II Internazionale non riuscivano a capire i bolscevichi. Secondo loro era un’assurdità totale fare una rivoluzione politica di tipo socialista in un Paese che aveva una struttura economica molto debole.

I fatti però diedero ragione a Lenin, per il quale avrebbe dovuto essere la politica a incaricarsi di porre le basi industrializzate a un Paese arretrato (che poi, nella sua area europea, non lo era affatto). Naturalmente sappiamo che lo svolgimento stalinista del leninismo fu un disastro epocale, ma la causa di ciò – è altrettanto evidente – non può essere attribuita al leninismo.

Tuttavia la domanda più importante è un’altra: ammesso che la politica sia più importante dell’economia, qual è il ruolo del diritto? Sotto questo aspetto cos’ha dimostrato il cosiddetto “socialismo reale”? Ha dimostrato che quando è la politica statuale a dominare (o dirigere) l’economia della società civile, rendendo quest’ultima incapace di autogestirsi, il diritto, inevitabilmente, si pone al servizio della politica, e lo Stato lo usa sempre in maniera coercitiva, anche se ufficialmente (o formalmente) sembra che il diritto sia uno strumento imparziale, come accade nella società borghese.

Ecco perché è giusto sostenere che il socialismo statale non ha nulla di democratico, non costituisce un’alternativa radicale al capitalismo, ma è soltanto una sua variante (in particolare è una variante del capitalismo statale, dovuta al fatto che in Asia esisteva ed esiste ancora oggi un collettivismo che in Europa occidentale aveva subìto un tracollo già al tempo della nascita dello schiavismo privato).

Perché nel suo Rapporto segreto Chruščëv disse che lo stalinismo aveva violato la “legalità rivoluzionaria”? Proprio perché aveva subordinato il diritto alla politica, e siccome la politica era autoritaria, necessariamente il diritto non offriva alcuna garanzia democratica. Tutti i processi politici furono un’autentica farsa. Anzi, si potrebbe dire che, in presenza di un socialismo autoritario, tutti i processi in generale comminano sentenze ingiuste. È sufficiente qualificare un individuo come “nemico del popolo”, ed ecco che qualunque diritto processuale perde di significato: diventa solo un esercizio di retorica da parte del pubblico accusatore, il quale, non a caso, si attende, da parte dell’imputato, una piena ed esplicita confessione di colpevolezza.

Sotto questo aspetto è difficile dire se sia stato più “criminale” il politico Stalin o il giurista Vyšinskij. Forse sarebbe meglio dire ch’era il sistema in sé a essere “criminale”, e che loro due, in forme e modi diversi, rappresentavano i suoi esecutori.

Va detto, tuttavia, che la destalinizzazione, continuando a ritenere prioritaria la politica statuale su qualunque esigenza di autogestione locale, non riuscì minimamente a porre le basi per un superamento del cosiddetto “socialismo reale”: semplicemente rese più collegiale l’autoritarismo, gli diede una parvenza di democraticità, trasformò il culto di una singola personalità in un culto del collettivo partitico (sempre coincidente con lo Stato).

Con tutto ciò non si vuole affatto spezzare una lancia a favore della borghese divisione dei poteri. Nelle democrazie occidentali l’esecutivo è più importante del legislativo, ed entrambi sono più importanti del giudiziario, e tutti e tre i poteri sono subordinati agli interessi del capitale, che lo vogliano o no. Non possiamo farci illusioni che la democrazia liberale abbia qualcosa in più rispetto a qualsivoglia esperienza di socialismo.


Falsità del diritto




Partiamo da una domanda: il diritto borghese è falso perché è falsa l’economia capitalistica? Forse sarebbe meglio dire che il diritto è sempre falso quando nella società esiste un antagonismo tra chi possiede i mezzi produttivi e chi no, o tra chi ne possiede tanti e chi ne possiede pochi.

Tutto l’impero romano, d’oriente e d’occidente, sino alla caduta di Costantinopoli, può essere classificato, con varianti più o meno significative, di carattere individualistico o collettivistico, sulla base di due fondamentali aggettivi: “schiavistico” e “servile” (o “tributario”). Nel rapporto di lavoro la coercizione o era “personale” o direttamente “fisica”. Se non ci fosse stato un antagonismo del genere, le tribù straniere, cosiddette “barbariche”, non sarebbero state considerata alla stregua di “liberatori”, ma semmai dei “conquistatori”.

Uno schiavo o un liberto o un servo o un colono sapevano benissimo che il diritto era unicamente preposto a tutelare gli interessi di chi comandava (latifondisti, senatori, militari, affaristi ecc.). Anche quando all’apparenza si poneva in maniera equa, si sapeva benissimo che aveva un vizio di fondo (questa percezione sussiste ancora oggi). Poi vennero le religioni, in particolare il cristianesimo, a illudere gli indigenti, dicendo che la vera “uguaglianza” avrebbero potuto maturarla nella coscienza, e che una vera “giustizia” avrebbero potuto ottenerla solo nell’oltretomba, laddove si sarebbe imposto un “giudizio universale” da parte di un Padre eterno, onnipotente e onnisciente.

Il vero problema, in realtà, era costituito dalle persone giuridicamente libere, che credevano in un diritto imparziale. È stato il progressivo impoverimento a indurre queste categorie sociali, giuridicamente libere, a considerare falso il diritto.

Cioè quel diritto ch’era già visibilmente falso agli occhi degli schiavi e dei servi, lo è diventato, col tempo, anche per le categorie che, pur essendo libere, non si sentivano in grado di competere con le categorie più forti economicamente. Essere giuridicamente liberi non significa, in automatico, sentirsi economicamente più sicuri.

Naturalmente finché il diritto discrimina soltanto una certa categoria di persone, non viene percepito in tutta la sua falsità. Ma quanto più la discriminazione si estende alla popolazione, tanto più questa pretende una transizione o una qualche forma di liberazione. Comincia a mettere in discussione non solo l’equidistanza del diritto, ma anche l’autorevolezza delle istituzioni.

Ecco perché gli Stati centralistici del periodo romano si trasformarono in Stati decentralizzati, in cui le comunità locali giocavano un certo ruolo. Naturalmente nessuno vuole sostenere che il servaggio (feudale o medievale) fu un’alternativa allo schiavismo; come nessuno può sostenere che un salariato sia di per sé più “libero” di un servo della gleba. Il marxismo avrebbe detto che è più “libero di morire di fame”: cosa che al contadino servo della gleba non capitava mai, a meno che l’agrario non decidesse di produrre esclusivamente per il mercato borghese (in quel caso, agli inizi del capitalismo, era facile la trasformazione degli arativi in prativi, al fine di vendere all’industria tessile la pregiata lana ovina e caprina, per il cui allevamento occorrevano pochi pastori).

Questo per dire che la percezione del diritto cambia a seconda dei rapporti socio-economici che si vivono. Inutile star qui a spiegare che nell’ambito delle comunità locali di villaggio un diritto astratto non avrebbe avuto alcun senso. Semmai si può precisare che in una società dove i principali mezzi produttivi sono statalizzati, il diritto diventa falso nella misura in cui lo Stato non permette il decentramento dei poteri. Tale devoluzione deve però arrivare fino all’autogestione dei mezzi produttivi da parte della stessa società. Se il diritto serve solo per rafforzare il potere dello Stato, tra capitalismo e socialismo statale non vi è una differenza sostanziale.


Diritto privato e pubblico




Secondo me Pašukanis aveva ragione nella sua critica a Ludwig Gumplowicz. Non può essere esistito prima un diritto pubblico (statuale) e poi un diritto privato, di livello inferiore, in quanto dipendente da interessi egoistici.

Sono nati contemporaneamente (o quasi), essendo entrambi connessi ad antagonismi sociali dominanti. Cioè se una controversia è sociologicamente ristretta, riguardante un caso particolare o poche persone in causa, non vi è un bisogno significativo di far sorgere un diritto privato. Ma se il conflitto diventa preminente e si allarga a molte persone, ecco che il diritto privato s’impone per impedire che la diatriba si trasformi in un’interminabile faida, in un eccidio di massa.

Tuttavia, man mano che la società si allarga e si trasforma in nazione, ecco che emerge il diritto pubblico, un’arma in più che le classi dominanti si danno per tenere l’intera nazione sotto il controllo dello Stato. Certo, tali classi proprietarie (o comunque dominanti) possono sempre usare delle forze coercitive permanenti, pagate con le tasse dei cittadini, sostituendo quelle mercenarie. Ma il diritto pubblico costituisce la massima illusione possibile. Cioè anche se nel diritto privato un cittadino può nutrire l’impressione che a comandare siano sempre i più forti (o potenti o facoltosi); viceversa, il diritto pubblico (che nella sua massima espressione è di tipo costituzionale) deve offrire al cittadino la convinzione che, di fronte alla legge, si è tutti uguali.

Questa è una convinzione sommamente illusoria, ma sufficiente a instillare l’idea che, in caso di guerra, il cittadino deve sempre avere una coscienza “patriottica”, con cui, in varie forme e modi, si pone al servizio del proprio Stato, il quale, di regola, promette al cittadino “fedele” che, alla fine del conflitto, avrà un diritto privato maggiormente garantito, allargato. Ecco perché al tempo dei primi Romani colonialisti andare in guerra era un privilegio, e il cavaliere meritava di più di un fante.

Il fascismo italiano e il nazismo tedesco s’imposero quando i cittadini si accorsero che i rispettivi Stati non erano in grado di mantenere le loro promesse. Uno Stato non può chiedere, in nome del diritto pubblico, che i cittadini obbediscano sino al punto di sacrificare la loro vita, e poi non ricompensarli per questa abnegazione. E questo vale per qualunque Stato, sia che vinca o che perda la guerra.

Al tempo della prima guerra mondiale i comunisti russi mostrarono di avere la certezza politica che i loro problemi (sociali, economici) non avrebbero potuto essere risolti con la politica governativa. Non si aspettavano più dei miglioramenti sul piano del diritto privato (come accadde nella rivoluzione del 1905), ma pretendevano una netta metamorfosi del diritto pubblico, previo un superamento definitivo dei princìpi meno favorevoli al popolo minuto. E questa pretesa la mostrarono proprio mentre erano in guerra, cioè mentre non era ancora chiaro se l’avrebbero vinta o persa. Grazie a Lenin trasformarono una guerra (imperialistica) tra Stati in una guerra civile all’interno della loro nazione, scandalizzando tutti i socialisti europei, ma dimostrando che nel loro Paese il diritto privato (borghese) non aveva ancora messo radici così profonde da corrompere il loro animo, da infiacchire la loro volontà.

Mentre infatti il nazifascismo rappresenta il riscatto di quei cittadini piccolo-borghesi che temono di proletarizzarsi, e che anzi ambiscono a salire di grado nelle loro aspirazioni borghesi; viceversa il bolscevismo rappresenta quei proletari (industriali e agricoli) che non si fanno illusioni sulle istituzioni e dal loro partito pretendono tutto, essendo disposti a offrire la loro vita non per un tornaconto personale o familiare, ma per cambiare l’intera società. Semmai fu lo stalinismo che, sfruttando questo idealismo del popolo russo, s’impose con tutta la propria cinica violenza.

Forse un idealismo del genere l’Europa occidentale l’aveva conosciuto nel Medioevo, al tempo dei cosiddetti “movimenti pauperistici ereticali”.


Funzioni sociali del diritto privato




Per quale motivo la proprietà privata dei principali (o fondamentali) mezzi produttivi va abolita qua talis? Cioè perché su questo argomento non ci possono essere tergiversazioni o elucubrazioni di sorta? Lo spiega Pašukanis nella lunga nota 12 alle pp. 109-110, che si riferisce al giurista A. G. Gojchbarg. Riporta una tesi di quest’ultimo, secondo cui “i giuristi borghesi più evoluti si rifiutano di guardare alla proprietà privata come a un diritto soggettivo arbitrario, considerandola un bene conferito alla persona e legato a degli obblighi positivi nei confronti della comunità”. In altre parole, “il possessore del capitale deve essere tutelato dal diritto solo e nella misura in cui assolve a funzioni socialmente utili, investendo giustamente il suo capitale”.

Sinceramente parlando non so se questa fosse una “tesi” di Gojchbarg, ma è fuor di dubbio che quando s’incontra nel capitalismo un principio del genere, si ha la netta impressione che sia eccezionalmente moralistico e sommamente ipocrita.

Il moralismo sta nel fatto che il diritto pubblico (cioè in questo caso lo Stato, che pretende d’essere l’istituzione più rappresentativa della società) chiede al proprietario privato dei mezzi produttivi di contribuire in qualche maniera, socialmente utile, al bene comune; in cambio lo Stato assicura pubblicamente che l’appropriazione privata dei mezzi fondamentali alla sussistenza di una comunità è legittima. È come se lo Stato dicesse: “Puoi restare egoista quanto vuoi se, di tanto in tanto, dimostri d’essere altruista”. Il diritto pubblico si appella alla generosità, al buon cuore di chi, nel diritto privato, deve per forza essere cinico e senza scrupoli.

Ma c’è persino di peggio. Spesso infatti il privato (capitalista, imprenditore, ecc.), quando svolge una funzione sociale, pretende d’essere finanziato, almeno in parte, con fondi pubblici o con agevolazioni fiscali. Il pretesto è appunto quello di svolgere un servizio utile alla collettività (eventualmente si aggiunge che allo Stato verrebbe a costare di più, se lo realizzasse in proprio).

Tre classici esempi di questa ipocrisia si verificano nell’ambito dell’istruzione privata o della sanità privata o dell’assistenza degli anziani in apposite strutture. Gli introiti dovuti a tali servizi vengono tutti privatizzati (sfruttando peraltro una manodopera con diritti sindacali minimi), e in più si chiede un contributo pubblico, in nome appunto del fatto che il servizio ha una finalità “sociale”. Questo modo di ragionare capzioso raggiunge il vertice quando s’impedisce allo Stato di controllare la gestione del suddetto servizio, che potrebbe benissimo essere tendenziosa, ideologizzata, fino all’esercizio di una qualche forma di violenza o di abuso.

Certo, può capitare che uno Stato, non particolarmente benestante, chieda a un’impresa privata o straniera di esercitare una funzione sociale nel proprio territorio, assicurandole la privatezza dei profitti, se non anche della proprietà. Ma nell’ambito del socialismo questi non dovrebbero essere casi destinati a durare nel tempo. Possono essere tollerati sulla base di motivi diplomatici, per stabilire buone relazioni internazionali, ma può anche accadere che lo Stato, di punto in bianco, quando si sente economicamente forte, rilevi il servizio avente una funzione sociale e proponga all’esercente un’offerta che non può rifiutare. La Cina è diventata il più grande produttore del mondo proprio perché ha appreso il know-how dalle stesse filiali occidentali che si erano insediate nel suo territorio. La stessa Federazione Russa ha approfittato delle sanzioni occidentali durante il conflitto ucraino per sostituire le imprese straniere con le proprie.

Ma vediamo quel che dice Pašukanis in quella nota: “l’antitesi vera alla proprietà non è la proprietà privata concepita come funzione sociale, ma piuttosto è l’economia socialista pianificata che comporta la stessa abolizione della proprietà privata”.

In pratica fa capire che nel capitalismo si può essere generosi o altruisti quanto si vuole, ma, in ultima istanza, il sistema resterà sempre individualistico, anarcoide, impossibile da gestire in maniera collettiva o pianificata. In tal senso – si potrebbe aggiungere – non vi è molta differenza tra capitalismo concorrenziale, capitalismo monopolistico e capitalismo monopolistico-statale. Nessuno si avvicina, neanche lontanamente, al socialismo democratico.

Generalmente il primo capitalismo che si forma è quello commerciale, in cui gli imprenditori parlano di “libero mercato”. L’imprenditore, che allestisce un’azienda, costituisce già una fase evoluta del semplice mercante.

Appena però il capitalista imprenditoriale s’accorge che la competizione è troppo forte, davanti a sé si presentano due alternative: o si dedica esclusivamente alla finanza, oppure si unisce ad altri imprenditori e forma un monopolio. In questo secondo caso è sempre più difficile parlare di “libero mercato”. Anzi, quanto più il mercato si mondializza, tanto più i monopoli chiedono di essere protetti dai rispettivi Stati, poiché temono la concorrenza dei monopoli stranieri.

In tutti questi casi è impossibile “pianificare” la produzione monopolistica. Mentre prevarranno, inevitabilmente, i monopoli dei Paesi militarmente più forti, questi stessi monopoli non permetteranno mai che la loro produzione venga “pianificata” dallo Stato; semmai si limiteranno a chiedere allo Stato di essere sostenuti, contro la concorrenza straniera, sia finanziariamente che militarmente.

Di fronte a una situazione del genere – che è poi quella dell’ultimo mezzo millennio di storia che l’occidente ha imposto al resto del mondo – cosa può fare un Paese che non voglia essere soggiogato dalla potenza dei monopoli più forti? Non ha molte alternative. Deve anzitutto liberarsi del colonialismo che lo opprime, realizzando una sorta di socialismo. Poi, se proprio vuole entrare nel mercato mondiale, deve vendere un prodotto di nicchia, particolare, protetto in tutte le maniere dallo Stato. In tal caso, se viene attaccato militarmente, deve cercare alleanze vantaggiose.8

Là dove si parla di socialismo mercantile o di capitalismo statale, esiste per forza una qualche forma di “pianificazione”, soprattutto in relazione agli asset strategici di una nazione. Ecco perché il capitalismo privato occidentale è destinato a soccombere.

Tuttavia, al tempo di Pašukanis nel suo Paese si parlava di “socialismo statale”. Quando lui riteneva necessaria, giustamente, la pianificazione della produzione, dava per scontato che l’unico gestore dovesse essere lo Stato. Purtroppo non era riuscito a prevedere che lo Stato, in mano agli stalinisti, ne avrebbe abusato in maniera così autoritaria che persino lui stesso ne sarebbe stato travolto. Infatti, se una pianificazione deve esserci, va decisa dalle comunità locali.


Storia del capitalismo




Se si guarda la società come un insieme coincidente con la nazione, e questa come un tutto coincidente con lo Stato, nessuna vera democrazia è possibile. In ultima istanza, infatti, sarà lo Stato a comandare. E che questo sia centralista o federalista non cambia nulla.

Una vera democrazia non può andare oltre il livello locale, se non appunto trasformandosi in una dittatura. Il livello locale può essere superato solo provvisoriamente e per un obiettivo specifico. Ecco, dal punto di vista dello Stato il diritto assume la funzione di far apparire normale, cioè necessaria, democratica, la stessa dittatura.

Gli Stati sono pericolosi perché tutelano sempre i poteri più forti. Anzi, quando fanno alleanze tra loro, costruendo degli organismi sovranazionali, sono assolutamente fuori controllo. Quanto più gli organismi sono internazionali, tanto meno sono democratici, ma non perché siano “internazionali”, quanto perché sono nati senza un vero consenso popolare, non hanno un vero volto, e quando prendono delle decisioni, non devono rendere conto a nessuna popolazione. Il diritto viene deciso da questi stessi organismi, a seconda delle loro esigenze e convenienze. Traggono ispirazione dai vari diritti internazionali solo per dimostrare che sono imparziali, ma poi li applicano secondo i canoni capitalistici del diritto privato.

Il diritto pubblico è sempre la facciata formalmente equa, paritetica di un cinico diritto privato, e questo diritto privato tutela e regolamenta sempre l’interesse economico più influente, espresso in forma di profitto o di rendita (che i magistrati lo vogliano o no, per quanto soggettivamente possano elevarsi al di sopra di queste assurdità). I teorici del capitalismo dicevano che il comunismo era una variante dell’ebraismo o del giudaismo; ma, se per questo, anche il capitalismo sembra esserlo. Solo che il capitalismo, per trionfare, ha avuto bisogno della teologia cristiana, mentre il comunismo è sostanzialmente ateistico. L’ebraismo, con la sua cavillosa religiosità e il suo nazionalismo esclusivista, doveva compiere, per poter tornare utile al capitalismo o al comunismo, una metamorfosi al proprio interno.

Anche se i rappresentanti dei suddetti organismi internazionali fossero scelti dai singoli Stati per un tempo determinato, non potrebbero mai aver nulla di democratico. Essi rappresentano soltanto il modo moderno di dominare il pianeta, un modo che si serve anzitutto della leva finanziaria e della pressione militare (almeno nell’occidente collettivo).

Si badi, con questo non si vuole affatto sostenere che il livello locale sia di per sé più democratico di quello nazionale. Gli agrari feudali non erano certamente più democratici della borghesia commerciale o imprenditoriale che chiedeva lo sviluppo di una nazione e di una monarchia centralizzata, che da ereditaria era destinata a trasformarsi in costituzionale.

La comunità locale deve assolutamente superare il limite della rendita feudale, frutto di un’appropriazione privata della terra. Tutti i latifondisti erano esperti nell’uso delle armi, o comunque avevano sufficienti risorse per permettersi delle truppe mercenarie. All’origine della rendita feudale vi è sempre la violenza, che col tempo è stata circonfusa di maniere aristocratiche, galanti (che poi, fondamentalmente, erano razzistiche). Le cariche signorili (che potevano aumentare tramite i matrimoni combinati o i favori imperiali) si trasmettevano ereditariamente, insieme alle terre e ai contadini che le lavoravano.

Le rivoluzioni borghesi (olandese, inglese, americana e francese), le cui basi teoriche (filosofiche, scientifiche e artistiche) vanno cercate nell’Umanesimo del XV sec., nel Rinascimento del XVI sec. e nella rivoluzione astronomica del XVII sec., apparvero come un fenomeno democratico solo perché distruggevano evidenti abusi secolari (le rendite non erano solo laiche ma anche ecclesiastiche, e il clericalismo era l’ideologia dominante). Dopodiché queste stesse rivoluzioni epocali si diedero una veste giuridica ufficiale, come per far credere che il processo sarebbe stato irreversibile, e il progresso inarrestabile, sempre più crescente.

Tuttavia quelle conquiste rivoluzionarie non avevano nulla di veramente democratico, se non per la classe borghese, che vedeva ampliare i propri poteri, le proprie prerogative, a spese della nobiltà e degli ordini ecclesiastici. La stragrande maggioranza della popolazione ebbe solo la percezione di una maggiore libertà, che però era solo giuridica, e quindi, in ultima istanza, fittizia. “L’aria di città rende liberi”, si diceva agli albori della mentalità borghese nei Comuni italiani di mille anni fa.

Non è vero che il capitalismo occidentale domina da 500 anni. Sarebbe meglio dire che le sue basi hanno un millennio di storia. Ci sono volute molte tappe da superare, e ogni Paese ha fatto la sua parte. La rivoluzione industriale vera e propria, quella che permetteva la riproduzione in serie degli oggetti, è nata solo nel XVIII sec. Ma fu con la rivoluzione scientifica (quella soprattutto astronomica) del secolo precedente che si posero le basi ideologiche del dominio tecnico-scientifico degli umani sulla natura. Le basi filosofiche di tale supremazia vanno invece cercate nell’Umanesimo, mentre nell’arte rinascimentale si è compiuta la rivoluzione prospettica e si è recuperata la tradizione realistica greco-romana in funzione anti-religiosa (in Italia la pittura anti-bizantina è nata addirittura con Giotto, prima ancora che venisse delineata una prospettiva basata su regole matematiche o geometriche).

La realizzazione delle nazioni e quindi degli Stati nazionali è avvenuta nel XVI sec. Quando gli imperi coloniali della penisola iberica occuparono mezzo mondo, lo fecero dopo aver costruito delle nazioni sulla base di motivazioni ideologiche (dovevano essere uniformemente “cattoliche”, contro l’islam e l’ebraismo). Spagna e Portogallo, all’estero, praticavano al massimo un capitalismo commerciale (di rapina), in cui le popolazioni venivano sfruttate selvaggiamente.

Le prime tre vere nazioni borghesi, che hanno rivoluzionato il mondo, sono state Olanda, Francia e Inghilterra (le ultime due hanno dominato incontrastate sino alla fine della prima guerra mondiale). Oggi, dopo che, finita la seconda guerra mondiale, la guida del capitalismo mondiale è passata agli Stati Uniti, sta avvenendo una nuova rivoluzione: il trasferimento del baricentro dall’occidente all’Asia.

La prima critica che le potenze asiatiche rivolgono a quelle occidentali è di non saper rispettare il diritto internazionale che esse stesse hanno prodotto. Solo la storia saprà dire se le nazioni asiatiche riusciranno a fare di meglio. Ma sin da adesso è facile prevedere che il capitalismo non può essere un sistema eticamente migliore solo perché viene sottoposto a un controllo statale. Lo Stato non può essere un organo buono o cattivo a seconda di chi lo amministra.


Non c’è nulla di spontaneo




Pašukanis, sulla scia di Marx, sostiene che “la merce prende valore al di fuori della volontà del soggetto” (p. 123). È vero, ma se non si aggiunge che tale processo non è avvenuto spontaneamente, alla fine non si capisce perché lo si dovrebbe superare.

Non c’è nessuna “legge naturale” che opera senza che l’uomo possa far qualcosa per opporvisi. Se vuole, l’uomo può contrastare qualunque cosa, anche a costo di pagarne terribili conseguenze.

Il mercato capitalistico ha lottato strenuamente contro l’autoconsumo delle comunità di villaggio, che praticavano il baratto delle eccedenze, e alla fine ha vinto. C’è una bella differenza tra dipendenza da un mercato quotidiano e indipendenza da un autoconsumo quotidiano. La differenza sta proprio nella diversa “quotidianità”. Rispetto alla campagna la città non ha alcuna indipendenza, anche se pretende che la campagna la sfami tutti i giorni. Il primo colonialismo non è stato quello tra uno Stato forte e uno debole, ma quello tra un’area urbana militarizzata e un contado circostante indifeso (o difeso soltanto da un castello o una rocca in cui viveva il latifondista con la sua famiglia).

Certo, col tempo l’abuso può apparire normale, ma siccome si tratta pur sempre di un’anomalia, di tanto in tanto le sue contraddizioni vengono alla luce, e in maniera piuttosto evidente: si pensi solo agli infiniti e sempre più gravosi problemi ambientali, ma anche agli improvvisi e devastanti crack borsistici.

Siamo così abituati a vivere alle dipendenze dai mercati industrializzati che la merce “biologica” (o “naturale”) diventa un settore di nicchia, piuttosto costoso. Siamo così abituati a un trend innaturale che quando avvengono i crolli finanziari delle borse dei titoli e dei valori, ci colgono del tutto impreparati. Quando scoppiano casi di corruzione in campo industriale o commerciale o finanziario, ci chiediamo perché la vigilanza istituzionale sia stata fallimentare, e, di primo acchito, ci rifiutiamo di credere che possa esistere una sorta di complicità tra pubblico e privato. Quando scoppiano le guerre ci chiediamo perché la diplomazia non funzioni o perché le Nazioni Unite non servano a nulla, ed esitiamo a credere, nella nostra ingenuità, a complotti, teatrini, sceneggiate, tacite intese…

È vero, la merce prende valore a prescindere dalla volontà dei soggetti, ma solo sul mercato, e sappiamo tutti che sul mercato comanda chi vende, non chi compra. Perché l’acquirente possa comandare, non si deve presentare come soggetto individuale, ma come un collettivo che si organizza per una specifica battaglia. Gli acquirenti organizzati in una class action compiono una specie di iniziativa sindacale, finalizzata al raggiungimento di un obiettivo particolare, ottenuto il quale non mettono in discussione il primato del mercato sull’autoconsumo. Al massimo chiedono di consumare prodotti nazionali invece che esteri (ma deve esserci una valida alternativa), oppure prodotti locali invece che nazionali, oppure prodotti di stagione invece che di serra o di frigo, oppure prodotti biologici invece che trattati con sostanze chimiche.

Rebus sic stantibus, il fatto che contemporaneamente alla trasformazione della merce in un valore avvenga anche la trasformazione della persona in soggetto di diritto, non significa proprio nulla. Dopo un certo tempo, spesso a proprie spese, la persona si accorge che il diritto è falso, proprio perché le risulta piuttosto evidente che sul mercato comanda chi vende. Al massimo c’è concorrenza tra venditori, e l’acquirente deve sapersi destreggiare tra differenti offerte.

Il mercato e il diritto (e quindi lo Stato che tutela entrambi) vengono facilmente percepiti come due facce della stessa medaglia, da cui non si può prescindere, se non appunto compiendo una rivoluzione politica.

Se non si ha sufficiente consapevolezza per compiere una rivoluzione, le strategie che usa chi vuole affermarsi, rispetto a chi è già affermato, spesso sono altrettanto abusive, illecite, oppure legali solo formalmente. La criminalità, spontanea o organizzata, individuale o collettiva, nasce così, esibendo una certa dose di vittimismo. Si è criminali proprio perché qualcuno, avvalendosi del diritto, lo è già in veste legale.

Tutta la lotta contro la criminalità organizzata (di tipo mafioso), compiuta in nome di un diritto astratto (ovviamente pubblico), doveva e deve ancora oggi servire per tutelare una criminalità legale, organizzata diversamente (a prescindere dalla consapevolezza di chi conduce questa lotta). In tutto ciò non c’è nulla di spontaneo o di naturale, forse l’intenzione di qualche giurista in buona fede, come Falcone e Borsellino, che lo stesso Stato non ha avuto scrupoli a eliminare.


Libertà e proprietà




Sembra che Pašukanis non capisca una cosa di fondamentale importanza, o comunque non ne tragga le dovute conseguenze: nel capitalismo la libertà è sostanzialmente connessa alla proprietà e solo formalmente al diritto. Il diritto non è il rovescio della proprietà, non gode di alcuna autonomia: è solo un paravento, naturalmente a prescindere dalla consapevolezza dei giuristi. Al limite il diritto potrebbe anche scomparire, e non per questo scomparirebbe il capitalismo.

Inizialmente nel mondo romano si era liberi in quanto “cittadini di Roma”. I cittadini avevano diritto a votare, possedere proprietà ecc. Non si era cittadini semplicemente perché si possedeva qualcosa, ma si poteva possedere qualcosa in quanto cittadini (gli schiavi non possedevano nulla, neppure il proprio corpo). Tuttavia la libertà, se non si pagavano i debiti, poteva essere tolta, e con essa la proprietà di ciò che si possedeva. Non bastava la cittadinanza a garantire la libertà.

Poi, col passare del tempo, la cittadinanza venne data, con privilegi minori, agli Stati alleati, alle colonie ecc., finché con l’Editto di Caracalla, nel 212 d.C., fu estesa a tutti gli abitanti già liberi dell’impero.

Quindi o il diritto era un privilegio dovuto alla nascita, oppure era un riconoscimento faticosamente acquisito (per es. facendo il servizio militare). Si pensi quanto giovò a Paolo di Tarso il fatto d’essere cittadino romano, pur essendo nato nell’odierna Turchia: poteva tranquillamente appellarsi all’imperatore, non essere punito con la flagellazione o non condannato da tribunali non romani. Caracalla probabilmente concesse la cittadinanza perché tenere in piedi un vasto impero, non più in grado di estendersi con la forza delle armi, era diventato impossibile.

Quando nacque la borghesia, mille anni fa, il diritto a essere “liberi” fu rivendicato come conseguenza del fatto che, tramite i commerci, ci si era arricchiti, si era diventati proprietari di qualcosa. Il commercio era sulle lunghe distanze e si vendevano prodotti esotici, introvabili in Europa occidentale.

Gli Statuti comunali non venivano sottoscritti tra proprietari e nullatenenti. La proprietà, mobiliare o immobiliare, veniva concepita come garanzia sicura di libertà, e quindi precondizione di ogni diritto. La borghesia cristiana non ebbe bisogno del consenso esplicito della Chiesa romana o della nobiltà agraria per realizzare una novità giuridica del genere, anche perché il mercato, per le cose materiali che offriva, faceva comodo a tutti. In fondo il mercante era una persona coraggiosa, che si avventurava in luoghi remoti, dove gli sarebbe potuta accadere qualunque cosa.

Semplicemente la Chiesa (che a livello diocesano, cioè rurale e urbano, era rappresentata da un vescovo) ne prese atto, in quanto, essendo la borghesia ufficialmente cristiana, non si sentiva minacciata dai nuovi Statuti comunali, cui anche i nobili, alle condizioni dei borghesi, potevano partecipare (di cui la principale era che nel Consiglio comunale il voto del nobile non era più importante di quello del borghese).

Anzi la Chiesa si servì dei nuovi Comuni borghesi in due direzioni bellicose: contro i movimenti pauperistici (bollati col marchio dell’eresia) e contro i sovrani (in genere gli imperatori) che non accettavano l’integralismo della teocrazia pontificia, e quindi il semplice ruolo di “braccio secolare”. Non a caso molti imperatori pretendevano dalle città ingenti tributi con cui pagare i mercenari che combattevano contro le forze pontificie. In genere erano più gli imperatori che non il papato a guardare con sospetto lo sviluppo della borghesia urbana. Di estrazione nobiliare, gli imperatori preferivano tutelare l’aristocrazia. Prima che la borghesia arrivasse a fruire del pieno appoggio dei sovrani, bisognerà attendere la formazione delle monarchie nazionali.

La borghesia cattolico-medievale riprese un concetto di cittadinanza e quindi di diritto già esistente nel mondo greco-romano, ma siccome nel periodo altomedievale la campagna era molto più importante della città, trasformò il diritto radicalmente. Proprio grazie al concetto di “persona” tipico del cristianesimo, e prendendo a modello l’ambiguità dell’alto clero cattolico, che predicava valori evangelici vivendoli in maniera corrotta, la borghesia decise che “soggetto di diritti” doveva essere chi si era fatto da sé, o chi voleva farsi da sé andando a vivere in città, dove anche la sola “aria” rendeva liberi. Tutti gli altri (proprietari di cariche nobiliari o ecclesiastiche o di beni immobili ereditati dagli antenati) andavano sì tollerati, ma solo perché avevano privilegi intoccabili, quei privilegi che tutte le rivoluzioni borghesi del ’600 e del ’700 metteranno in discussione, in linea col fatto che dopo aver acquisito un certo potere economico se ne pretende anche uno politico.

Se sul mercato la merce appare come un valore in sé, a prescindere dalla volontà dei soggetti, è solo perché questi soggetti han già posto le basi per far dipendere il diritto dalla proprietà. L’idea di uguaglianza astratta della persona, impensabile al tempo dello schiavismo e del servaggio, è una novità assoluta introdotta dalla borghesia cristiana, che a quel tempo era seguace della confessione cattolico-romana. Non esiste uno Statuto comunale o una Costituzione statale, di tipo borghese, che non metta sullo stesso piano libertà e proprietà. Tutti devono poter essere liberi di diventare proprietari di qualcosa, proprio perché la libertà si fonda sulla proprietà. Che poi la libertà acquisita diventi una nuova forma di privilegio o di monopolio, e che impedisca ad altri di sfruttare il diritto per arricchirsi, questo è un altro discorso.

Tutto ciò per dire che il proletario, prima di presentare la propria forza-lavoro come merce da vendere sul mercato, sa già che il diritto gli permette di sentirsi libero (le città borghesi basso-medievali assicuravano la libertà ai servi della gleba che riuscivano a fuggire dal loro feudo), ma ancora non sa che, in nome di quel diritto, non diventerà mai ricco. Infatti l’acquisizione della proprietà, nella società borghese, non avviene mai in modo conforme al diritto, cioè in maniera democratica. Questa è una constatazione che uno fa a proprie spese, e a cui cerca di reagire come ritiene più opportuno. Nel migliore dei casi partecipa a una corruzione molto più grande di lui, cui individualmente non è in grado di opporsi.


La relatività del progresso




A volte si ha l’impressione che per Pašukanis lo sviluppo del diritto astratto e dei mercati capitalistici sia stato un “progresso” rispetto al Medioevo. Non capisce che è tutto relativo, e che, in definitiva, il socialismo statale del suo tempo non era che una riedizione del feudalesimo latino in altre forme e modi, con in più le acquisizioni tecnico-scientifiche del periodo borghese.

Al posto del pontefice vi era Stalin; al posto del clero i membri più autorevoli del partito; al posto della Chiesa teocratica lo Stato ideologico; al posto dei feudi rurali i colcos e i sovcos (ottenuti tramite la collettivizzazione forzata, che trasformò i contadini in servi più o meno statali); al posto dell’inquisizione i processi-farsa, con cui si conduceva un’analoga lotta contro le eresie; al posto dei cardinali scelti dal papa l’entourage più fedele a Stalin; al posto del diritto canonico (imposto attraverso sinodi e concili) la giurisprudenza sovietica, anch’essa rigorosamente dogmatica, imposta attraverso comitati centrali, parlamenti e congressi; e così via.

Scrive Pašukanis: “Nel Medioevo mancava un astratto concetto del soggetto giuridico…” (p. 131); cioè “l’idea di uno status giuridico-formale comune a tutti i cittadini, a tutti gli uomini, era del tutto assente” (p. 130). E presume di dare una spiegazione a questa cosa, che ai suoi occhi appare molto limitativa, dicendo: “A ciò corrispondeva, nella sfera economica, la presenza di unità autosufficienti, il divieto di importazione ed esportazione, ecc.” (p. 131). Tutto ciò perché “l’uguaglianza tra soggetti era postulata solo rispetto a rapporti confinati entro un campo determinato e circoscritto” (ib.), quale per es. una corporazione o una unità territoriale.

E a p. 129, in nota, aggiunge un esempio eclatante che conferma la sua tesi di fondo: in Germania non esisteva, fino a quando non fu reintrodotto il diritto romano, “un termine tedesco che esprimeva il concetto di ‘persona’ e di ‘soggetto di diritti’”. Cioè là dove esisteva un pregio, lui vede un difetto.

Sembra non capire l’importanza del collettivo sull’individuale, della comunità di villaggio sul singolo urbanizzato, dell’autoconsumo sul mercato. Dopodiché se ne esce con frasi che, prese in sé, non hanno alcun senso: “Accanto alla proprietà mistica del valore emerge qualcosa di non meno enigmatico: il diritto” (p. 129).9

Non si può ragionare in termini così astrusi; non si può guardare il fenomeno in sé, senza risalire alla sua ontologia storica. Non c’è nulla di mistico o di misterioso. L’enigma appare solo a uno sguardo che si ferma alla superficie, cioè che fa “sociologia” e non “cultura”. La cultura ha dei valori precisi, che impediscono all’economia un certo svolgimento. È assurdo pensare che la società borghese si sia formata per un accumulo spontaneo di semplici determinazioni quantitative, che si sono imposte a prescindere dalla volontà dei soggetti. Se si dà per scontato che tutto sia avvenuto istintivamente o naturalmente o necessariamente, diventa poi difficile capire perché le cose debbano essere cambiate in maniera rivoluzionaria (o perché le cose, al massimo, vadano mutate solo in maniera contingente ma non rivoluzionaria).

Il fatto che il capitalismo si sia formato all’interno del feudalesimo, non vuol dire che il feudalesimo avesse in sé le premesse per farlo nascere. Il capitalismo non è nato all’interno di un feudalesimo generico, astratto, ma proprio in quello caratterizzato dalla teologia cattolico-romana, e ha trovato in quella protestantica (specie nella versione calvinistica) la sua giustificazione più completa e definitiva. L’irreversibilità di questa cosa può essere spezzata solo da una rivoluzione. L’antagonismo sociale del capitalismo non può essere risolto con delle semplici riforme.

Se non si capisce questa fondamentale premessa euristica, è impossibile capire il motivo per cui nei Paesi in cui dominava la religione ortodossa il capitalismo sia stato soltanto un prodotto d’importazione.


L’astrazione del soggetto




La seguente affermazione di Pašukanis, secondo cui “al di fuori del contratto gli stessi concetti di soggetto e di volontà in senso giuridico si configurano esclusivamente come astrazioni prive di vita” (p. 132), sarebbe ampiamente da discutere.

Già Hegel si opponeva all’idea che lo Stato moderno (successivo alla rivoluzione francese) fosse basato sul contratto. Per lui il contratto era un termine borghese (tipico di Rousseau e di tutto il giusnaturalismo) di basso livello etico.

Il contratto, infatti, è basato sul reciproco interesse (che è relativo per definizione, cioè contestuale alle categorie di spazio e tempo), mentre il suo lato idealistico, filosofico, pretendendo d’essere “assoluto”, aveva bisogno di credere in qualcosa che andasse oltre il mero interesse (per es. il diritto inalienabile dello stato di natura); anche perché questo interesse si configurava come qualcosa di economico o di materiale (al massimo si poneva come diritto all’esistenza in vita dei contraenti, i quali, non volendosi sterminare a vicenda, a causa delle rispettive esigenze di proprietà, per lo più conflittuali, rinunciavano a una parte della loro libertà personale per avere in cambio dallo Stato maggiore sicurezza collettiva).

Hegel era un idealista e s’immaginava il suo moderno Stato prussiano come espressione di un ethos popolare ancestrale. La Germania aveva sì fatto la riforma protestante (che rappresentava la libertà individuale rispetto all’autoritarismo e alla corruzione della Chiesa romana), ma la borghesia aveva cercato un grande compromesso con l’aristocrazia. E per un idealista come lui l’aristocrazia era più importante, perché più legata a un passato glorioso, militaresco, di lotta contro l’impero schiavistico romano, ma anche di lotta degli imperatori contro la teocrazia pontificia.

Stessa cosa era avvenuta in Italia, dove, pur essendo nata la borghesia già coi primi Comuni medievali, e sviluppatasi con le Signorie e i Principati, non si riuscì a compiere una vera rivoluzione politica, che portasse all’unificazione nazionale (quella che chiedeva Machiavelli, il fondatore della scienza politica moderna). Bisognerà aspettare Garibaldi e le guerre d’indipendenza.

In tal senso è giusto dire che, per quanto l’Italia abbia vissuto lo sviluppo dell’economia borghese per circa mezzo millennio, la vera affermazione di questa classe si ha solo nei tre Paesi nord-europei che fecero la rivoluzione politica e l’unificazione nazionale: Olanda (che unì la rivoluzione a una lotta calvinistica contro il colonialismo cattolico-spagnolo), Francia (che si liberò della presenza inglese nella guerra dei Cent’anni, realizzando altresì un compromesso tra cattolici e calvinisti-ugonotti) e Inghilterra (che con la dittatura borghese di Cromwell ridimensionò di parecchio il ruolo politico della nobiltà e della monarchia, dando all’anglicanesimo un’impronta calvinistica).

Altri Paesi (come per es. Spagna e Portogallo) fecero sì l’unificazione nazionale (contro islamici ed ebrei), ma, non avendo fatto una rivoluzione politica propriamente borghese, non riuscirono a fronteggiare con successo la competizione con Francia e Inghilterra (quest’ultima, dopo la propria rivoluzione, sottomise anche l’Olanda).

Il merito dell’Italia si limitò al settore economico-finanziario e soprattutto a quello culturale (con l’Umanesimo e il Rinascimento, due forme “ateistiche” ante-litteram). A livello scientifico l’ultima espressione “borghese” la diede con le concezioni astronomiche di Galilei. Poi più nulla fino all’unificazione nazionale (famose comunque le Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri).

Paradossalmente Italia e Germania (la prima sul versante cattolico, la seconda su quello protestante-luterano) si trovarono a vivere un destino comune: un idealismo antistorico, cioè al di fuori di un processo economico europeo dominato da potenze capitalistiche sempre più industrializzate. Poi, per recuperare il tempo perduto, furono costrette ad affidarsi alle dittature nazi-fasciste. Ma era troppo tardi: il mondo era già stato diviso, e, per suddividerlo nuovamente, occorreva una borghesia calvinista ancora più agguerrita di quella europea sul piano militare, ancora più capace sul piano economico-finanziario, e il capitalismo la trovò negli Stati Uniti. Solo oggi stiamo assistendo alla transizione dal capitalismo privato americano (che guida quello dell’intero occidente) al socialismo mercantile cinese.

Ora, a parte questo excursus storico, l’affermazione di Pašukanis sarebbe da criticare per un’altra ragione. Anche Hegel diceva che un individuo, al di fuori di un contesto sociale, è una pura astrazione, ma un comunista non dovrebbe limitarsi a criticare il capitalismo solo perché offre un significato all’esistenza giuridica di un individuo sulla base del fatto che il contratto rispecchia la pratica economica dello scambio degli equivalenti. Se bastasse solo questo, a cosa si ridurrebbe il socialismo? A rendere il suddetto scambio più equo in virtù della pianificazione statale della produzione? Era forse per questo motivo che Pašukanis riteneva insensato produrre un nuovo diritto, di tipo “proletario”?

Purtroppo nel suo libro non viene posto neanche lontanamente il problema di cosa voglia dire per un individuo vivere in un “contesto sociale” in cui siano inutili sia lo scambio degli equivalenti che il contratto giuridico. In definitiva resta un libro astratto.


Le astrazioni sono fittizie




Pašukanis è rimasto come abbagliato al vedere che nel capitalismo tutto si trasforma in una pura astrazione. Scrive: “In un’impresa che si struttura come società per azioni il capitalista rappresenta solo il titolare di una certa quota di reddito non proveniente da lavoro. La sua attività economica e giuridica, in quanto proprietario, è ristretta quasi esclusivamente nella sfera del consenso improduttivo” (p. 139).

Questo tuttavia non è vero, non lo è mai. Infatti nel capitalismo finanziario le colonie, coi loro lavoratori sottopagati e le tante loro risorse, continuano a produrre per le rispettive madrepatrie. E se anche, col tempo, il rapporto di dipendenza cessa d’essere brutale, se ne forma, inevitabilmente, uno nuovo, più economico-finanziario che politico-militare, tant’è che gli economisti parlano di “neo-colonialismo”. Un’inversione di tendenza si sta manifestando solo adesso, parlando di “Sud globale” e di “mondo multipolare”, col pieno appoggio dei BRICS.

Dunque l’astrazione è solo apparente. E poi, attraverso le borse di tutto il mondo, il capitalista-rentier finanzia imprese reali, che sfruttano operai reali. Le società per azioni, i trust, i cartelli monopolistici rappresentano un capitalismo avanzato, ma non meno feroce di quello tradizionale, disposto a qualunque conflitto pur di veder aumentare le proprie entrate. Il diritto non aumenta d’importanza, ma, al contrario, la perde sempre più, proprio perché il potere finanziario è così immenso che pensa di poterne fare a meno.

Non c’è nessuna “impersonale forza di classe” (ib.), ma solo capitalisti che, per non essere individuati e colpiti, si nascondono dietro paraventi. Il capitalismo finanziario è la prova più schiacciante che solo una rivoluzione popolare può realizzare la transizione al socialismo.

In tal senso è sbagliato affermare che quando si passa dal libero mercato al monopolio le “organizzazioni capitalistiche a gestione privata” si fondono con le “organizzazione di Stato in un solo potente sistema del capitalismo di Stato borghese” (p. 140). Il capitalismo occidentale è fondamentalmente privato. Non possono esserci dubbi in merito. Lo Stato serve soltanto a proteggerlo contro i monopoli privati di altri Stati. Non esiste una gestione “statale” dell’economia (se non in misura molto limitata), poiché la borghesia stessa non lo permetterebbe (anzi in genere è la borghesia che si appropria di beni statali dismessi, venduti all’asta).10

Lo Stato borghese è solo uno strumento politico, diplomatico e, all’occorrenza, militare. Diventa anche uno strumento economico e finanziario soltanto là dove la stessa borghesia lo richiede, ma ciò avviene solo per un tempo limitato e per un obiettivo specifico. Per es. il nazifascismo ebbe bisogno di un capitalismo statale contro quello privato degli anglo-francesi, ma non gli servì a niente, poiché la forza del capitalismo privato non sta tanto nella “privatezza” in sé, quanto piuttosto nel fatto che tale privatezza è stata imposta, come metodologia, a gran parte del pianeta. Il capitalismo privato europeo è stato superato da un capitalismo ancora più privato, ma più potente sul piano delle risorse naturali e nell’ampiezza del mercato interno: quello statunitense.

Parlare di capitalismo vuol dire parlare di individualismo. Se per un motivo contingente i capitalisti chiedono allo Stato un intervento più diretto nell’economia e nella finanza, ciò non metterà mai in discussione la privatezza della proprietà. Lo Stato può essere utilizzato per salvare, con le tasse dei cittadini, una banca in procinto di fallire, o per dichiarare guerra a un altro Stato, ma non può mai mettere in discussione il fatto che il capitalismo occidentale ha anzitutto e soprattutto una natura privata.

Se non fosse così, questo capitalismo, oggi, non si troverebbe in grandissima difficoltà di fronte alla concorrenza del capitalismo statale di marca cinese, o comunque di tipo “asiatico”, in cui bisogna inserire anche quello russo. In quest’area del pianeta il capitalismo può essere “statale” proprio per le tradizioni collettivistiche che l’han sempre caratterizzata.

La Russia assomiglia all’Europa occidentale solo nella sua area europea, ma con l’ascesa al potere di Putin ha prevalso il collettivismo della cultura siberiana, che è asiatica per eccellenza.

In Cina si parla di “socialismo”, ma il partito comunista specifica che ha “caratteristiche cinesi”, cioè asiatiche o collettivistiche, difficilmente esportabili in occidente. Il socialismo cinese non vuole assomigliare neanche lontanamente a quello europeo, che difende a spada tratta il capitalismo monopolistico privato e i grandi fondi finanziari privati, anche a costo di scatenare conflitti armati su vasta scala.


Dal capitalismo statale verso cosa?




Il diritto borghese o la giurisprudenza in generale non possono essere capiti rifacendosi alla filosofia e neppure all’economia. Ci vuole la storia. Solo che quando si legge il libro di Pašukanis si vede al massimo un po’ di storia dell’economia, alla maniera marxiana. Invece si avrebbe bisogno anche di una storia della cultura, che includa l’assiologia. Non si può ridurre l’ontologia a una fenomenologia, poiché, alla resa dei conti, l’analisi diventa superficiale.

Noi non abbiamo soltanto bisogno di capire come sia avvenuta la transizione dall’autoconsumo al mercato, ma anche se in tale transizione si sia davvero fatto un passo avanti o no.

Le ultime pagine, 141-44, del capitolo IV, “Merce e soggetto”, sono piuttosto importanti per capire il Pašukanis complessivo, anche perché alla nota 15 di p. 143, della terza edizione (1927), fu costretto ad ammettere che nell’ambito dell’esperienza sovietica parlare di “capitalismo statale” non aveva senso. Ciononostante l’impostazione generale del libro rimase quella.

Com’era venuto nelle edizioni precedenti a parlare di capitalismo statale? Era stato perché, da un lato, aveva constatato che nel passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico si era imposta una inaspettata pianificazione della produzione da parte delle concentrazioni monopolistiche, fino al punto in cui si poteva persino scorgere la presenza di un capitalismo statale. Dall’altro invece aveva ipotizzato che, nell’ambito di una “transizione socialista”, cioè in assenza di un comunismo vero e proprio, sarebbe stato impossibile eliminare lo scambio degli equivalenti tra le grandi industrie nazionalizzate.

Detto altrimenti: il socialismo poteva superare, col tempo, l’individualismo mercantile, ma la statalizzazione dell’economia non avrebbe potuto eliminare il mercato. Questo perché, se l’avesse fatto, si sarebbe eliminato tutto: lo scambio degli equivalenti, i contratti e quindi il diritto. Questo pensava Pašukanis.

Il che – secondo noi – non sarebbe stato un male, se si fosse però affermato il sacrosanto principio comunista, secondo cui ciascuno produce secondo le proprie capacità e riceve secondo i bisogni: un principio che gli stalinisti volevano ritardare sine die.

In sostanza Pašukanis aveva ammesso che una concentrazione statalizzata dei mezzi produttivi non sarebbe stata di per sé sufficiente a creare il comunismo. Solo che, invece di precisare ch’era lo Stato l’ente da superare per arrivare al comunismo, si era semplicemente limitato a constatare che lo Stato socialista ereditava una situazione sociale non favorevole al socialismo, in quanto caratterizzata da una diffusa produzione mercantile. Per lui la transizione non poteva che essere molto lunga e faticosa.

In pratica era la NEP leniniana a dover essere procrastinata ad libitum. Lo Stato avrebbe potuto prevalere sulla privatezza dell’economia soltanto dimostrando d’essere più efficiente e produttivo. Un’idea, questa, che Lenin aveva ribadito più volte. Purtroppo però Pašukanis si scontrò col fatto che lo stalinismo non era disposto a perdere troppo tempo. Stalin infatti s’inventò il rischio dell’accerchiamento capitalistico e, in cambio di una maggiore sicurezza statale, soffocò ogni libertà personale, salvo poi far sentire tutti insicuri proprio a causa della forza dello Stato.


Quale socialismo?




Quando Pašukanis scrisse il suo libro, in URSS dominava la NEP leniniana. È ben evidente anche da questa sua affermazione: “le aziende che appartengono allo Stato sovietico lavorano a un medesimo compito comune, ma – dato che operano secondo criteri di mercato – si riferiscono a un proprio distinto interesse e si oppongono quindi l’una all’altra, come acquirenti e venditori, muovendosi a proprio rischio e pericolo” (p. 145).

Nessuno avrebbe potuto dire una cosa del genere un decennio dopo. Secondo lo stalinismo sarebbe stato impensabile che sotto un socialismo statale le aziende (industriali o agricole) fossero in competizione tra loro. Al massimo si dava la precedenza alla produzione industriale rispetto a quella agricola. Più in generale si poteva parlare di “emulazione”, non di concorrenza, e si premiavano i migliori con riconoscimenti simbolici. Per contro, si punivano ferocemente tutti quelli che mettevano in discussione gli obiettivi dei piani quinquennali o la loro effettiva realizzazione.

Pašukanis ragionava come se avesse a che fare con un capitalismo statale da regolamentare attraverso il diritto. Cioè voleva far passare la pianificazione economica attraverso la democraticità del diritto borghese (pur contraddetto, nel capitalismo, dalla proprietà privata). Quindi dava per scontato tempi lunghissimi e, per di più, dai risultati incerti. Per lo stalinismo era una colossale ingenuità (anzi una forma di sabotaggio).

Oggi qualcuno potrebbe dire, a fronte dell’implosione del cosiddetto “socialismo reale”, che Pašukanis aveva la vista lunga. Può darsi, ma di sicuro non dal punto di vista del socialismo democratico.

Qui bisogna sgombrare il campo da un equivoco di fondo. Transizione “democratica” del socialismo non vuol dire che la società si deve amministrare secondo il diritto borghese, né che lo Stato debba servire per regolamentare, in ultima istanza, le eventuali distorsioni dell’economia, né che debba esistere una pianificazione dell’economia gestita, a livello nazionale, da esperti economisti.

Essere contrari al socialismo statalizzato non prevede niente di tutto ciò. La pianificazione va fatta, certo, ma a livello locale, nell’ambito della singola e autonoma comunità territoriale. Il diritto può esistere, ma a livello di regole elementari, dettate più che altro dal buon senso. Si può parlare di democrazia, ma a condizione che sia diretta (quella delegata va bene solo in specifici casi). Si può parlare anche di mercato, ma solo a condizione che si barattino le eccedenze di una produzione basata sull’autoconsumo.

Di sicuro non può essere prevista la presenza di uno Stato, poiché ciò negherebbe di per sé, a prescindere da chi lo amministrasse, la principale libertà umana, che va rigorosamente tutelata, quella di coscienza.

Purtroppo Pašukanis non capisce nulla di comunità pre-schiavistiche. Se le immagina con caratteristiche del tutto negative; sostanzialmente, quando ne parla, tende a riferirsi all’epoca feudale, che però purtroppo era già caratterizzata, ovunque, dal fenomeno del servaggio. Anche in questo capitolo si esprime con affermazioni che lasciano il tempo che trovano: “Nell’epoca tribale ogni estraneo era visto come un nemico e non godeva di protezione più di una belva” (p. 146). Quando l’analisi storiografica è così limitata, rischia di diventarlo anche tutto il resto.


L’interpretazione della storia




C’è un aspetto per la comprensione del quale Pašukanis non riesce ad andare al di là di un pregiudizio di fondo. Tale pregiudizio in un filosofo borghese del diritto può apparire del tutto normale. Fa specie però vederlo in uno che si definisce “marxista”. Evidentemente era ben radicato nella cultura di quel tempo. D’altra parte lo è ancora oggi nell’ambito del cosiddetto “occidente collettivo” (una categoria che va ben oltre il suo significato geopolitico, investendo elementi che riguardano un’intera civiltà). Il pregiudizio sta nel guardare il passato con gli occhi del presente. E questo, dopo i grandi studi dell’etno-antropologia, non è ammissibile.

Dalla nascita dello schiavismo sino al suo tempo (anni ’20 e ’30 del XX sec.) Pašukanis vede un periodo che potrebbe tranquillamente definire come “evoluzione progressiva”. Il fatto che i rapporti schiavili e servili si siano come spersonalizzati nel mercato capitalistico, dando origine a un diritto borghese, per lui è stato un incredibile passo avanti dell’umanità, di cui il socialismo statale non rappresenta che il legittimo erede, fatta salva, ovviamente, la sua superiorità sociale rispetto al capitalismo.

Si faccia attenzione a queste sue sintomatiche affermazioni: nell’antica Roma non esisteva un diritto pubblico vero e proprio, se non in riferimento all’organizzazione gentilizia; una specie di diritto pubblico si forma quando i Romani iniziano a commerciare con gli stranieri (p. 147). Stessa cosa nel Medioevo: il feudatario non fa differenza tra diritto pubblico e privato.

Per lui il diritto pubblico è la quintessenza del “diritto” in generale. Se non si è capaci di fare differenza tra le due tipologie di diritto (pubblico e privato), non si è capaci di vero “diritto”, cioè di razionalità, tant’è che la società è ancora dominata da una concezione religiosa della vita.

Sono tutte frasi letteralmente senza senso. Non solo perché la religione non è di per sé meno scientifica o meno democratica del diritto borghese o della stessa scienza borghese, la cui vera “laicità” è sempre tutta da dimostrare. Ma anche e soprattutto perché Pašukanis non vede lo schiavismo come una degenerazione della comunità primitiva da cui storicamente proveniva, e che gli era immediatamente precedente.

Cioè praticamente non s’avvede che se nello schiavismo non si riusciva a fare una precisa differenza tra diritto pubblico e privato, era perché questa differenza non esisteva neppure prima, al tempo del comunismo primordiale. Solo che, mentre in questo periodo era del tutto normale, esistendo piena uguaglianza fattuale in tutto ciò che caratterizzava la comunità, viceversa nello schiavismo il contesto sociale era completamente cambiato, in quanto si era passati alle disuguaglianze di ceto e di classe, in virtù dell’uso di una certa forza fisica legittimata dalla religione. La nascita del paganesimo non fece che giustificare una transizione antidemocratica, in cui il ruolo del diritto era inevitabilmente classista.

Pašukanis non riesce a capire che il superamento dello schiavismo e del servaggio, da parte del capitalismo, non ha affatto comportato un aumento significativo della democrazia, né che tale aumento possa essere riscontrato nella differenza che il diritto pone tra pubblico e privato.

Infatti la differenza tra schiavismo fisico, basato sulla forza, e schiavismo salariato, basato sul contratto, è del tutto relativa, non essendo affatto un indice di progresso. Anzi, considerando la diffusione mondiale del capitalismo, quella differenza è un indice di pericolosa involuzione del genere umano, che, a causa del progresso tecnologico, si trova sempre più a vivere con l’angoscia della propria estinzione. Né lo schiavismo né il servaggio arrivarono mai a coinvolgere l’intero pianeta.

Oggi restano al massimo un centinaio di tribù primitive, costrette a vivere isolate per non essere sterminate dal nostro “progresso”. La maggior parte è concentrata in Perù, Brasile, Colombia, Bolivia, Equador, Paraguay, India e Papua. E tutte hanno capito che qualunque contatto con noi civilizzati, per loro sarebbe mortale.

Insomma, l’interpretazione della storia del genere umano va rovesciata. L’epoca d’oro è stata quella che oggi consideriamo semi-animalesca.


Teoria dell’inganno




Lo Stato non è qualcosa di “impersonale”, come lascia pensare Pašukanis, ma è una finzione e, come tale, è destinato a scomparire; se lo considerassimo un’istituzione eterna, come una sorta di diritto naturale inalienabile, la distruzione di buona parte dell’umanità (o forse tutta) sarebbe assicurata. Infatti, quanto più lo Stato si presenta in maniera astratta, tanto meglio può essere gestito dai poteri forti, che pensano esclusivamente ai loro interessi, anche a costo di scatenare l’inferno.

Quindi la definizione che ne dà Pašukanis è sbagliata: lo Stato non si forma per un accumulo di determinazioni quantitative; il suo campo d’intervento non è “una comunicazione mercantile abbastanza vasta” (p. 147). Anche il vastissimo impero romano era una società mercantile, ma non per questo si può parlare di “capitalismo” o di “diritto astratto”.

Lo Stato è uno strumento di dominio creato da determinati gruppi sociali (o anche da uno solo) per opprimere la maggioranza della popolazione, facendo credere che l’oppressione sia, per qualche motivo, normale o necessaria. Nel mondo schiavistico lo Stato era rappresentato da un sovrano e dal suo sacerdote. E da subito il sovrano pretendeva di porsi in maniera equidistante dagli interessi di ceto o di classe. Anzi, aveva lo specifico scopo di far credere che gli interessi generali di una vasta popolazione dovevano coesistere con altri interessi particolari, al fine di realizzare un bene comune. Naturalmente il sacerdote doveva mostrare (eventualmente con qualche trucco) che tale operazione era voluta da un’entità superiore, di cui il sovrano incarnava la volontà. Non c’è schiavitù senza un’interpretazione religiosa di ciò che la giustifica.

Lo Stato non nasce dall’idea di separare il diritto pubblico da quello privato, come vuole Pašukanis. Non nasce da una necessità estranea alla società. Lo Stato schiavista (che è mercantile per definizione) è l’espressione di una forza fisica violenta (che diventa poliziesca e militare), proprio perché schiavismo vuol dire dominio dell’uomo sulla donna e sui figli, del sano sul malato, del giovane sull’anziano, del cittadino sullo straniero, di un clan su un altro (che poi diventa di una tribù su un’altra), di una popolazione stanziale su una nomadica, di chi sa maneggiare bene le armi su chi non lo sa fare con la stessa abilità, di chi sa usare astuzia menzogna cinismo su chi appare ingenuo e sprovveduto.

Qualunque espressione giuridica di questi rapporti è una finzione, un inganno. Se col tempo si forma un diritto pubblico, non è perché il potere vuole differenziarlo da quello privato, o perché vuole rispondere a una maggiore esigenza di democrazia da parte della società, ma perché la classe o il ceto minoritario vuole dominare meglio la popolazione, usando strumenti meno diretti, meno espliciti di quelli della forza fisica. Il dominio diventa più economico-finanziario (o più politico-ideologico) che fisico, anche se la violenza fisica resta sempre valida in ultima istanza, come extrema ratio.

A volte gli storici si chiedono perché non si sia passati direttamente dallo schiavismo al capitalismo. Il motivo sta nel fatto che il paganesimo doveva essere sostituito col cristianesimo (soprattutto con il suo culto astratto della persona, che va oltre qualunque circostanza esteriore, ambientale, sociale...). Inoltre doveva risultare evidente alla stragrande maggioranza dei lavoratori – i contadini – che l’autoconsumo delle comunità di villaggio, rispetto ai mercati urbani di epoca schiavistica, non aveva rappresentato una vera alternativa, ma un grande inganno, in quanto, in definitiva, aveva prevalso la rendita feudale delle persone militarmente più forti, che con la forza avevano privatizzato un bene comune, la terra. Senza questa grande disillusione e senza la falsità del cattolicesimo-romano non sarebbe mai nato il capitalismo mercantile nei Comuni italiani del basso Medioevo. Fu il borghese il primo a chiedersi che non c’era motivo di non essere falsi, visto che il primo a esserlo era il papa in persona.

Non ha quindi senso dire che lo Stato moderno nasce con lo “scambio”, poiché non solo tutte le società schiavistiche erano mercantili, ma anche perché la presenza di un mercato, in cui si barattavano le eccedenze, esisteva anche prima dello schiavismo. Pašukanis non capisce che nella storia è molto raro vedere che una cosa esiste nel presente ma non nel passato. In genere le cose che esistono sono sempre quelle, ma secondo forme e modi che possono anche renderle irriducibilmente contrapposte. Se non fosse così, l’inganno sarebbe molto più complicato. Eva infatti cedette alle lusinghe del serpente dopo aver chiarito qual era l’esatto ordine che dovevano eseguire: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare”.


Equidistanza e coercizione




Nel suo libro, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, che riassume le ultime idee di Marx, Engels dà una precisa interpretazione dello Stato, che sicuramente nulla aveva a che fare con quelle degli studiosi borghesi. Infatti dava per assodato che alla scomparsa degli antagonismi sociali, lo Stato avrebbe fatto la stessa fine. Sarebbe stato inconcepibile un socialismo maturo, cioè un comunismo, in presenza di un apparato repressivo. Uno Stato non avrebbe senso neppure se si limitasse a impedire il formarsi di interessi sociali contrapposti.

Semmai Engels prevedeva che la transizione dal capitalismo al socialismo sarebbe avvenuta solo quando fosse stato palese a tutti che le classi contrapposte costituivano “un ostacolo effettivo alla produzione”. S’immaginava cioè una transizione non particolarmente cruenta ma dettata dal buon senso, dalla ragionevolezza. Non solo, ma dava per scontato che il socialismo dovesse proseguire, pur con altre modalità, la medesima strada dell’industrializzazione inaugurata dalla borghesia.

Questi tuttavia sono altri discorsi, che rientrano nello sviluppo euroccidentale del socialismo e su cui non possiamo soffermarci. In particolare non possiamo pretendere che a fine ’800 i classici del marxismo avessero piena consapevolezza degli enormi danni ambientali causati proprio dall’industrializzazione.

Qui invece si deve purtroppo constatare che l’interpretazione data da Pašukanis alle affermazioni engelsiane relative al ruolo dello Stato sono piuttosto fuorvianti. Cioè non è esattamente vero che “il potere statuale emerge non già in quanto coercizione di classe, ma come qualcosa che sovrasta le classi, che libera la società dalla disintegrazione e che solo in un secondo momento diventa strumento di usurpazione” (p. 149).

Queste due funzioni dello Stato non sono mai politicamente separabili, storicamente disgiungibili. Ovviamente non possiamo pensare che lo Stato borghese sia esistito prima della nascita del capitalismo. Son solo gli storici tendenziosi che collegano l’odierna civiltà capitalistica a quelle mercantili di epoca schiavistica, considerando “buia” l’epoca feudale, ed evitando accuratamente di parlare di conflitti di classe. Arrivano persino a sostenere che in certe antiche civiltà non esistevano neppure gli schiavi, mostrando così di non afferrare la differenza, di non poco conto, tra schiavismo privato e schiavismo statale.

Gli storici borghesi si compiacciono delle grandi espressioni artistiche e architettoniche delle civiltà antiche; si esaltano nel vedere le grandi opere di urbanizzazione, le magnifiche infrastrutture, chiedendosi ogni volta come fosse possibile realizzare monumenti del genere senza la nostra tecnologia. E non capiscono che quando vige lo schiavismo statale si può realizzare qualunque cosa, anche con una tecnologia di molto inferiore alla nostra. Questo perché il potere aveva a disposizione un’enorme manodopera a costi irrisori e per tempi molto lunghi, nei confronti della quale poteva anche non incontrare limiti invalicabili.

Una cosa però è comune a tutte le civiltà basate sull’antagonismo sociale: il carattere fittizio, artificioso delle istituzioni pubbliche, cioè la loro intrinseca violenza mascherata da un diritto che solo formalmente appariva giusto; un diritto che ovviamente, non essendoci la nostra tecnologia, con cui ci s’illude di poter dominare ad libitum la natura, era ammantato di religiosità.

Da questo punto di vista l’alternativa che pone Pašukanis, nel mentre chiosa le affermazioni di Engels, è sostanzialmente sbagliata. Così scrive: “o lo Stato sancisce quel rapporto [antagonistico] e si configura come forza al di sopra delle classi – idea non accettabile –, oppure esso è il risultato della vittoria di una classe, ma in tal caso viene a mancare per la società la necessità stessa dello Stato, nella misura in cui con la vittoria decisiva di una classe si ristabilisce uno stato di equilibrio e la società è salva” (p. 150).

Incredibile un pensiero così ingenuo da parte di un cultore del marxismo classico! Qui non solo non si capisce che l’equidistanza dello Stato è la sua principale mistificazione, che durerà sino a quando non finirà l’antagonismo sociale; ma non si capisce neppure che, al di fuori del socialismo, una classe sociale vittoriosa sulle altre è sempre una classe minoritaria, che avrà sempre bisogno di uno Stato che rappresenti, formalmente, la totalità dei cittadini. Il che non vuol affatto dire che il diritto, col passare del tempo, sia destinato a diventare tanto più democratico quanto più aumenta la consapevolezza dei diritti tra la popolazione; ma semplicemente che il potere costituito pretende di saper interpretare in maniera autonoma e convincente le esigenze più popolari e quindi di saper formulare un diritto che le rappresenti. Sta poi alla popolazione dimostrare la falsità di questa pretesa e di questa interpretazione. Basti pensare che la Costituzione staliniana del 1936, che pur appariva più democratica di quelle precedenti, fu varata nel periodo delle epurazioni di massa.

La posizione ingenua di Pašukanis somiglia a quella di Bucharin, che solo all’ultimo momento si rese conto che anche sotto il socialismo statale si sarebbe potuto creare un pericolosissimo antagonismo sociale tra classe intellettuale e popolazione, tra intellettuali definiti “ideologicamente allineati” e “nemici del popolo”, tra città e campagna, tra industria e agricoltura, tra area europea della Russia e area asiatica, persino tra Stato e società, cioè tra piano e mercato.


Ideologia e Stato




Prendiamo questo pensiero di Pašukanis e cerchiamo di capire perché non è dialettico.

Lui parte da una domanda, cui non sa trovare una risposta, e non s’accorge che la domanda è sbagliata. Si chiede: “perché il sistema della coercizione statuale non si determina già come apparato privato della classe dominante, ma assume caratteri distintivi di apparato pubblico impersonale, separato dal corpo della società?” (p. 150).

In un certo senso la risposta è già contenuta nella stessa domanda: il fenomeno avviene proprio perché esiste una “classe dominante”. Se a dominare è una “classe”, l’innaturalezza di questo arbitrio rende inevitabile la costruzione di un artificio che dia l’impressione di una sua necessità o inevitabilità. La stessa esigenza di “dominare” contrasta con ogni forma di democrazia.

Quando si sostiene che “democrazia” vuol dire “governo del popolo”, si afferma una tautologia, in quanto se il popolo non governa, inevitabilmente ciò viene fatto da una particolare classe sociale. Un popolo che governa non avrebbe neppure bisogno né di uno Stato né di una Costituzione, in quanto, se un popolo non basta a se stesso, non vi è assolutamente nulla che possa sostituirlo. La presenza stessa di una qualsivoglia istituzione pubblica indica l’assenza di una democrazia diretta, e quindi di un autogoverno popolare.

L’istituzione, sia essa un monarca o uno Stato, implica di per sé il carattere permanente della delega, tant’è che le democrazie borghesi sono fondamentalmente rappresentative. Neppure il moderno socialismo ha mai superato questo limite.

Quindi l’apparato pubblico si presenta come “impersonale” proprio perché l’unico vero potere viene esercitato da una o più classi specifiche. Al resto della popolazione è consentito al massimo un astratto suffragio universale, un diritto di voto con cui esercitare il potere di delega, cioè una gestione molto indiretta, anzi fittizia, dei bisogni sociali.

Lo Stato deve offrire di sé soltanto una percezione falsata della propria separatezza, neutrale ed equidistante, dalla società: è come un miraggio nel deserto o un cucchiaino spezzato all’interno di un bicchier d’acqua. Perché Pašukanis non riesce a capire una cosa che per un marxista dovrebbe essere lapalissiana?

La sua spiegazione si riduce ai seguenti termini: uno Stato equidistante è tipico della società borghese, caratterizzata dallo scambio (impersonale) degli equivalenti; il diritto pubblico che legittima questo Stato è l’ideologia egualitaria che nasce dal mercato; la nascita di questa ideologia avviene spontaneamente, in maniera oggettiva, senza dipendere dalla volontà degli uomini; prima di questa ideologia vi era la teologia, che non permetteva alcuna forma di uguaglianza, se non nei “cieli”.

Questa è una spiegazione che non spiega nulla. Infatti non sarebbe mai nata la società borghese se nell’Europa occidentale dell’alto Medioevo la Chiesa romana non avesse imposto una grande corruzione morale e sociale. Fu il fallimento degli ideali religiosi che portò alla trasformazione di una teologia fasulla, contraddetta apertamente dalla prassi ecclesiastica, in un diritto che i mercanti vollero far credere più giusto, ma che, alla resa dei conti, non era meno fasullo.11

La borghesia creò un diritto anti-teologico, salvaguardando i riferimenti astratti al cristianesimo (stessa cosa fece nell’arte e nell’architettura). Nel contempo oppose il mercato urbano all’autoconsumo rurale. Non c’era maggiore democrazia nei Comuni italiani del basso Medioevo, ma solo una diversa dittatura rispetto a quella ecclesiastica, supportata dalla nobiltà, sempre in conflitto (papato e aristocratici) con l’autorità imperiale.

Gli antagonismi sociali, all’interno dei Comuni, furono sempre così aspri ch’essi si dovettero trasformare in Signorie, e queste in Principati. Tutti i Principati furono così forti che le guerre tra loro impedirono l’unificazione nazionale. Intanto però la borghesia italiana, pur conducendo una vita scandalosa, aveva fatto capire all’intera Europa qual era il modello da seguire per creare qualcosa che avesse solo l’apparenza di una reale alternativa alla società feudale.


Questioni religiose




Quando parla di religione, Pašukanis tende a riferirla al Medioevo e a darne un giudizio sempre negativo. Non imposta un discorso storiografico, ma mette la teologia cristiana in relazione al diritto borghese, che per lui è infinitamente più democratico rispetto a qualunque religione in generale. Tale atteggiamento è molto semplicistico, non foss’altro perché già Engels, ne La guerra dei contadini, aveva elogiato il primo Lutero per le sue idee politico-religiose eversive.

Infatti la religione in sé non è reazionaria: dipende sempre da come la si usa. I vangeli sono chiaramente nati per realizzare un compromesso tra cristianesimo e impero romano, però contengono anche aspetti di una certa radicalità. Non a caso la teologia sudamericana della liberazione, che aveva trovato degli agganci tra cristianesimo e marxismo, fu sottoposta a scomunica da parte del Vaticano al tempo della coppia Wojtyla-Ratzinger. Anche in Italia per molto tempo, nei decenni scorsi, si era parlato di cristianesimo per il socialismo e di catto-comunismo. Tutti i movimenti pauperistici medievali, ad eccezione dei due istituzionalizzati con apposite Regole conformistiche – il francescano e il domenicano –, furono dichiarati eretici e duramente perseguitati, con tanto di crociate interne. Le loro idee passarono poi ai teologi della Riforma protestante, in senso ancora più eversivo, in quanto si voleva una rottura traumatica e definitiva col papato, che comportò guerre a non finire, essendo la Chiesa cattolico-romana sostenuta dall’impero spagnolo.

Purtroppo Pašukanis mostra di non sapere nulla dell’evoluzione del cristianesimo (almeno nel libro oggetto d’esame), né dei rapporti di quest’ultimo col paganesimo. Lui resta un filosofo del diritto borghese, al quale vuole togliere, essendo un giurista comunista, la contraddizione insolubile tra teoria e pratica. Cioè il diritto, per essere davvero giusto e democratico, deve riflettere una pratica socialista, in cui il piano statale sia un’alternativa radicale all’anarchia del mercato capitalistico: un mercato che, anche quando è dominato dai monopoli, resta troppo individualistico per essere equo. Pašukanis in sostanza vuole dimostrare che la Russia socialista, a motivo del suo tradizionale collettivismo, poteva porsi come legittima erede del capitalismo di stato europeo.

Qui però possiamo approfittarne per sintetizzare gli ultimi 2000 anni di storia del cristianesimo. Questa religione è stata fondata da Pietro e Paolo, non da Gesù Cristo, il quale era ideologicamente ateo e politicamente sovversivo, avverso alla colonizzazione romana della Palestina e al collaborazionismo della classe sacerdotale che gestiva il Tempio di Gerusalemme.

Fu dopo la sua morte che, sostituendo all’idea di insurrezione politico-nazionale quella di resurrezione personale del figlio di Dio, fu inventato il cristianesimo petro-paolino. In particolare fu Paolo di Tarso che trovò una sintesi teologico-mistica tra ebraismo (reinterpretato in chiave meramente spiritualistica) e paganesimo cosmopolita (trasformato da politeistico a triteistico). La sintesi era priva di connotati politici sovversivi, salvo l’idea di mantenere distinta la Chiesa dallo Stato, non permettendo ai cristiani di prestare un culto all’imperatore: il che scatenò persecuzioni insensate sino alla svolta costantiniana.

Detta teologia, ereditata da quella che ancora oggi si chiama “ortodossia” (greco-bizantina e slava), fu combattuta da quella cattolico-romana (o latina), che pretese di attribuire al pontefice un potere politico assoluto, superiore a quello di qualunque altro ecclesiastico dell’ecumene cristiano e a qualunque sovrano imperiale (d’oriente e d’occidente). Il che diede inizio a quello che passò alla storia come il millenario Stato della Chiesa, durato sino al 1870. La rottura con la Chiesa ortodossa avvenne nel 1054 e da allora non fu più ricomposta.

Questa confessione teocratica o integralistica fu contestata – come si diceva – dai movimenti pauperistici medievali e dalla Riforma protestante, la quale si suddivise, grosso modo, in due grandi tronconi: luteranesimo e calvinismo. La Riforma, scoppiata nel 1517, si poneva come una laicizzazione e democratizzazione del cattolicesimo-romano; soprattutto nella sua variante calvinistica diede un impulso enorme allo sviluppo del capitalismo. In sostanza Calvino sdoganò due idee inconcepibili per il cristianesimo primitivo: la ricchezza personale è un indice di benevolenza divina, e il prestito a interesse è legittimo. Non ci fu alcun recupero né dell’ortodossia né dell’autentico messaggio politico del Cristo (che molti marxisti considerarono come un socialismo ante-litteram). Il territorio in cui il calvinismo, non avendo a che fare né con la Chiesa romana né con la nobiltà cattolica, poté meglio trionfare fu il Nordamerica. In Europa il calvinismo può essere constatato in Svizzera, in Olanda, tra le pieghe dell’anglicanesimo (che è un cattolicesimo solo sul piano formale, mentre il sovrano è capo della Chiesa) e nel cattolicesimo franco-gallicano (che non ammette l’ingerenza politica del Vaticano).

Oggi il progressivo dominio tecnologico della natura e il consumismo di massa hanno reso la religione, nel mondo occidentale, un fenomeno del tutto irrilevante. Il che però non impedisce ai presidenti americani, che sembrano svolgere un ruolo simile a quello dei “pontefici” medievali, di servirsi di idee religiose astratte per giustificare le loro pretese egemoniche sul mondo.


Il plusvalore statale




La pretesa idealistica che aveva Pašukanis di considerare teoricamente “puro” il diritto pubblico borghese e “impuro” quello privato, soggetto al primato della proprietà privata, e quindi di considerare lo Stato politico migliore della società civile, lo portò a fare affermazioni che, per ironia della sorte, potevano essere applicate proprio al socialismo statale, il quale però non aveva nulla di democratico.

Spesso infatti succede così: le parole son come la sabbia con cui si può riempire qualunque recipiente, destinando ognuno a usi contrapposti.

Scrive: “la subordinazione dell’operaio allo Stato capitalistico non può essere simile a quella nei confronti del singolo capitalista” (p. 151). È vero, ma un dipendente nei confronti di uno Stato borghese resta comunque un salariato o uno stipendiato, che soggiace a un medesimo sfruttamento capitalistico in generale. Non siamo più agli inizi del capitalismo, quando il mercato doveva farsi strada in mezzo all’autoconsumo e alla rendita feudale. Oggi anche l’operaio che lavora in un’azienda capitalistica occidentale partecipa allo sfruttamento delle risorse del Sud globale. Anche il docente che, in quell’apparato ideologico di stato chiamato scuola o università, contesta il sistema capitalistico, ne fa oggettivamente gli interessi.

Poi prosegue dicendo: la subordinazione non è la stessa, poiché “esiste un apparato specifico, separato dagli esponenti della classe dominante, che sovrasta ogni capitalista singolo e si presenta come potenza impersonale” (ib.).

Non vogliamo qui rimarcare il fatto che la suddetta “separazione” è puramente relativa, in quanto, nell’analisi del capitalismo, bisogna sempre saper distinguere quel che oggettivamente esiste (lo sfruttamento) da quel che ufficialmente la borghesia vuole mostrare (il diritto). Qui invece vogliamo fare un esperimento che nella psicanalisi freudiana veniva chiamato col termine transfert (o traslazione).

Proviamo a calarci nel socialismo statale di marca stalinista; sostituiamo le parole “capitalista singolo” con le parole “funzionario statale” o “imprenditore pubblico” (cioè chi gestisce, in nome dello Stato, un’impresa industriale la cui proprietà privata è stata abolita e quindi statalizzata). Che cosa otteniamo? Otteniamo che lo sfruttamento della forza-lavoro diventa una “questione di Stato”, per cui il plusvalore da privato diventa pubblico.

Se si fa coincidere Stato e società dal punto di vista dello Stato, il plusvalore non può essere impedito, né i lavoratori (ivi inclusi i funzionari statali che dirigono le aziende) possono controllare come tale plusvalore venga impiegato: ci si deve fidare del governo in carica e dei suoi ministeri. In tal senso sarebbe meglio dire che i funzionari statali, più che “dirigere” un’azienda, si limitano ad “amministrarla”, in quanto gli obiettivi produttivi sono fissati dal governo centrale (previa una semplice consultazione); e, poiché l’amministratore rende conto di persona del loro conseguimento, inevitabilmente l’autoritarismo s’impone anche nei rapporti intra-aziendali.

Ora, senza volerlo, Pašukanis aveva offerto allo stalinismo l’idea di poter utilizzare la forza-lavoro facendo credere che, in nome di una proprietà statalizzata dei mezzi produttivi, fosse impossibile parlare di “sfruttamento”.

Plusvalore vuol dire “lavoro non pagato”. Cioè l’imprenditore fissa in anticipo il prezzo di una determinata forza-lavoro e poi, usando varie modalità, la sfrutta oltre il prezzo pattuito: può far questo anche in presenza di contratti collettivi in cui i sindacati han giocato un ruolo di rilievo. È la proprietà privata dei mezzi produttivi che produce, di per sé, sfruttamento.

Un comunista può pensare che, statalizzando tale proprietà, lo sfruttamento cessi d’esistere e il lavoro venga pagato interamente, e che se anche dovesse esistere, per qualche motivo, un “plusvalore”, questo verrebbe ridistribuito equamente tra tutti i lavoratori che han contribuito a crearlo. Ma è un’illusione. Infatti, finché esiste un lavoro “pagato”, cioè finché al lavoro si corrisponde un salario o uno stipendio, lo sfruttamento resterà inevitabile.

Il socialismo statale non è che una variante del capitalismo privato: due facce di una stessa medaglia, che va gettata via in quanto inservibile ai fini della democrazia.

Il plusvalore può essere superato solo a condizione di evitare che il lavoro sia un momento separato dal tempo libero. Posta la socializzazione (non statalizzazione) dei principali mezzi produttivi, è il collettivo locale che deve decidere cosa fare di tutto il tempo a disposizione, cioè quanto tempo dedicare al lavoro e quanto al tempo libero; e ogni volta tale decisione può portare a risultati diversi.

Non è possibile che il tempo da dedicare al lavoro per soddisfare bisogni quotidiani possa essere deciso ad extra della propria comunità locale. Bisogni da soddisfare per la propria esistenza e riproduzione, nonché tempo, mezzi e metodi con cui soddisfarli vanno decisi autonomamente, a livello locale, ab intra. Solo così può scomparire il plusvalore; e quando scomparirà, di sicuro non ci saranno né diritto né Stato.



Il potere del valore di scambio




Si faccia attenzione a questa affermazione di Pašukanis: “Nel momento in cui esordisce la categoria del valore e del valore di scambio, si crea la premessa di una volontà autonoma degli individui che attuano lo scambio” (p. 153).

Ora, a parte il fatto che nel Capitale “valore” e “valore di scambio” vogliono dire in sostanza la stessa cosa, a meno che non sia lo stesso Marx a fare distinzione tra “valore d’uso” e “valore di scambio”12, qui sono almeno quattro le cose che Pašukanis fraintende.

Anzitutto non si può far coincidere “valore di scambio” con “autonomia del singolo”, proprio perché il contrario sarebbe falso, cioè l’equazione “valore d’uso” – “dipendenza”. Semmai si dovrebbe distinguere tra dipendenza dal servaggio feudale e dipendenza da una libera comunità di villaggio, di cui la seconda dipendenza, a differenza della prima, può essere del tutto democratica.

In secondo luogo è illusorio pensare che la democrazia politica aumenti all’aumentare del mercato basato sul valore di scambio. Anzi, è vero il contrario: chi sul mercato ha il potere di vendere, può creare un sistema politico in cui, chi ha soltanto facoltà di acquistare, è non meno schiavo o servo di prima.

In terzo luogo vi è molta differenza, se i mercati non sono gli stessi, tra un borghese che rappresenta solo se stesso, e un esponente di una comunità locale che baratta, come entità autonoma territoriale, le proprie eccedenze. Il mercato capitalistico crea dipendenza, perché chi compra, vi si reca da solo, ed è in balìa di chi vende, il quale, per poterlo fare con profitto, non può avere un’etica democratica.

In quarto luogo la parola “valore di scambio” presuppone una società mercantile, non necessariamente un mercato capitalistico. Semmai è il “valore d’uso” che, preso in sé, a prescindere dal “valore di scambio”, può rimandare a una società basata sull’autoconsumo, in cui ci si limita a barattare le proprie eccedenze in un mercato. Marx su questo non avrebbe fatto obiezioni di sorta.

Non so se questi quattro punti siano frutto di un semplice misunderstanding: probabilmente c’è di più. Lo intuiamo dalla frase successiva, che vuole porsi come conseguenza logica della precedente: “In una società di possessori di merci e all’interno di un atto di scambio, il compito della coercizione non si può realizzare come funzione sociale senza essere astratta e impersonale” (ib.).

In realtà non è affatto vero che là dove s’impone un valore di scambio (cioè di un bene prodotto appositamente per un mercato, e quindi una merce), la coercizione sia per forza “impersonale”. Se fosse così, saremmo costretti a equiparare lo schiavismo col capitalismo.

È noto che al tempo dei Romani il latifondista che possedeva un’azienda agricola i cui lavoratori erano schiavi (cioè persone acquistate in un apposito mercato), pensava anzitutto a vendere i propri prodotti, e nel contempo esercitava una coercizione diretta sui propri schiavi (che non erano “operai schiavizzati”, ma proprio schiavi costretti a un lavoro agricolo, sui quali lo schiavista aveva un potere di vita e di morte, come su un proprio animale).

Ciononostante l’idea che nel capitalismo la coercizione sia solo “astratta e impersonale” è vera fino a un certo punto. Fa soltanto parte delle illusioni del sistema. È sufficiente che i lavoratori si organizzino non solo per rivendicare dei diritti sindacali, ma anche per occupare le leve del potere, ed ecco che lo Stato “equidistante”, basato sul “diritto” e sulla rappresentatività democratica, scatena tutta la sua forza “fisica” (poliziesca e militare) per tutelare le classi possidenti e soprattutto la loro proprietà privata.

All’epoca del nazi-fascismo nessuna azienda privata venne nazionalizzata da queste due dittature. Semmai lo Stato creò proprie aziende con le tasse dei cittadini, e non senza il consenso dei capitalisti privati.

Piuttosto è stato sotto il socialismo statale di marca stalinista che si verificava una coercizione “astratta e impersonale” dello Stato, tanto che i comunisti si chiedevano se Stalin e il suo entourage fossero davvero a conoscenza delle assurde epurazioni di massa.

Giusnaturalismo e diritto positivo




L’ultima parte del cap. V, “Diritto e Stato”, è dedicata ai rapporti tra giusnaturalismo e diritto positivo. È la più difficile da capire, la più confusa, probabilmente è stata soggetta a varie revisioni.

Anzitutto cerchiamo di spiegare, in parole molto semplici, cosa vuol dire “giusnaturalismo”. Benché si parli di “diritto naturale” sin dai tempi della filosofia greca, Pašukanis intende riferirsi solo alla filosofia politica o giuridica del sec. XVII, quella che diede origine alle prime rivoluzioni borghesi, in Olanda e Inghilterra, e che trovò il suo compimento (anche costituzionale) in quelle americana e francese (l’ultimo teorico di rilievo fu – secondo lui – Kant).

Per questa filosofia l’essere umano non è un’entità astratta o generica, appartenente a una comunità cosmica, ma è un individuo singolo, dotato di diritti inalienabili, tra cui quello alla proprietà privata, che non possono essere coartati da nessuno, proprio perché fanno parte della natura umana qua talis, cioè sono anteriori a qualunque istituzione, legge, organo di potere.

Certo, gli uomini possono rinunciare a una parte di questi diritti naturali per ottenere maggiore sicurezza (vedi le tesi di Hobbes), ma, in genere, tendono ad avvalersi di tali libertà per affermare un proprio individualismo, che può anche porsi contro le istituzioni dominanti, quando queste non soddisfano i prerequisiti fondamentali per una pacifica convivenza e la ricerca di un benessere materiale personale.

Naturalmente la borghesia antecedente alle proprie rivoluzioni e quella immediatamente successiva hanno visioni che non possono collimare. Infatti, mentre la prima doveva lottare contro l’autoritarismo nobiliare (laico ed ecclesiastico), la seconda invece doveva difendere il potere acquisito, impedendo ai lavoratori salariati di compiere le loro rivoluzioni.

In soldoni, quindi, il giusnaturalismo viene contraddetto proprio mentre la borghesia compie le rivoluzioni anti-feudali. Dopodiché essa fa prevalere sul diritto naturale quello “positivo”, cioè le legislazioni statali che tutelano la proprietà privata acquisita con la forza o con l’inganno o con la compravendita.

Ora, che giudizio dà Pašukanis del giusnaturalismo? Diciamo piuttosto negativo. Infatti, secondo lui è sbagliato considerare “l’ordine autoritativo” (lo Stato) come “un elemento derivato, secondario, che si somma dall’esterno ai possessori di merci immediatamente operanti” (p. 154). Questo perché lo Stato di diritto è un elemento “correlato” alla società mercantile borghese.

Ha ragione? Sì, ha ragione, ma non per i motivi da lui addotti. Infatti scrive: “quello che è strano è che la teoria giuridica dello Stato che sostituisce [il giusnaturalismo] e che elimina la teoria dei diritti innati e inalienabili dell’uomo e del cittadini, fregiandosi così del titolo di teoria positiva, non deforma la realtà in minor misura” (p. 155).

Dicendo questo, Pašukanis mostra di non capire che la borghesia del XVII sec. aveva già mezzo millennio di storia. Se in quel periodo maturò delle idee filosofico-politiche o giuridiche sostanzialmente ateistiche (si pensi solo al motto groziano: “etsi Deus non daretur”), era stato perché aveva già cercato di far passare, nella loro sostanza individualistica, le stesse idee nell’ambito della cultura religiosa. Per capirlo basta guardare lo sviluppo della borghesia italiana dei Comuni, delle Signorie e dei Principati, che costituisce una sorta di miniatura di quello che nei secoli successivi sarebbe avvenuto a livello europeo.

Non ci vuol molto per rendersi conto che la classe borghese non ha mai considerato lo Stato (il proprio Stato, quello costruito con le proprie mani) come un “elemento derivato”, ma, al contrario, ha sempre preteso che fosse un “elemento prioritario” con cui tenere a freno le rivendicazioni imperiali, pontificie, nobiliari e proletarie, fatti salvi i momenti con cui cercava dei compromessi con l’una forza politica o sociale per opporsi efficacemente all’altra.13

Non solo, ma lo Stato era fondamentale anche per contrastare l’espansionismo delle borghesie rivali, appartenenti ad altre realtà territoriali, o per dominarle con guerre sanguinose. Fu proprio l’incapacità di trovare un nemico comune che impedì alle varie borghesie “regionali” di coalizzarsi per realizzare l’unificazione nazionale della penisola italica. Per il Machiavelli il nemico comune avrebbe dovuto essere lo Stato della Chiesa, che riuniva in sé elementi borghesi e nobiliari, impedendo qualunque critica radicale alla propria corruzione. Alla borghesia italiana, così frastagliata, così fortemente individualistica, così ben disposta a considerare lo Stato un “elemento prioritario” della propria affermazione, così avanzata nel considerare la religione un residuo del passato feudale, mancò una visione strategica delle cose, un’intelligenza olistica.

Mettendo a confronto i due diritti, naturale e positivo, Pašukanis tende a preferire il primo, in quanto, pur nella sua somma astrattezza, mirava a tutelare delle libertà di base, mentre l’altro si comportava in modo incoerente rispetto “alle sue stesse premesse logiche” (p. 156). Perché questa incoerenza? Perché la borghesia, una volta giunta al potere, si contrappone nettamente al proletariato e diventa persino imperialistica.

Ha ragione Pašukanis? Certo che ha ragione, ma perché lui stesso svolge il suo pensiero in modo incoerente rispetto alle sue consuete posizioni prevalenti, riscontrabili in tutto il libro.


Uguaglianza giuridica ed economica




Pašukanis apre il cap. VI, “Diritto e morale”, sintetizzando due tesi opposte. La prima è quella di Tugan-Baranovskij, secondo cui non può esserci equivalenza nello scambio delle merci se non c’è uguaglianza e indipendenza tra le persone. La seconda è quella di Marx, secondo cui è vero il contrario: l’uguaglianza umana dipende dall’equivalenza dei valori di scambio.

Naturalmente Pašukanis sta dalla parte di Marx, anche se aggiunge una precisazione che ha ben poco senso. Secondo lui, infatti, nella società mercantile moderna non c’è solo il lato morale e quello giuridico nella persona proprietaria di beni, ma anche quello “egoistico”. Avevamo già notato questo suo modo ingenuo (o moralistico) di esprimersi, ma forse adesso è venuto il momento di commentarlo.

Prima di farlo però vorremmo dire che per noi non esiste un “prima” e un “dopo”, concernente la nascita del capitalismo. Cioè non c’è prima un’uguaglianza giuridica e poi quella economica, o viceversa. Per noi il discorso è culturale e olistico, cioè non meramente giuridico né meramente economico.

Non esiste un diritto separato dalla cultura dominante, né un rapporto economico spontaneo che, ad un certo punto, non venga posto al vaglio da parte dell’ideologia o del potere ufficiale. Cioè l’istituzione può anche permettere che si svolga una certa prassi economica; al limite può anche autorizzare che tale prassi si dia autonomamente un qualche regolamento giuridico. Ma poi si arriva sempre a un punto in cui l’istituzione, per una qualsivoglia ragione, ritiene suo dovere intervenire.

Teniamo sempre presente ciò che fece lo Stato della Chiesa dopo aver permesso per mezzo millennio alla borghesia italiana di affermarsi come classe sociale, di creare potenti realtà “regionali”, di favorire un’espressione artistica senza pari nel mondo. Improvvisamente, quando vide che la Riforma protestante si stava diffondendo in Italia e che la borghesia pretendeva un potere politico contro lo Stato della Chiesa, il papato scatenò, con l’aiuto dell’impero coloniale spagnolo, una durissima Controriforma e riportò l’Italia al tardo Medioevo. Da Paese capitalista (molto avanzato per quel tempo) ripiombò nel servaggio feudale e, per certi versi, quasi nell’autoconsumo.

Cioè praticamente la Chiesa dimostrò che per realizzare in maniera davvero efficace, sicura, irreversibile un mercato di tipo capitalistico, e quindi uno Stato di diritto e una democrazia rappresentativa, occorreva non solo lungimiranza, una chiara intelligenza delle cose, ma anche una ferma volontà, una tenace caparbietà nel perseguire i propri obiettivi. Al Concilio di Trento (1545-63) la borghesia uscì completamente sconfitta e non si riprese più sino alla breccia di Porta Pia del 1870. L’Italia, praticamente, era uscita dalla modernità europea.

Ora, perché l’aggiunta della figura (o maschera) di “uomo egoista” non ha senso? Per la semplice ragione che l’egoismo è intrinseco a tutte le civiltà degli ultimi 6000 anni, e non è un atteggiamento in grado di specificarne nessuna in particolare. Che faccia parte dello schiavista, del feudatario, del capitalista o del burocrate di un socialismo statalizzato, non fa alcuna differenza. Le uniche due “maschere” che contano sono quella economica e quella giuridica (laica o religiosa), ed entrambe, indossate dalla stessa persona, si esibiscono all’interno di un contesto che, in un certo senso, non si vede, poiché entrambe lo danno per scontato. Questo contesto, che è poi una specie d’involucro, si chiama cultura o ideologia. L’involucro può stringere in una morsa, può soffocare oltre il previsto, ma può anche creparsi in un suo punto, se si è capaci di farlo.

Quindi è assurdo pensare che da un’uguaglianza giuridica si sia passati a una economica, o il contrario. In realtà si è passati, se proprio si vuol parlare di “egoismo”, da una forma di individualismo a un’altra, sulla base di una certa cultura dominante, dalla quale non si poteva prescindere.

Il diritto borghese e lo scambio economico degli equivalenti, anche se all’apparenza sembrano presumere un’uguaglianza effettiva, di tipo contrattuale, in cui i contraenti appaiono liberi e indipendenti, in definitiva sono solo delle finzioni, cioè delle funzioni mistificanti, che nella fattispecie del moderno capitalismo dipendono strettamente da una interpretazione strumentale del cristianesimo.

Per intenderci, basta fare un piccolo esempio ermeneutico. Nell’alto Medioevo i poveri erano previsti dalla società e le istituzioni si sentivano in dovere di assisterli. Tuttavia come si passò al basso Medioevo, ecco che la povertà cominciò a essere considerata come una “colpa”. Se si era poveri, non dipendeva tanto dal “sistema” (che ereditava un “peccato originale”) quanto piuttosto da se stessi. Quindi fare l’elemosina era come fare del male al povero, indurlo a rassegnarsi, a non cercare un riscatto personale. Quest’idea cattolico-borghese passò interamente al calvinismo (teoria della predestinazione), con la sola differenza che il cattolico, a differenza del calvinista, non accetta la separazione di Stato e Chiesa e tanto meno la separazione dei tre poteri, che infatti nel pontefice sono unificati.


Analisi della morale kantiana




Pašukanis fa uno strano ragionamento sulla morale kantiana. Sostiene che l’imperativo categorico (delineato – come noto – nella Critica della ragion pratica) viene perfettamente incontro a un’esigenza tipica della società mercantilistica moderna, quella di elaborare una legge morale (una “regola d’interconnessione”) tra possessori di merci, che operi, nel contempo, come una questione interna alla coscienza e come qualcosa come si pone al di sopra dell’individuo singolo. Nel senso che si deve volere il bene per il bene, per essere in pace con se stessi e con gli altri.

In sostanza “l’etica kantiana è l’etica più tipica di una società produttrice di merci” (p. 164).

Sinceramente parlando non sono molto convinto di questa definizione. Nella Prussia di allora sia l’idealismo soggettivo (Kant e Fichte) che quello oggettivo (naturalistico di Schelling e statualistico di Hegel) non volevano affatto rappresentare la società borghese.

La borghesia aveva già i suoi illustri esponenti filosofici, giuridici ed etici nei territori in cui si era affermata nei sette secoli precedenti, in particolare là dove aveva saputo compiere una rivoluzione politico-nazionale: Olanda, Inghilterra, Francia e Stati Uniti.

L’idealismo tedesco – come già scrisse il giovane Marx – voleva porsi in realtà come una rivoluzione intellettuale senza aver fatto quella politica. L’unica sua ambizione era quella di convincere i poteri costituiti, favorevoli alla Chiesa di Stato e alla nobiltà, a laicizzarsi un minimo e a concedere più spazio alla borghesia. L’idealismo tedesco non era che una prosecuzione modernizzata, in chiave filosofica, della Riforma luterana.

Da un lato questi filosofi si stupivano al vedere con quanto anticlericalismo la borghesia europea realizzava le proprie rivoluzioni; dall’altro però si chiedevano se non fosse proprio questo estremismo ideologico a provocare le sanguinose guerre civili, il terrore statale, il giustizialismo sommario. Sono tutti filosofi che nella loro fase giovanile ammiccano al radicalismo borghese, che però poi sconfessano nella maturità, quando cercano un impiego accademico, preferendo trovare un’intesa col cristianesimo luterano e coi poteri costituiti. Naturalmente l’intesa viene auspicata sul terreno filosofico o razionalistico, ovviando agli elementi più mistici della teologia.

Stante le cose in questi termini, è molto difficile sostenere che l’etica kantiana rappresenti una società pienamente mercantilistica. Come, d’altro canto, sarebbe assurdo sostenere che quella hegeliana rappresenti il passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico-statale.

Questi non sono filosofi che amano la borghesia fino al punto da volerla vedere al potere: i giacobini francesi li spaventavano. Quando videro il capitalismo imposto da Napoleone nel loro Paese, ne ebbero un certo timore. Loro erano convinti che, in nome di una semplice, ancorché elaborata filosofia, non ci sarebbe stato bisogno di compiere alcuna rivoluzione borghese. Il massimo del radicalismo fu raggiunto con l’Atheismusstreit di Fichte, e naturalmente con gli esponenti della Sinistra hegeliana, dai quali venne fuori l’anarchismo di Stirner, l’ateismo esplicito di Bauer, l’esegesi laica dei vangeli di Strauss, il materialismo naturalistico di Feuerbach e quello storico-dialettico di Marx ed Engels.


Universale e particolare




Per uno come me, che crede nella democrazia diretta (emulo, in questo, di Lenin quando diceva “Tutto il potere ai soviet”), appaiono abbastanza insopportabili le affermazioni che sostengono il contrario, come per es. questa di Pašukanis: “L’aspetto, forse l’unico, per cui l’etica razionalistica si eleva al di sopra degli istinti sociali forti e irrazionali sta proprio nella sua generalità umana” (p. 166).

Non c’è una parola che condivido, e me ne dispiace, poiché Pašukanis si dichiarava “marxista”, e noi tutti sappiamo che tra Marx e gli economisti classici della borghesia c’era un abisso. Marx era un genio assoluto, come pochi se ne incontrano nell’arco di un’esistenza umana. Non solo superò i limiti dell’idealismo tedesco e della sinistra hegeliana, ma anche quelli del socialismo utopistico e dell’economia politica borghese. E alla fine della sua vita riscoprì il valore dell’autoconsumo, studiando l’etnologia.

Pašukanis sarebbe dovuto partire dall’ultimo Marx. Invece si permette di sostenere che la “gens”, la “tribù”, la “nazione” sono “ambiti limitati”, caratterizzati non da sagge tradizioni ancestrali, ma da “istinti sociali forti e irrazionali”, cioè “forti”, come quelli animaleschi che vivono in branchi, e “irrazionali” come quelli di chi? Ha senso mettere insieme due aggettivi del genere? Per di più aggiungendo ch’erano vissuti in maniera “sociale”? Sembra stia parlando di una clinica psichiatrica…

Si riferisce a realtà locali o comunque circoscritte territorialmente, e le giudica prive della “generalità umana”, come se questa “generalità” possa essere affermata solo in maniera “astratta”, alla maniera hegeliana. La razionalità viene a coincidere con l’astrazione.

Queste sono affermazioni davvero sciocche, soprattutto là dove si vuole arrivare alla conclusione che, senza questa “astrazione razionale”, non si sarebbe mai formato un “commercio mondiale”. Come se il commercio mondiale del capitalismo fosse la quintessenza del commercio in generale! Come se una gens, una tribù, una nazione non potessero realizzare una forma altrettanto valida di commercio!

Le 500 nazioni dei nativi nordamericani commerciavano tranquillamente tra loro, ed era uno scambio eco-sostenibile, reciprocamente vantaggioso, dove il valore di scambio era subordinato a quello d’uso. Quando mai il capitalismo ha vissuto un commercio del genere? Quando mai ha commerciato senza rapinare, uccidere, devastare le risorse altrui, umane e materiali?

Pašukanis, naturalmente, si rende conto che questa esaltazione del commercio mondiale incontra nel capitalismo un limite oggettivo, insuperabile con gli strumenti della borghesia: la proprietà privata dei mezzi produttivi, che impedisce la pianificazione.

Tuttavia bisogna dire che questa critica non è sufficiente: non lo era un secolo fa e tanto meno lo è oggi. Cosa aveva in mente Pašukanis: un “socialismo mercantile”, cioè un socialismo capace di ereditare, con intenti molto più democratici, le caratteristiche del commercio mondiale del capitalismo? Tutta qui l’alternativa? Oggi questo socialismo lo vediamo realizzato nella società cinese. Probabilmente, se la NEP non fosse stata distrutta dallo stalinismo, lo vedremmo anche in Russia.

Proviamo tuttavia a chiederci, con la massima onestà possibile: nei confronti della natura è cambiato forse qualcosa rispetto al capitalismo occidentale? Nulla, anzi, con questo socialismo mercantile i cui prodotti hanno invaso il mondo, le cose sono peggiorate. Si è forse sviluppata la democrazia diretta, quella che dà una responsabilità personale a ogni singolo cittadino? Assolutamente no. Si sono forse poste le basi per una progressiva estinzione dello Stato? Ancora meno. Si è forse valorizzato l’autoconsumo? Questa è addirittura una rivendicazione ridicola a fronte delle grandi esigenze del consumismo di massa. La prima necessità di tutti i Paesi del mondo oggi è quella di commerciare il più possibile, cercando di vendere i beni ai prezzi più concorrenziali, anche a costo di sfruttare al massimo la manodopera e le risorse ambientali.

In condizioni del genere chiunque parli di proprietà statale dei mezzi produttivi, rischia di apparire patetico, moralistico; rischierebbe di lanciare messaggi illusori persino se dicesse che la proprietà non vuole essere “statale” ma proprio “sociale”.

Insomma l’universalità non sta in una pretesa egemonica mondiale, non sta nell’imporre dei modelli di comportamento, non sta neppure nel fare cose per le quali sono necessari enormi mezzi di trasporto e complicate regole transattive; ma sta nel vivere pienamente, cioè sotto ogni aspetto, la democrazia a livello locale. È solo in questa maniera che ci si può riconoscere e rispettare liberamente.


Teoria del diritto marxista




Nella “Prefazione” al suo libro Pašukanis scrive d’essersi meravigliato che venisse considerato alla stregua di un “libro di testo”. Infatti lo giudica, per molti versi, troppo astratto, conciso, schematico, unilaterale perché lo si possa utilizzare in chiave didattica. Però spiega che la sua fortuna era dipesa dal fatto che il marxismo degli anni ’20 s’interessava assai poco di diritto, salvo quello costituzionale e civile.

Su questo bisogna dargli ragione, anche se gli aggettivi che avrei usato per qualificarlo sono altri: criptico, involuto, troppo compiacente del diritto borghese (non a caso piaceva molto a Umberto Cerroni, che cercò sempre di conciliare questo diritto col comunismo).

Pašukanis sembra aver compiuto un’operazione forzosa. Dopo essersi reso conto che sul piano dell’analisi economica nessuno poteva eguagliare Marx, ha cercato di mettere in relazione la teoria della merce capitalistica con quella del diritto liberale. Il risultato poteva anche apparire interessante perché piuttosto originale, anzi inedito, anticipatore di ulteriori sviluppi. Cerroni sostiene addirittura che il testo costituisce “una prima organica sistemazione concettuale della teoria del diritto marxista e dei suoi metodi” (p. 14).

Tuttavia è ben strano che Cerroni non si chieda il motivo per cui né Marx, né Engels, né Lenin, e neppure i teorici della II Internazionale avessero mai avvertito il bisogno di elaborare una tale teoria giuridica. Eppure il motivo non era difficile da capire.

Il marxismo-leninismo aveva in mente di occupare lo Stato borghese non per svilupparlo nelle sue istituzioni, ma per superarlo nella sua interezza. Già il giovane Marx s’era accorto che la filosofia giuridica di Hegel, invece di porre la società a fondamento dello Stato, aveva fatto il contrario, in maniera assolutamente arbitraria. Al massimo, a rivoluzione compiuta, si poteva accettare l’idea di una Costituzione che sancisse i princìpi fondamentali di uno Stato laico e democratico, ma difficilmente si sarebbe potuto parlare di uno “Stato socialista” senza rischiare d’essere pesantemente contestati. E – si sa – laddove manca un’organizzazione statuale, è difficile che possa esistere un diritto valido a livello nazionale.

D’altronde è vero anche il contrario, e cioè che non ha alcun senso elaborare una teoria socialista del diritto con cui compiere una rivoluzione politica finalizzata all’occupazione dello Stato. Se in una fase di transizione, dopo aver compiuto la rivoluzione, si vuole elaborare una teoria giuridica, forse può essere sufficiente fare delle significative variazioni al diritto borghese, che – come noto – ambisce ad apparire democratico, pur essendo del tutto contraddittorio nella pratica economica.

Quando i bolscevichi elaborarono la prima Costituzione, probabilmente davano per scontato che dovessero essere le istanze sociali più popolari a verificarne la pratica applicazione. Di sicuro non miravano – come invece fece lo stalinismo – ad assegnare allo Stato poteri immensi per realizzare il socialismo. Anzi, vien quasi da pensare che se non ci fossero stati né la guerra civile né l’interventismo straniero, il libro di Lenin, Stato e rivoluzione, avrebbe beneficiato di ben altri riscontri. Sarebbe stato quasi impossibile trovare un bolscevico favorevole all’idea che lo Stato, per favorire la società civile, dovesse aumentare e non diminuire progressivamente la sua importanza.

Il che però non vuole affatto dire che il diritto borghese dipendesse in toto dal valore di scambio della società capitalistica. Questo è un errore grossolano di Pašukanis, che non s’accorge di portare a conclusioni arbitrarie la teoria economica di Marx. Dietro quel diritto c’è tutta una cultura che risale addirittura alla Scolastica medievale (si pensi solo alle discussioni su temi come usura, simonia, aggiotaggio, monti di pietà, possesso, proprietà e povertà). Nessun mestiere, neanche quello del mercante, poteva impedire al credente di raggiungere la salvezza dai suoi peccati.


Questioni di etica




A volte si fa davvero fatica a capire Pašukanis, o forse sarebbe meglio dire che si fa fatica ad accettarlo, a condividere certe sue idee.

Prendiamo ad es. questa sull’etica. Ammette che l’etica è ambigua, ma in questo vede, stranamente, un difetto non un pregio, come invece sarebbe giusto fare quando ci si rapporta all’umana libertà di coscienza. Poi sostiene che tale ambiguità verrà eliminata col “passaggio all’economia sociale pianificata”. In che modo? “Utilizzando alcuni elementari e chiari concetti di danno e interesse” (ib.).

In altre parole, per eliminare le astrattezze dell’etica borghese, che peraltro risente dei limiti metafisici del cristianesimo, bisogna privarla di qualunque assolutezza, trasformandola in una specie di diritto utilitaristico favorevole al proletariato. Sarà, di quest’ultimo, la “morale di classe” a liberare la società da tutti i suoi feticismi, inclusi quelli della merce e del diritto borghese. Cioè l’Io (kantiano) deve fondersi nel collettivo perché si possa andare oltre il “dovere morale”.

Una posizione, questa, chiaramente critica nei confronti del cristianesimo e dell’individualistica etica kantiana, che di quella religione costituiva una versione laicizzata. Una posizione però che difficilmente avrebbe potuto tener testa all’idealismo oggettivo hegeliano, secondo cui l’etica non può essere una questione privata, in quanto va ricercata nell’ethos popolare, rappresentato da uno Stato, che non può certo essere “borghese”.

Sinceramente parlando, sono poco convinto delle tesi di Pašukanis. Si può anche convenire, obtorto collo, sul fatto che il diritto borghese sia strettamente correlato allo scambio degli equivalenti, ma non prima d’aver fatto le debite precisazioni.

Il fatto che la borghesia medievale producesse un diritto senza volersi riferire al cattolicesimo-romano, non significa che tale riferimento, come background culturale, non esistesse nella sua vita privata. Cioè la borghesia poteva anche vivere la religione in maniera del tutto formale nella vita pubblica (limitandosi a rispettare i sacramenti, i precetti festivi ecc.), ma ciò non significa che quella stessa religione non influenzasse, in qualche maniera, le sue produzioni culturali, il suo linguaggio, il suo sentire comune, persino il suo agire pratico. Anzi, non ci sarebbe da meravigliarsi se, considerandolo scontato, tale condizionamento avvenisse a insaputa della stessa borghesia.

Gli uomini che elaborano delle idee non sono necessariamente tenuti a sapere da dove provenga il loro significato ultimo. Ma questo non vuol dire ch’esse non abbiano una precisa origine storico-culturale.

Ciò detto, si può anche condividere l’idea che la morale borghese sia qualcosa di astratto, di poco conciliabile col diritto borghese vero e proprio, che sicuramente riflette meglio la prassi affaristica. In fondo non era forse questa la maggiore contraddizione di tutto il protestantesimo, quando, da un lato, diceva di voler tornare al cristianesimo primitivo per contestare la corruzione delle gerarchie cattoliche, e poi, dall’altro, sul piano pratico, legittimava la peggiore prassi borghese? Non è forse stato il calvinismo che ha esteso a tutta la società quella corruzione economico-finanziaria che nel cattolicesimo si viveva soprattutto a livello politico-pontificio (si pensi per es. alla questione delle indulgenze)?

Insomma, chi compie una rivoluzione socialista deve saper porre da subito, in maniera pratica, verificabile, un’alternativa etica alla morale borghese, prima ancora di elaborare un diritto proletario e un’economia socialista. È fuorviante pensare che l’astratto diritto borghese possa essere superato partendo da principi utilitaristici come il “danno” e l’“utile”, che sono poi due tra i concetti giuridici fondamentali della classe borghese.

È vero, tutti i feticismi saranno superati quando il singolo si fonderà col collettivo, ma perché anche questo obiettivo non assuma una connotazione mistica, occorre da subito porre in essere le basi di un’autentica moralità umana. Vi sono princìpi e comportamenti che bisogna cercare di realizzare il più presto possibile, come per es. il rispetto della libertà di coscienza, dell’uguaglianza di genere, dei ritmi riproduttivi della natura… Il proletariato non è una divinità da adorare. Forse, se avesse davvero avuto una profonda etica umana, non avrebbe permesso il trionfo del socialismo statale e tanto meno di quella mostruosità chiamata stalinismo.

Etica e famiglia




Vi è una realtà sociale, nel modo di ragionare di Pašukanis, che non viene mai presa in considerazione.

Quando giunge sul mercato o quando lui stesso lo istituisce (dopo aver fatto lunghi viaggi all’estero alla ricerca di prodotti esotici e costosi), il borghese non è mai (o quasi mai) un individuo singolo. Come non lo è il proletario e tanto meno l’agricoltore. Quest’ultimo, nel Medioevo rurale, apparteneva a una comunità di villaggio, dedita prevalentemente all’autoconsumo e quasi sempre sottoposta al servaggio feudale. Viceversa il proletario, quando iniziano a formarsi i primi Comuni borghesi, viene definito così perché assolutamente privo di tutto, se non della sua forza-lavoro (e spesso è padre di una numerosa prole).

La famiglia del proletario è monogamica come quella del borghese, salvo il fatto che quest’ultimo si preoccupa di controllare le nascite e di trovare una buona sistemazione per i propri figli; lui stesso, quando si sposa, cerca di non prendere una donna qualunque, ma una che lo possa aiutare, in qualche maniera, a fare affari (il che gli impedirà di assumere quei toni patriarcali così visibili nel mondo rurale).

Il borghese s’inventa la famiglia nucleare e, all’interno di questa, impone una morale che, in gran parte, è derivata da quella aristocratica (laica ed ecclesiastica), ad eccezione ovviamente del fatto che l’interesse per il risparmio, anzi per l’accumulo di capitali, e quindi per l’investimento e l’allargamento progressivo dei propri affari, è di molto superiore a quello che può avere la classe nobiliare, non avendo ricevuto in eredità dei beni immobili da amministrare. Lo stesso aristocratico deve, prima o poi, adeguarsi a questo comportamento, se vuole sopravvivere con profitto e non lasciarsi rovinare dai debiti.

Quando il borghese s’affaccia sul mercato per vendere le proprie merci (o decide di istituirlo insieme ad altri mercanti), è già dominato da un’etica cattolica, con cui è in grado di separare l’intenzione del bene comune dall’egoismo privato effettivo, proprio perché quest’ultimo lo ritiene assolutamente necessario per affermarsi nel regime concorrenziale e per poter un giorno farsi valere sul piano monopolistico.

Il valore etico della sua coscienza è semplicemente racchiuso, quotidianamente, nell’ambito familiare, mentre saltuariamente si manifesta quando viene richiesto dalla Chiesa di appartenenza, per le sue opere caritative.

Quindi, se è vero – come sostiene Pašukanis – che nel capitalismo “la condotta morale si contrappone a quella giuridica” (p. 171), non è vero che ciò avvenga nell’ambito familiare. La famiglia nucleare è un istituto della borghesia: se in questa c’è antagonismo tra etica e diritto, la famiglia di spezza. Certo, il marito che nella società fa affari mercantili, può tollerare che la moglie, a livello domestico o privato, coltivi idee religiose e pretendere che resti all’oscuro della natura degli stessi affari, ma nella misura in cui anche le donne vengono fatte studiare (e la borghesia ha interesse che lo facciano), questa soggezione da parte della donna si attenua progressivamente. In ogni caso il borghese non può sposarsi senza avere in anticipo le idee chiare in merito all’etica familiare, né può aspettarsi che queste idee non vengano condivise da moglie e figli. Esistono indubbiamente delle tradizioni culturali da rispettare, ma, beninteso, in un contesto, quello urbanizzato e affaristico, che inevitabilmente le costringe a prendere significati differenti.

Quindi è sbagliato affermare che il “riconoscimento reciproco tra gli attori dello scambio come proprietari… costituisce il massimo livello a cui si può ritenere che la società produttrice di merci riesca ad elevarsi” (ib.). Pašukanis doveva precisare che è il massimo livello “giuridico”, mentre quello etico viene realizzato in famiglia. Là dove questo livello non viene raggiunto, in quanto dominano, incontrastati, il mercato, da una parte, e il diritto, dall’altra, la famiglia tende a dissolversi a vantaggio dell’individuo singolo, della sua arbitrarietà.


Etica ed economia




Quando si analizzano certe frasi di Pašukanis si ha spesso l’impressione, a causa del suo modo contorto di esprimersi, di non averne capito sino in fondo il significato. Il marxismo sembra più che altro un’aggiunta posticcia a un discorso sostanzialmente di tipo “liberale”. È come se non possa fare a meno di parlarne, in quanto le circostanze l’hanno coinvolto a prescindere dalla sua volontà.

Così, per es., nell’ultima parte del cap. VI, “Diritto e morale”, là dove parla dei rapporti del diritto e della morale nei confronti dello Stato (pp. 171-4), conviene, giustamente, che non si possa parlare di diritto senza parlare dello Stato; subito dopo però precisa che proprio la presenza dello Stato induce a far coincidere il diritto con la forza. Anche questo è giusto, ma come risolvere l’antinomia (ch’egli peraltro attribuisce al solo capitalismo)?

Qui è reticente o quanto meno ambiguo. Gli piace citare una frase del giurista Evgenij Trubeckoj, secondo cui “al povero è concesso esigere l’elemosina così come al creditore il debito” (p. 173), proprio per far vedere che la borghesia non riesce a far coincidere il dovere morale col diritto. Tuttavia, dicendo questo, avrebbe potuto essere benissimo contestato da Hegel, per il quale il soggetto era una mera astrazione, al punto che se non capiva ch’era suo “dovere” conformarsi al “diritto” dello Stato, la responsabilità era soltanto sua. Hegel diceva, dall’alto del suo idealismo oggettivo, ch’era impensabile che lo Stato, rappresentante dell’ethos popolare, dovesse piegarsi alle esigenze dei singoli individui o delle classi sociali.

In effetti, lo stesso Pašukanis deve ammettere che non esiste un potere superiore a quello statale nel garantire il rispetto della legge, l’applicazione della norma. Quando una funzione coercitiva “non è organizzata e non ha a sua disposizione un apparato speciale che sovrasti le parti” (p. 171), il diritto non funziona, la legge viene elusa. Il diritto consuetudinario, l’arbitrato volontario, la tutela diretta, la reciprocità non funzionano neppure a livello di diritto internazionale.

Insomma Pašukanis potrà dire ciò che vuole del socialismo, ma questo suo modo di ragionare non può essere condiviso da chi lotta per un socialismo davvero democratico. Non ci piace per nulla pensare che una statalizzazione dei mezzi produttivi o una pianificazione statalizzata della produzione possa essere vista come rimedio magico alle antinomie borghesi.

Sotto questo aspetto il libro è davvero datato, ma lo sarebbe stato anche se avesse parlato di “socializzazione” dei principali mezzi produttivi e di pianificazione condivisa della produzione locale. Qui bisogna cercare di essere seri al massimo grado. Per realizzare il socialismo democratico non basta la “struttura”, ci vuole anche la “sovrastruttura”, e non è detto che questa, solo perché si pone “sopra” l’altra, sia di carattere inferiore o abbia meno importanza.

Più volte abbiamo detto che nella costruzione del socialismo non può esserci un “prima” o un “dopo”. Ora possiamo aggiungere che non c’è neppure un “sopra” o un “sotto”. Cioè, o si guardano le cose in maniera olistica, come un tutto unico, assolutamente indissolubile, un insieme in cui le singole parti siano tra loro inscindibile, in quanto il reciproco condizionamento è organico, oppure il fallimento è assicurato. Etica ed economia vanno messe sullo stesso piano, e lo Stato va tolto di mezzo.


Diritto e teologia




L’esordio del VII e ultimo capitolo, “Diritto e torto”, è piuttosto imbarazzante, e induce a credere che l’intero capitolo sia pieno di sciocchezze.

Infatti Pašukanis, quando parla di “diritto antico”, non fa distinzione tra Medioevo, schiavismo romano e comunità primitive. E questo è un errore metodologico assolutamente imperdonabile, anche perché nell’ambito del comunismo primordiale non esisteva alcun “diritto”, e non per questo vivevano come animali.

Pašukanis sembra meravigliarsi che, prima del capitalismo esistesse un diritto che in sostanza coincideva col diritto penale. Non riesce a capire che quando nascono i rapporti antagonistici, la classe minoritaria, che vuole dominare quella maggioritaria, mentre sul piano ideologico si avvale, generalmente, di un’astratta religione (tendente al culto degli astri o degli antenati), sul piano pratico, invece, oltre agli organi repressivi, stabiliti ad hoc, ha soltanto bisogno di un diritto punitivo. Cioè mentre il diritto in sé serve per dimostrare che l’oppressione è necessaria, in quanto trova una qualche spiegazione nella religione che ci si è inventati; il diritto penale invece serve per ricordare alla maggioranza la necessità dell’obbedienza.

Nell’ambito delle società pre-borghesi la vera dipendenza non è tanto giuridica o sancita dalla religione (queste sono giustificazioni formali), quanto piuttosto è diretta, cioè fisica o personale. Il diritto in sé non serve a nulla di preciso, se non appunto a far ricordare (a chi potrebbe o vorrebbe ribellarsi al sistema) come stanno effettivamente le cose o come devono andare. Non c’è alcun bisogno di specificare il diritto di “proprietà” proprio perché il diritto non è affatto scisso – come invece pensa Pašukanis – dal “costume”. Il diritto sta a indicare che nella comunità primitiva è avvenuta una rottura nella comunicazione ancestrale del sapere e del saper fare. Ma non è il diritto che spiega il senso di questa rottura, la modalità in cui è avvenuta. Anzi il diritto (e la religione che gli fa da contorno), rimuovendo il passato, presume di far capire che la violenza faccia parte di un costume consolidato, un pratica che va regolamentata.

Il diritto deve per forza essere “penale”, proprio perché deve soltanto riflettere dei rapporti gerarchici vigenti, assolutamente da rispettare. In tal senso non è vero che quanto più il diritto è antico, tanto più è rilevante la parte penale. Come se quanto più si torna indietro, nel passato più remoto, tanto più le popolazioni erano rozze o barbare. In realtà quanto più si cammina all’indietro, tanto meno diritto esiste, e non perché si era più “primitivi”, ma perché si era più “democratici”.

Un teorico del diritto, se vuole essere obiettivo, non può non contestualizzare la sua disciplina dandole delle coordinate spazio-temporali sufficientemente precise. Se l’avesse fatto, avrebbe notato che mentre il diritto tende ad approfondirsi concettualmente nelle società schiavistiche, man mano ch’esse s’allargano geograficamente, ampliando i loro mercati; viceversa, nella società feudale pre-borghese, basata sull’autoconsumo, è la teologia che si approfondisce. È diversa l’illusione di vivere nel migliore dei mondi possibili, per il quale non può esserci una valida alternativa. Quando nel passaggio dall’alto al basso Medioevo si torna a prediligere il diritto sulla teologia (almeno da parte della borghesia, affaristica e intellettuale), il motivo dipendeva dal fatto che si era formata una classe disincantata, sostanzialmente disillusa nei confronti di tutte le promesse ecclesiastiche.

La borghesia italiana aveva poi questa particolare caratteristica rispetto all’altra borghesia europea: alla teologia cattolica non opponeva una nuova teologia ma un nuovo diritto (in Europa lo faranno molti secoli dopo), un diritto che recuperasse sì le tradizioni romane e bizantine, ma, beninteso, all’interno di una grammatica secolarizzata, un’architettura laicizzata.

Sin dai suoi esordi, la borghesia italiana aveva bisogno di statuti, patti e contratti formulati in maniera tale che la Chiesa istituzionale non subodorasse minimamente il tentativo di far nascere una nuova religione. Infatti quando scoppiò la Riforma protestante, la borghesia italiana si limitò a guardarla con sufficienza, con un atteggiamento di distaccata superiorità. La lotta di un’interpretazione contro un’altra interpretazione della medesima religione si era già esaurita al tempo dei movimenti pauperistici ereticali. Al tempo della Riforma la borghesia italiana era sostanzialmente agnostica se non addirittura atea.


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A volte Pašukanis, parlando di “diritto antico”, incorre in svarioni davvero inspiegabili in uno studioso del suo calibro, ma che tuttavia si spiegano quando si vuole restare legati a una tesi basilare, costi quel che costi.

Scrive: “Non rappresentava per nulla un fatto strano per l’antico diritto penale romano che il debitore insolvente pagasse con parti del suo corpo (in partes secare) o che di un danno alla persona si rispondesse col proprio patrimonio” (p. 179).

Ora, se la seconda pretesa giuridica era in effetti normale, la prima (che si può riscontrare nelle XII Tavole e che ritroviamo nel Mercante di Venezia) non era affatto così scontata, tant’è che le interpretazioni dei latinisti si sono sprecate col tempo.

Di regola i debitori insolventi venivano imprigionati in attesa di essere riscattati da amici o parenti, oppure venivano schiavizzati per il tempo necessario a pagare il debito. Nei casi più estremi sarebbero stati condannati a morte. Spartirsi pezzi di corpo dell’insolvente tra creditori sarebbe parsa una crudeltà del tutto inutile oltre che grottesca. Al massimo – qualche esegeta di quel versetto ha detto – il soggetto veniva evirato, in considerazione del fatto che per i plebei romani l’avere molti figli che lavorassero già in tenera età, era una fonte di reddito.


Origine del diritto penale




Io non sono certo un esperto di diritto, ma avverto istintivamente che andrebbe specificato meglio che “l’origine del diritto penale si lega storicamente con la consuetudine della vendetta di sangue” (p. 176).

È evidente infatti che laddove esiste un diritto ufficiale, non può esistere una vendetta privata o tribale o clanica, se non per vie illegali. In tal caso, semmai, è lo Stato che, in nome del diritto (civile o penale), si preoccupa di placare la sete di vendetta della persona offesa. Il massimo della vendetta ufficiale è costituito dalla pena di morte o dall’ergastolo, specie se questo è di massima sicurezza. Allo Stato non interessa risalire alle cause storiche che hanno determinato un delitto (al massimo gli avvocati espongono delle cause esistenziali per chiedere una riduzione della pena). È molto difficile che nei tribunali si possa davvero scoprire la verità delle cose, ottenere una giustizia soddisfacente.

Tuttavia non è detto – come sostiene Pašukanis – che la vendetta di sangue designi uno stadio sociale inferiore a quello in cui si stabilì la legge del taglione (in ogni caso bisognerebbe specificare cosa s’intende con l’aggettivo “inferiore”).

Sia nell’Antico Testamento (Es 21,23ss e Lv 24,19s) che nel Codice di Hammurabi la lex talionis è generalmente una regola del diritto penale. Ma vi può coesistere proprio perché le tribù sono associate tra loro da un patto di fedeltà, all’interno di una monarchia assoluta, ereditaria (una monarchia che gli israeliti, abituati alla democrazia delle 12 tribù, non sopportano per più di un certo tempo).

Viceversa, la vendetta di sangue presuppone un sistema sociale pre-monarchico, in cui le tribù sono separate tra loro, e quindi sono più vicine al comunismo primitivo. Praticano una giustizia del genere (che sicuramente è lesiva della loro incolumità) perché, molto probabilmente, soffrono di condizionamenti esterni, quelli causati appunto dallo schiavismo.

Insomma, forse sarebbe meglio dire che vendetta del sangue, legge del taglione e diritto penale sono una conseguenza dei rapporti schiavistici, o comunque dell’influenza che un sistema sociale antagonistico può esercitare nei territori limitrofi ove si diffonde. Ricordiamo tutti il genocidio ruandese del 1994, in cui l’influenza europea (colonialistica) fu decisiva.

La vendetta del sangue caratterizza di più le distinzioni tribali, le quali, ad un certo punto, si trovano a confliggere proprio perché uno Stato schiavista (o comunque favorevole all’antagonismo sociale) erode progressivamente i loro territori. Quanto più si riduce la possibilità di muoversi, cioè la spazio necessario, con le sue risorse, alla sussistenza di una determinata tribù, tanto più aumenta la rivalità con tribù confinanti, una rivalità che, in certi casi, può arrivare persino al cannibalismo.

In genere, quando s’impone una vendetta di sangue, la faida tende a non finire mai, a meno che una tribù non si lasci sottomettere dall’altra. Lawrence d’Arabia racconta nel suo libro, I sette pilastri della saggezza, che, al fine d’impedire che si scatenasse una faida tra due tribù e che il piano di occupare Aqaba saltasse, dovette lui stesso giustiziare chi aveva commesso un omicidio: poté farlo legittimamente proprio perché lui non apparteneva a nessuna tribù.

È un’illusione pensare che la consuetudine della vendetta possa essere superata da un diritto penale. Gli usi e i costumi di una tribù o etnia sono sempre più forti di qualunque legge, a meno che lo Stato non abbia intenti genocidari nei confronti delle organizzazioni tribali e non imponga uno stile di vita sedentario e urbanizzato.

In ogni caso è molto difficile pensare che all’interno di una medesima tribù possa esistere una vendetta di sangue tra clan rivali. Sarebbe troppo rischioso per l’esistenza stessa della tribù. Se guardiamo le 500 Nazioni dei nativi nordamericani non troviamo né vendetta di sangue, né legge del taglione, né diritto penale. Le rivalità intertribali non arrivavano mai a questi eccessi.

Di sicuro quando una riparazione del danno arrecato viene quantificata in termini monetari, si è già in presenza di una società schiavista abbastanza evoluta. Ma perché non scaturisca una vendetta privata, occorre sempre la forza dello Stato. Lo Stato impone la propria giustizia, poiché ritiene che questo sia uno dei principali modi per controllare il dissenso. Propriamente parlando, ai poteri dominanti non interessa “fare giustizia” (ciò va oltre le loro possibilità), ma interessa che l’assenza di giustizia giuridica non si trasformi in contestazione politica, in opposizione al governo in carica.


Distorcere il passato




Pašukanis è così “innamorato” della sua idea di considerare le società ove esiste la “merce” come giuridicamente più evolute, più giuste, che non può accorgersi di dire delle sciocchezze. Arriva persino a sostenere che la regola del “taglione” era una forma primitiva di corrispondenza giuridica alla legge degli equivalenti presente sul mercato. È contento quando afferma che “la proporzione tra delitto e retribuzione non è che una proporzione di scambio” (p. 177).

Infatti per lui tutto deve seguire una logica piuttosto stringente, tanto ferrea quanto elementare: se c’è denaro, c’è scambio (e già qui ci sarebbe da dire, poiché tantissime popolazioni, se non praticavano il baratto puro e semplice, arrivavano a considerare “denaro” dei particolari oggetti di uso comune, come per es. le conchiglie, i semi di cacao, il sale, ecc.); là dove c’è scambio, c’è equivalenza tra produttori (il che però non implica che ce ne sia anche una tra produttori e consumatori); per cui, alla fine, nel diritto deve per forza esserci, nonostante la proprietà privata, una qualche forma di proporzione tra danno e riparazione. La giustizia sta in questa forma di compensazione equitativa, la cui oggettività prescinde dalla volontà soggettiva di chi arreca o subisce un danno, di chi compie o patisce un’offesa, un delitto.

Guardando il passato, Pašukanis vede la presenza della “borghesia” ovunque circoli del denaro, e s’immagina che debba esistere un diritto corrispondente a delle esigenze mercantili.

Qui sarebbe troppo facile contestarlo facendo riferimenti ai tanti testi di antropologia o etnologia che presentano un quadro giuridico, tra le popolazioni “primitive”, completamente diverso da quello che lui offre. È vero, ci si potrebbe obiettare che quelle due scienze non erano così sviluppate un secolo fa, ma è anche vero che qui il problema resta sempre un altro. Pašukanis non fa mai riferimento alle comunità pre-schiavistiche, neanche per dire che i primi studiosi delle loro caratteristiche spesso erano al servizio del colonialismo europeo.

Quando parla di diritto “antico”, si riferisce sempre, che lo voglia o no, che lo dica o no, a quello schiavistico, e se fa riferimento anche a quello feudale, non vede differenze significative tra alto e basso Medioevo.

A volte pone addirittura sullo stesso piano l’umano con l’animale. Per es. scrive che quando “l’animale non reagisce subito all’aggressione e rimanda la sua reazione ad un momento più opportuno” (p. 178), si comporta come se l’autodifesa fosse equiparabile a una “vendetta”, e a questa “l’uomo moderno associa l’idea di una eguale retribuzione” (ib.).

Sta parlando di società in cui l’individualismo è imperante e non se ne accorge. Arriva a dire che “la vendetta si trasforma da fenomeno prevalentemente biologico in istituto giuridico nella misura in cui si connette in un modo o nell’altro con la forma di equivalente dello scambio, con lo scambio misurato dal valore” (p. 179).

Un qualunque studioso di storia medievale (quindi stiamo parlando di un periodo in cui era presente la servitù della gleba, non l’uguaglianza del comunismo primordiale) avrebbe obiettato che nella prima parte di questa civiltà europea (tra il 476 e il Mille) vigeva un diritto completamente diverso. Qui si potrebbero fare molti esempi, ma ne basterà solo uno: di regola era la popolazione locale che si prendeva in carico l’accusa rivolta a una persona sospettata di un crimine. Questo perché la giustizia aveva come obiettivo la pacificazione della comunità più che la punizione del colpevole. Al massimo si cercava una soluzione comune per risarcire la parte lesa.


La critica di Stučka a Pašukanis




Nel suo libro, La funzione rivoluzionaria del diritto e dello Stato, Pëtr I. Stučka critica a più riprese il testo di Pašukanis che abbiamo preso in esame.

Fondamentalmente si muove in tre direzioni:

1) Ogni diritto ha un carattere di classe. Cioè non ci si può fermare alla “astratta società mercantile semplice” (p. 441).14

Sinceramente parlando non mi pare che nel suo libro Pašukanis neghi una tesi del genere. Anzi, appare consapevole che già al suo tempo il capitalismo concorrenziale si stava trasformando in capitalismo monopolistico (persino, in taluni casi, col sostegno esplicito dello Stato).

E comunque Pašukanis non nega mai che “ogni diritto” abbia un carattere di classe (e che ogni diritto sia sostenuto da rapporti socioeconomici classisti lo dà per scontato); semmai afferma, senza però spiegarne la ragione, che solo nel capitalismo la merce acquista un carattere feticistico che si riflette nella mistificazione del diritto.

2) Non può esservi uno scambio mercantile di equivalenti senza il diritto di proprietà privata e quindi senza lo Stato.

A dir il vero Pašukanis non ha mai affermato il contrario. Semmai non ha capito che uno scambio di equivalenti è possibile anche nel baratto, dato che i contraenti conoscono bene le caratteristiche fondamentali per produrre un determinato bene. Tuttavia neppure Stučka aveva capito una cosa del genere. Lui pensava di poter smascherare il lato classista di qualunque diritto puntando la sua attenzione principalmente sullo Stato, in quanto dava per scontato che là dove esiste lo Stato, lì esistono dei conflitti di classe e quindi una proprietà privata dei mezzi produttivi, tutelata dal diritto. Di fatto non gli sono mai interessate le forme naturali dello scambio, quelle che avvengono tra comunità dedite all’autoconsumo.

3) Non esiste un passaggio immediato dal diritto borghese al non-diritto.

Non so da quali affermazioni di Pašukanis Stučka possa trarre una conclusione del genere. Pašukanis non ha mai sostenuto che tale passaggio dovesse essere “immediato”. Semmai ha detto ch’era inutile formulare un “diritto proletario”, in quanto quello borghese, pur essendo completamente formale, cioè smentito dalla pratica economica, era sufficientemente democratico per essere adottato dal socialismo statalizzato, salvo le necessarie varianti inerenti all’abolizione della proprietà privata dei mezzi produttivi.


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La suddetta tesi n. 2 può essere riformulata nel modo seguente: il diritto non si può collegare al solo scambio delle merci, ma va collegato anche alla proprietà privata dei mezzi produttivi, cioè a un determinato modo produttivo, in quanto la produzione è, in ultima istanza, più importante dello scambio.

Questo modo di ragionare è giusto ma storicamente inesatto, e per due ragioni. Nel capitalismo, se al momento della produzione esiste sfruttamento della manodopera altrui, esiste anche, necessariamente, lo scambio, poiché la manodopera, essendo giuridicamente libera, ha un costo di manutenzione che va assicurato sul piano contrattuale. Quando la produzione non è finalizzata allo scambio, vuol dire che esistono ancora retaggi del passato relativi all’autoconsumo.

Persino in epoca schiavistica, quando lo schiavo veniva comprato sul mercato (e ovviamente non remunerato per il suo lavoro), lo schiavista lo utilizzava per vendere i propri beni sul mercato. È solo quando ci si limita all’autoconsumo e si barattano le eccedenza che non si vanno a comprare schiavi nei mercati. Comprare schiavi solo a titolo di prestigio o per esigenze domestiche, senza vendere alcunché, potevano permetterselo solo le famiglie più benestanti, arricchitesi proprio grazie ai commerci.

In secondo luogo la borghesia non inizia a formarsi nel momento in cui “produce” per un mercato, cioè nel momento in cui sfrutta una forza-lavoro non propria; ma nel momento in cui si accinge ad allontanarsi dalla comunità di appartenenza per fare fortuna in luoghi remoti, acquistando merci esotiche e costose, che sa di poter rivendere alle classi agiate.15 Soltanto dopo aver accumulato del denaro, inizia a pensare a come investirlo in un’attività produttiva in loco, sfruttando la manodopera altrui, sia essa operaia o artigiana.

Quindi non è vero che l’arricchimento proviene “soltanto dalla produzione” (p. 221). Nel capitalismo non c’è produzione senza scambio e lo scambio precede storicamente la produzione. Marco Polo, prima di investire la sua fortuna nell’impresa commerciale di famiglia, dovette fare dal 1271 al 1295 il consigliere e l’ambasciatore alla corte del Gran Khan Kubilai, e non era certamente stato il primo europeo a raggiungere la Cina.

Le stesse crociate in Terra Santa (XI-XIII sec.) costituirono una notevole fonte d’entrata per i mercanti veneziani e genovesi, che permise loro di mettere in piedi molte attività produttive.

A Firenze, nel 1378, il Tumulto dei Ciompi rientra nel novero della rivolte popolari del XIV sec. (la città, peraltro, era già travagliata da vari fallimenti bancari). Questo voleva dire che lo sfruttamento della manodopera risaliva ad almeno un secolo prima.

Le Corporazioni di arti e mestieri si formarono in Italia nel XII sec., e lì lo sfruttamento degli apprendisti e dei garzoni era molto evidente.


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Vediamo ora altre affermazioni di Stučka che lasciano il tempo che trovano.

1) Pašukanis “riduce tutto il diritto al mercato, allo scambio come mediazioni dei rapporti fra possessori di merci, il che significa che il diritto è un fenomeno proprio della sola società borghese” (p. 220).

La conclusione di questa frase è completamente sbagliata, sia perché anche nello schiavismo esisteva scambio mercantile fra possessori privati e tra questi e i consumatori, sia perché Pašukanis fa il contrario, cioè parte dal diritto borghese per estenderlo a quello schiavistico e feudale, cercando di anticipare, storicamente, l’idea di “scambio di equivalenti”, senza riuscire a inserire tale idea in un’analisi culturale del sistema economico dominante.

2) Ora si faccia attenzione al fatto che Stučka sostiene l’opposto di quanto affermato al punto 1. Pašukanis “per scoprire la genesi del diritto come ideologia, cerca analogie in tutte le manifestazioni del principio contrattuale o del principio dell’equivalente: sia nei rapporti fra schiavi, sia addirittura nella società gentilizia (nella vendetta ecc.)… [Ma noi] non possiamo abbandonare l’idea che il diritto è un concetto inerente ad ogni società di classe e soltanto alla società di classe: alla società borghese, alla società feudale e infine alla società sovietica di transizione” (ib.).

La prima parte è vera, ma la seconda è del tutto fuori contesto, rispetto alla critica che si può fare alle idee di Pašukanis. Quest’ultimo, infatti, non voleva minimamente sostenere che la società schiavistica o gentilizia non fossero “classiste”, cioè non avrebbe mai potuto negare, senza rischiare di apparire anticomunista, che laddove esiste un “diritto”, tutelato da uno Stato (o da un monarca), la società è inevitabilmente classista.

Semmai il suo limite – se vogliamo rinchiuderci nel campo del “diritto” – era opposto: quello di considerare le società classiste, che inevitabilmente avevano un “diritto”, come nettamente “superiori” a quelle che non l’avevano; cioè in sostanza non è stato capace di capire perché il diritto borghese appare più “democratico” di quello dello Stato schiavistico.

3) “Scoperto un lato del diritto borghese – l’idea di eguaglianza-equivalente come misura del diritto – resta da spiegare anche il lato che si occulta dietro le forme, cioè ‘il diritto del più forte’, vale a dire il diritto della ineguaglianza” (ib.).

Pašukanis non avrebbe mai negato che nella società borghese esiste un “diritto del più forte”, che dipende strettamente dalla proprietà privata dei mezzi produttivi. Semmai credeva, un po’ ingenuamente, che tale “diritto” sarebbe stato superato con l’intervento dello Stato che nazionalizza tutti i mezzi produttivi e pianifica la produzione.

E in ogni caso il difetto principale della sua analisi è un altro, quello cioè di non aver capito che non ogni scambio di beni sul mercato presuppone una proprietà privata dei mezzi produttivi. Nelle società basate sull’autoconsumo è più facile realizzare, proprio perché il valore d’uso domina quello di scambio, una valutazione equa del tempo socialmente necessario per produrre un oggetto. Qui non può esistere un prezzo della merce diverso dal suo valore, come non può esistere una differenza tra lavoro astratto e lavoro concreto.


Cenni sulla storia del diritto russo




Fino al 1832 la compilazione del diritto russo era ancora quella dello zar Aleksej, del 1649. Fu lo zar Alessandro I che, appunto nel 1832, promosse la compilazione di una raccolta di leggi dell’impero, un po’ come fece Giustiniano col Corpus Iuris Civilis.

Non si dava molta importanza al diritto, in quanto lo si considerava nettamente inferiore alle tradizioni, agli usi e costumi del Paese, ai miti ancestrali e ai riti religiosi, nonché ai valori morali della società civile (che trovavano un riflesso anche nelle fiabe popolari) e a quelli politici delle istituzioni rappresentative del popolo.

Le cose cominciano a cambiare quando in Russia si diffondono idee o filosofie provenienti dall’Europa occidentale: l’idealismo di Hegel e di Schelling dopo il 1840; il positivismo dopo il 1850; il marxismo dopo il 1870. Molto significative sono le dispute tra le opposte correnti occidentaliste e slavofile del trentennio 1830-60 e il dibattito tra populisti e marxisti sul finire dell’Ottocento, quando vengono a formarsi le idee del giovane Lenin, in polemica con Nikolaj K. Michajlovskij. Nello stesso periodo appare, con Nikolai M. Korkunov, la prima Storia della filosofia del diritto (1896), sulla linea del positivismo franco-tedesco.

Man mano che le dottrine marxiste andavano sviluppandosi, grazie soprattutto a Plechanov e Lenin, si forma anche un acceso dibattito fra la corrente mistico-slavofila (debitrice della confessione ortodossa)16 e il socialismo scientifico.

Un primo importante spartiacque a favore del costituzionalismo di tipo occidentale fu la rivoluzione del 1905.

Tuttavia gli studi più originali provengono dal campo marxista, e sono quelli di Lenin, Stato e rivoluzione (1917), che approfondisce l’opera engelsiana su L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, ma anche e soprattutto le opere di Pëtr I. Stučka, La funzione rivoluzionaria del diritto e dello Stato (1921), cui seguirono altri suoi importanti scritti, e quelle di Evgenij B. Pašukanis, di cui la principale è La teoria generale del diritto e il marxismo (1923-24).


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I classici del marxismo si erano interessati poco al tema del diritto, in quanto ritenevano che, a rivoluzione compiuta, sia lo Stato che il diritto avrebbero dovuto estinguersi progressivamente.

In realtà in Russia, almeno sino alla nascita dello stalinismo, si discusse parecchio di giurisprudenza, raggiungendo anzi dei livelli rimasti ineguagliati sino alla svolta gorbačëviana.

I due teorici giuristi più significativi degli anni Venti furono Stučka e Pašukanis, subissanti dalla vittoria dello stalinista Vyšinskij nel 1938, che dominò sino alla morte di Stalin, e le cui idee, pur con qualche rettifica, dovuta alla destalinizzazione iniziata nel 1956, continuarono a conservarsi per tutto il periodo della stagnazione.

Stučka morì nel 1932, ma la scuola di Pašukanis e Krylenko17 fu spazzata via dalle purghe staliniste.

Prima di questi giuristi, i più importanti, nel periodo pre-rivoluzionario, furono Leon I. Petrazhitsky (Petrażycki) e Michail A. Reisner.

Il primo, di origine polacca (1867–1931), concepisce il diritto come un fenomeno empirico e psicologico, nel senso ch’esso prende forma attraverso esperienze interiori, basati sulla morale, sul senso di colpa, sull’esigenza di una pena o di una vendetta o di un sacrificio. Non può esserci diritto senza dovere. Laddove esistono leggi, sentenze, contratti, ordini… si può parlare di “diritto positivo”, altrimenti il diritto è solo “intuitivo”, dettato da emozioni, pulsioni… E non è affatto detto che i due diritti coincidano, come non è detto che si somiglino il “diritto ufficiale” (creato dallo Stato e dai suoi apparati) e il “diritto non ufficiale” (creato dalla società, coi suoi usi e costumi e tradizioni). Anzi generalmente la vera pratica del diritto civile – come voleva anche Eugen Ehrlich – è più facile che si verifichi non dentro i tribunali, ma nella società, cioè non dipende dai giudici e dagli avvocati ma da ogni singolo cittadino. Un diritto “positivo”, senza quello “intuitivo”, non ha consistenza scientifica, in quanto puramente astratto.

Spieghiamoci meglio. Petrazhitsky potrebbe essere definito un filosofo del diritto individuale, un diritto non necessariamente “borghese”, in quanto le sue basi sono in un certo senso “inconsce”. Secondo lui il dovere, la norma, l’etica derivano da impulsi o emozioni che non si spiegano razionalmente: hanno carattere “attributivo-imperativo”, cioè di tipo “mistico-autoritario” o “vincolante-obbligante”. Si rispettano le regole collettive non perché lo dicono le leggi (di cui spesso si ignora l’esistenza), ma perché si attribuisce a sé o ad altri, a rapporti di costume o di gruppo le motivazioni dell’agire. Ecco perché è meglio parlare di “diritto intuivo” (o spontaneo), che solo in casi particolari diventa “razionale” o “positivo”.

Sembra che su Petrazhitsky pesi un’influenza freudiana, salvo il fatto che i diritti, pur configurandosi sulla base di pretese individuali, fanno più che altro riferimento a gruppi di appartenenza. Cioè i diritti non sono strettamente vincolati all’economia o allo Stato, ma anzi sono questi che dipendono dai diritti “inconsci”, e questi si modellano in rapporto alla società.

Vediamo ora Mikhail A. Reysner. Anche lui accetta l’idea di porre la psicologia a fondamento del diritto, ma, a differenza di Petrazhitsky, ambisce a trovare un “diritto rivoluzionario” nella psicologia delle masse che lottano per la loro emancipazione. Nel senso che queste, proprio perché oppresse, sanno bene (per istinto) dove stanno i valori di libertà, giustizia, uguaglianza, e come si possono realizzare. Quindi per lui lo psicologismo deve essere “classista”.

Le masse popolari esprimono un loro diritto intuitivo che ammanta la loro classe di un’ideologia giuridica di lotta, la quale, a rivoluzione compiuta, porrà fine sia al diritto che allo Stato, essendo entrambi strettamente correlati ad economie antagonistiche. A suo giudizio il diritto borghese non è che un riflesso distorto dell’economia reale, in quanto l’uno predica un’uguaglianza formale, che l’altra la nega nella pratica. Ovviamente fu Reysner a influenzare in maniera decisiva sia Stučka che Pašukanis. D’altra parte dopo la rivoluzione bolscevica contribuì decisamente alla stesura della prima Costituzione sovietica e al Decreto sulla separazione tra Stato e Chiesa.


Pēteris (o Pyotr) Stučka


Pēteris (o Pyotr) Stučka nacque in Lettonia, nel governatorato di Livonia (allora parte dell’impero russo) nel 1865. Proveniva da una famiglia di insegnanti rurali.

Studiò in un liceo tedesco a Riga e poi giurisprudenza all’Università di San Pietroburgo: qui conobbe i populisti rivoluzionari e si interessò alla letteratura illegale.

Dopo la laurea nel 1888, tornò in Lettonia, dove esercitò la professione di avvocato e fu uno dei leader del movimento Nuova Corrente. Partecipò al movimento socialdemocratico sin dal 1895.

Fu arrestato nel 1897 e condannato a cinque anni di esilio nella provincia di Vyatka, dove gli fu permesso di continuare a esercitare la professione legale. Approfittando di questa situazione, divenne un avvocato difensore in numerosi processi tra il 1905 e il 1907.

Quando il Partito Operaio Socialdemocratico Russo si divise nelle sue fazioni, bolscevica e menscevica, Stučka sostenne i bolscevichi, guidati da Lenin. Nel 1904 fu uno degli organizzatori del Partito Socialdemocratico dei Lavoratori Lettoni, che tenne clandestinamente il suo primo congresso a Riga. Partecipò alla rivoluzione del 1905-1907. Dal 1911 al 1914 fu collaboratore dei giornali bolscevichi “Zvezda” e “Pravda”, nonché di varie pubblicazioni giuridiche.

Dopo la rivoluzione del febbraio 1917, che rovesciò lo zar, Stučka sostenne le Tesi di aprile di Lenin, che invocavano una seconda rivoluzione guidata dai bolscevichi. Parlava nelle fabbriche di Pietrogrado, nelle caserme, e organizzò il distaccamento di fucilieri lettoni che ebbero un ruolo cruciale nell’Armata Rossa.

Nel maggio 1917 pubblicò un articolo sulla “Pravda” in cui considerava legge e rivoluzione come concetti incompatibili. In tal senso si scagliò contro il governo provvisorio di Kerensky, che esigeva il rispetto della legge in un’epoca rivoluzionaria. Stučka ricordò che “l’essenza della rivoluzione risiede proprio nel diritto di sequestro”. Fu entusiasta del Decreto sulla Pace, scritto da Lenin, e appoggiò la richiesta, avanzata da quest’ultimo, di una pace alle condizioni tedesche.

Dopo l’Ottobre Stučka assunse incarichi molto importanti sul piano giuridico e politico. Fu responsabile di un evento senza precedenti nella storia mondiale: il 22 novembre 1917 tutte le leggi vigenti nel Paese furono abrogate, e con esse chiusi anche tutti i tribunali, l’istituzione degli inquirenti, la procura, la giuria e l’avvocatura privata, in una parola tutte le componenti di un sistema giudiziario civile. Il Decreto sulla Corte, adottato il 30 gennaio 1918 e basato sulle sue idee, introdusse al loro posto i tribunali rivoluzionari locali, composti da un giudice e due assessori, creati dai soviet locali, per i quali qualunque legge doveva essere considerata valida solo laddove “non fosse in contraddizione con la coscienza rivoluzionaria” (non a caso scrisse, per es., il Decreto sull’abolizione del diritto di successione e il Decreto sull’abolizione dei ceti e dei ranghi cittadini). Partecipò all’elaborazione della prima Costituzione della RSFSR nel 1918.

Nel febbraio 1918 tornò in Lettonia, dove fu presidente del governo della breve Repubblica Socialista Sovietica Lettone dal dicembre 1918 all’agosto 1919, istituendo un regime rigorosamente egualitario. Il governo coincideva col comitato del partito. Ai suoi membri era proibito godere di qualsiasi privilegio materiale. Ha sempre voluto una Lettonia unita con la Russia rivoluzionaria.

Sulla questione agraria le sue proposte furono chiare sin dall’inizio del suo impegno politico: esproprio e nazionalizzazione della grande proprietà terriera e creazione di grandi società di produzione agricola.

Dopo il crollo del governo comunista lettone, in seguito a una controffensiva dell’esercito lettone e delle truppe tedesche alleate, Stučka tornò definitivamente in Russia, ottenendo di nuovo incarichi molto prestigiosi sul piano giuridico, accademico e politico. Supervisionò anche la pubblicazione dell’Enciclopedia dello Stato e del Diritto18 e sviluppò una nuova legislazione. In uno dei suoi libri più importanti, Democrazia e capitalismo, sottolinea lo stretto legame tra la lotta per una vera democrazia e la lotta per il socialismo, sottolineando la capacità della classe operaia di guidare tutti i lavoratori in una rivoluzione socialista.

Morì nel 1932. Le sue ceneri sono conservate tra quelle di altri dignitari comunisti nella necropoli del Muro del Cremlino, vicino al mausoleo di Lenin nella Piazza Rossa di Mosca. La moglie Dora Pliekšāne morì nel 1950. La Lettonia, a differenza della Russia, ha da tempo cancellato il nome del suo connazionale dalla toponomastica. La città di Aizkraukle, chiamata Stučka dalla sua fondazione negli anni ’60 fino alla caduta del comunismo nel 1991, ha ripreso il suo nome originario. Durante il periodo sovietico, dal 1958 al 1990, l’Università della Lettonia era ufficialmente conosciuta come Università statale lettone Pēteris Stučka.


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Stučka subì una significativa influenza non solo dal marxismo ma anche dalla scuola sociologica del diritto (Sergey A. Muromtsev, Rudolf von Jhering e Ludwig Gumplowicz). Ritiene che la nascita della scienza giuridica marxista vada fatta risalire non solo al libro di Lenin, Stato e Rivoluzione, ma anche al proprio Decreto sulla Corte e, in particolare, alla pubblicazione dei suoi libri La funzione rivoluzionaria del diritto e dello Stato, Dottrina generale del diritto e dello Stato, e al libro di Pašukanis, Teoria generale del diritto e il marxismo.

Stučka non è sempre coerente con le sue idee. Da un lato infatti accetta la tesi (classica per il marxismo) secondo cui il diritto, essendo un’espressione cosciente di rapporti sociali antagonistici di tipo borghese, a destinato a scomparire quando il capitalismo verrà definitivamente superato dal socialismo; dall’altro però non può rifiutare la tesi di Reysner, secondo cui il diritto può anche essere avvertito in maniera spontanea dalle masse oppresse, intenzionate a rivendicarlo. In tal senso gli sembrò giusto cominciare a elaborare una concezione statalizzata del diritto, in grado di rispecchiare le esigenze del proletariato, che in Russia aveva appena compiuto una rivoluzione e che, per questa ragione, aveva necessità di darsi delle norme per poterla difendere.

In termini più generali, Stučka intende il diritto come un sistema di tutela organizzata degli interessi di classe, come uno strumento di autodifesa che il proletariato al potere usa attraverso lo Stato, in attesa che lo Stato si estingua. Come tale, esso ha tre forme: una concreta e due astratte. La forma concreta coincide completamente col rapporto economico (ad es. il diritto di proprietà ha contemporaneamente contenuto economico e giuridico). In questo senso, il diritto non è essenzialmente sovrastrutturale, ma fondamentale. Viceversa la natura sovrastrutturale del diritto si manifesta in due forme astratte: le norme della legislazione e la coscienza giuridica (“ideologia giuridica”). In altre parole, il sistema delle relazioni sociali è il contenuto del diritto; la legislazione e la coscienza giuridica ne sono la forma.

Secondo Stučka, mentre nelle prime fasi di sviluppo delle società classiste le tre forme di diritto (rapporti economici e giuridici, legislazione e coscienza giuridica) più o meno coincidono; col tempo, invece, la forma concreta inizia a divergere da quella astratta e, dopo le rivoluzioni borghesi, i rapporti materiali (rapporti di disuguaglianza) entrano in netto conflitto con la legislazione (uguaglianza formale).

La rivoluzione proletaria ha avviato la convergenza di tutte le forme di diritto sulla base dell’uguaglianza materiale e formale, che dovrebbe concludersi con la loro fusione nella società comunista. La completa coincidenza delle forme di diritto porterà all’estinzione dello Stato e del diritto, e l’uomo e la società otterranno una vera libertà da ogni coercizione.


Evgenij B. Pašukanis


Evgenij Bronislavovič Pašukanis nacque nel 1891 a Starica (Russia centrale) da una famiglia lituana originaria di Kaunas.

Nel 1906 si trasferisce a San Pietroburgo, dove inizia gli studi giuridici all’Università, ma ne fu espulso in seguito alla sua adesione al movimento socialista russo. Inviso alle autorità zariste, dovette lasciare la Russia e completare i suoi studi all’Università di Monaco di Baviera, dove si specializzò in diritto ed economia politica.

Rientrò in Russia nel 1914 e quattro anni dopo si iscrisse al Partito comunista russo, lavorando, appena dopo la rivoluzione d’Ottobre, come giudice nella regione di Mosca. Dal 1919 al 1920 divenne capo del Dipartimento di Giustizia del Comitato Esecutivo. Dal 1920 al 1923 ottenne incarichi prestigiosi come giurista esperto di economia. Contemporaneamente intraprese la carriera accademica.

Partecipò alla famosa stesura del Trattato di Rapallo, concluso tra Russia e Germania nell’aprile del 1922, anno nel quale, insieme a Pēteris Stučka, eminente giurista di quel tempo, organizza una sezione della Teoria generale del diritto e dello Stato presso l’Accademia comunista.

Nel 1924 pubblicò la sua più importante opera, La teoria generale del diritto e il marxismo, che lo fece emergere come uno dei principali filosofi del diritto marxisti e gli valse una vasta notorietà anche fuori dall’URSS. Sul finire degli anni ’20 le sue teorie divennero un punto di riferimento essenziale per i giuristi sovietici e per i giuristi comunisti di tutto il mondo. Anzi, è stato l’unico filosofo del diritto marxista sovietico ad aver ottenuto un significativo riconoscimento accademico al di fuori dell’URSS.

In collaborazione con Stučka e Vladimir Adoratskij, nel periodo 1925-27, contribuisce alla redazione della prima Enciclopedia giuridica marxista in tre volumi. A partire dal 1927 fu membro a pieno titolo dell’Accademia comunista (poi nominato vicepresidente) e dal 1931 fu presidente dell’Istituto per la costruzione del diritto sovietico.

Tuttavia, già dopo il 1928 iniziò a emergere un’evidente incompatibilità tra le sue teorie e le priorità del primo piano quinquennale. Pur cercando di conciliare la dottrina originaria di Marx con le nuove concezioni imposte da Stalin, non riusciva ad accettare le critiche del suo avversario filo-stalinista Andrej Vyšinskij, il che gli costò un crescente contrasto con Stalin.

Ciononostante fino al 1936 non subì pressioni che lo invitassero a dimettersi dai suoi incarichi; anzi, divenne membro effettivo del gruppo preposto a stendere i lavori preparatori della Costituzione sovietica del 1936.

Fu denunciato sulla “Pravda” all’inizio del 1937 come “nemico del popolo”, semplicemente perché si era rifiutata la sua teoria secondo cui il diritto sovietico non era nuovo nella forma, ma solo nei contenuti, quindi non si poteva costruire un “diritto proletario”. La sua stessa concezione sull’estinzione del diritto e dello Stato nel passaggio a una società comunista non piaceva per nulla agli stalinisti, che invece pensavano di rafforzare lo Stato per evitare un presunto “accerchiamento capitalistico”, teso a smembrare l’Unione Sovietica.

Arrestato come “spia e sabotatore” il 20 gennaio 1937, venne detenuto sino al 4 settembre dello stesso anno, data in cui fu emessa la sentenza di condanna a morte mediante fucilazione, eseguita lo stesso giorno. La motivazione della sentenza fu quella d’aver “partecipato a un’organizzazione terroristica controrivoluzionaria”.

Vyšinskij si prodigò per ridurre l’influenza delle sue teorie nel mondo accademico, e per dare al sistema giuridico sovietico basi dottrinali più conformi ai dettami stalinisti.

Fu riabilitato ufficialmente, per assenza di prove, nel 1956, in seguito al processo di destalinizzazione avviato da Chruščёv. Tuttavia le sue idee non furono riammesse come accettabili, nemmeno per la discussione, anche se la loro lettura non venne vietata e i suoi libri ricomparvero negli scaffali aperti della Biblioteca Lenin, a pochi passi dal Cremlino.


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La tesi di fondo di Pašukanis è che il diritto borghese è astratto e formalmente democratico proprio perché, in questa maniera, rispecchia meglio lo scambio degli equivalenti in campo economico. Ovvero il diritto non vuole esprimere esplicitamente la volontà della classe dominante, bensì l’illusione che dal punto di vista sia giuridico che economico tutti i cittadini-lavoratori sono uguali.

Il diritto quindi è una specie di struttura a sé, esattamente come lo Stato, il cui scopo principale non è tanto quello coercitivo, quanto piuttosto quello di offrire una parvenza di equidistanza. Ecco perché la sua teoria del diritto è basata sullo scambio delle merci.

Lo Stato quindi non è soltanto una forma ideologica di una classe particolare, quella borghese, ma è anche una forma astratta dell’essere sociale, separata dalla società, che offre l’illusione d’essere un apparato pubblico impersonale. Senza questa illusione, il momento coercitivo presente nello scambio degli equivalenti sarebbe palese e quindi intollerabile. Quindi lo Stato, e con esso il diritto, può fare gli interessi della borghesia solo indirettamente, senza mostrarlo esplicitamente.

Non solo, ma finché nella società socialista permane lo scambio degli equivalenti (ch’era tipico della NEP), è inevitabile conservare sia il diritto borghese che lo Stato, seppur in maniera modificata. Stato e diritto civile sarebbero venuti meno man mano che le condizioni di mercato fossero state oscurate dal socialismo.

Fino al momento del “comunismo realizzato” i legislatori e i giuristi sovietici non avrebbero dovuto avere il compito di creare un sistema giuridico proletario o socialista, ma semplicemente quello di utilizzare a proprio vantaggio il diritto borghese ereditato. Dovevano compiere una trasformazione graduale dei contenuti giuridici borghesi per soddisfare le esigenze di coloro ch’erano impegnati a creare l’ordine pubblico sovietico. Vi era necessità di un periodo limitato affinché lo Stato e la legge si estinguessero in una società senza classi.


Andrej J. Vyšinskij


Andrej Vyšinskij (1883-1954) era un polacco nato in una famiglia di religione cattolica. Aveva partecipato alla rivoluzione russa del 1905, ma era su posizioni mensceviche. Conobbe Stalin in prigione nel 1909, e dopo la rivoluzione del febbraio 1917 collaborò col governo provvisorio guidato dal socialista borghese Kerenskij. Solo dopo la rivoluzione d’Ottobre abbandonò il movimento menscevico per iscriversi, nel 1920, al Partito comunista bolscevico.

Amante del potere, dopo la morte di Lenin si mise dalla parte di Stalin. Così negli anni ’30 ottenne incarichi molto prestigiosi nella magistratura, diventando uno degli esponenti più in vista nei processi-farsa contro gli avversari politici dello stalinismo. Usava espressioni retoriche e toni così irritanti che lo si paragonava a Roland Freisler, il giudice-boia al servizio di Hitler. Non esitò ad appropriarsi della casa e del denaro di Leonid Serebrjakov, uno degli imputati giustiziato grazie a lui.

I suoi incarichi ufficiali continuarono sino alla sua morte, anche sul piano politico e diplomatico, al punto che fu presente alle due Conferenze di Jalta e di Potsdam. Dal 1949 al 1953 fu persino ministro degli Esteri. Concluse la sua carriera come rappresentante sovietico presso le Nazioni Unite. Non fu mai sottoposto a un processo post-mortem per i suoi crimini.

La sua concezione del diritto e dello Stato era una mostruosità, degna di un fanatico inquisitore. Non a caso si oppose a tutte le teorie di Rejsner, Stučka e Pašukanis, contribuendo (con l’esclusione di Stučka, che morì nel 1932) alla loro fine, fisica e teorica.

Accusava i tre giuristi di aver negato un vero valore al carattere normativo e statuale del diritto nell’ambito di uno Stato socialista, cioè di non aver capito che nel socialismo si forma un diritto di tipo nuovo, non destinato a estinguersi come lo Stato. Anzi è proprio il diritto che può essere usato come mezzo per trasformare la società civile su basi socialiste. Quando il diritto, imposto con la forza, viene acquisito per la giustizia e la verità che rappresenta, lo Stato può anche venir meno.

Il suo ragionamento era molto semplice e dogmatico: lo Stato sovietico è socialista, in quanto ha posto fine alla proprietà privata dei mezzi produttivi e ha creato una nuova classe dominante; uno Stato del genere è in grado di produrre un diritto democratico contro i nemici del socialismo; quindi il diritto, per essere democratico, deve porsi in funzione della politica dello Stato e del partito che lo dirige, almeno finché lo si ritiene necessario. Il diritto è più legato alla politica che non all’economia, e nella politica lo Stato gioca un ruolo guida anche nei confronti dell’economia.

Paradossalmente, proprio mentre sosteneva che, con la nascita dello Stato socialista, s’era posta fine alla classe degli sfruttatori, sosteneva anche che il diritto e lo Stato andavano rafforzati per difendersi dai nemici del socialismo, e che il partito comunista doveva sentirsi tranquillamente autorizzato a usare tutta la coercizione possibile, attraverso appunto lo Stato e il diritto, per impedire che qualcuno potesse compiere un tentativo controrivoluzionario.

Naturalmente per non far sembrare che tutti i processi fossero “politicizzati”, precisava che il diritto gode di una relativa autonomia, in virtù della sua funzione di difesa dei diritti dei cittadini e della legalità. Vyšinskij era l’espressione giuridica più eloquente della politica stalinista.

Il suo principale avversario teorico fu Pašukanis, il quale sosteneva che il diritto fosse una categoria specificamente borghese e che, essendo la dittatura del proletariato un periodo meramente transitorio, non avesse senso creare un diritto “proletario”. Anzi il potere statale doveva progressivamente diminuire, per poter eliminare anche il diritto. Tale posizione, agli occhi di Vyšinskij, appariva semplicemente eversiva. A suo giudizio l’estinzione dello Stato sarebbe potuta avvenire solo in presenza del suo massimo rafforzamento.


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È singolare come Umberto Cerroni, da un lato, apprezzi di Vyšinskij l’idea di rivendicare una specificità normativa del diritto, in grado di tenerlo separato dall’economia, e, dall’altro, si meravigli ch’egli voglia usare il diritto per sostenere l’autoritarismo dello Stato e del partito politico. È come se rimproverasse a Vyšinskij di non aver capito i vantaggi del diritto borghese, la cui democraticità non ha mai bisogno di svolgersi in maniera autoritaria.

In realtà è anche Cerroni a non capire che il diritto borghese conserva la propria apparente democraticità proprio perché può avvalersi di una sostanziale ineguaglianza nei rapporti economici, che dai poteri dominanti non viene mai messa in discussione. Finché questi restano inalterati, è l’economia che detta legge sia alla politica che al diritto: cosa che in uno Stato centralizzato come quello sovietico non si sarebbe mai potuta tollerare.19

Ma tutta la sua “Introduzione” al libro di Pašukanis appare sommamente ambigua, proprio perché si vuol fare della politica qualcosa di superiore sia al diritto che all’economia: il che nel capitalismo non è proprio possibile, in quanto, in ultima istanza, è l’economia che decide tutto.

Ad un certo punto, infatti, arriva a dire, elogiando Pašukanis, che grazie a lui “lo Stato non veniva concepito più soltanto e principalmente come un apparato coattivo, né il diritto come mera ideologia espressa dalla volontà della classe dominante. Lo Stato stesso era da considerare, nella sua versione moderna, come un istituto giuridico, come un ordinamento giuridico, e perciò il diritto stesso non era da considerare soltanto come ideologia, bensì anche come un rapporto reale” (p. 17).

Cos’è questo se non un arrampicarsi idealistico sugli specchi da parte di un comunista che flirta col liberalismo borghese? Se Pašukanis avesse potuto leggere questa interpretazione del suo pensiero, si sarebbe pentito mille volte di non essere stato abbastanza chiaro. Cosa che poi fece nel 1930, ammettendo d’aver sbagliato a mescolare “i caratteri specifici della forma giuridica borghese col diritto in generale” (cit. a p. 39 da Cerroni).

Cioè arrivò ad ammettere due evidenze: 1) l’esistenza di più sistemi giuridici, tutti connotati dal dominio di classe; 2) “il diritto nella società borghese non serve solo a garantire lo scambio, ma al tempo stesso e in primo luogo sostiene e sanziona l’ineguale distribuzione della ricchezza, il monopolio dei capitalisti sui mezzi di produzione… La proprietà borghese include in sé in forma mascherata lo stesso rapporto di dominio-subordinazione che nella proprietà feudale opera in primo piano come assoggettamento personale” (cit. a p. 43 da Cerroni).


Conclusione




Il lettore si sarà accorto da solo che nel dibattito sulle teorie di Pašukanis non si sono neanche sfiorate le vere problematiche che si sarebbero dovute affrontare.

Il vero problema infatti non sta se il diritto preceda l’economia o il contrario, o se la politica preceda entrambi; o se non sia possibile parlare di diritto senza parlare di uno Stato (monarchico, repubblicano, ecc.), e altre amenità del genere. Le varie transizioni da comunismo primordiale a schiavismo (privato o statale), da schiavismo a servaggio (strettamente personale o tributario), da servaggio a capitalismo (privato o statale), da capitalismo a socialismo (statale o mercantile) vanno superate tutte, poiché nessuna ha caratteristiche umane e naturali.

Stato, diritto, proprietà privata dei principali mezzi produttivi, mercato in cui il valore di scambio prevale su quello d’uso, in cui il produttore prevale sul consumatore, in cui la moneta prevale sul baratto delle eccedenze, in cui l’autoconsumo viene sistematicamente distrutto, sono tutte cose che non devono esistere, se si vuole realizzare un socialismo davvero democratico.

Gli esseri umani devono recuperare la loro autonomia gestionale di tutti i beni e di tutti i servizi, il loro stretto rapporto con la natura (di cui devono rispettare i ritmi riproduttivi), la loro democrazia diretta. Tutto il resto non conta assolutamente nulla e va tolto di mezzo il più presto possibile.


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Attualità:

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Sopravvissuto. Memorie di un ex

Grido ad Manghinot. Politica e Turismo a Riccione (1859-1967)

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L’impero romano: II. Dalla repubblica al principato

Preistorico. Contro il concetto di civiltà

Cristianesimo medievale

Dal feudalesimo all’umanesimo. Quadro storico-culturale di una transizione

Protagonisti dell’Umanesimo e del Rinascimento

Storia dell’Inghilterra. Dai Normanni alla rivoluzione inglese

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Il potere dei senzadio. Rivoluzione francese e questione religiosa

Cenni di storiografia

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Letteratura-Linguaggi:

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Pazìnzia e distèin in Walter Galli

Dante laico e cattolico

Grammatica e Scrittura. Dalle astrazioni dei manuali scolastici alla scrittura creativa

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Poiesis (opere complete)

Filosofia:

La filosofia del merito (tra Rousseau, Marx e della Volpe)

L’idealismo faticoso (da Kant alla Sinistra hegeliana)

La filosofia ingenua

Laicismo medievale

Ideologia della chiesa latina

L’impossibile Nietzsche

Da Cartesio a Rousseau

Rousseau e l’arcantropia

Il Trattato di Wittgenstein

Preve disincantato

Critica laica

Le ragioni della laicità

Che cos’è la coscienza? Pagine di diario

Che cos’è la verità? Pagine di diario

Scienza e Natura. Per un’apologia della materia

Spazio e Tempo: nei filosofi e nella vita quotidiana

La scienza nel Seicento

Linguaggio e comunicazione

Interviste e Dialoghi

Antropologia:

La scienza del colonialismo. Critica dell’antropologia culturale

Ribaltare i miti: miti e fiabe destrutturati

Economia:

Esegeti di Marx

Maledetto capitale

Marx economista

Il meglio di Marx

Etica ed economia. Per una teoria dell’umanesimo laico

Le teorie economiche di Giuseppe Mazzini

Politica:

Kontrol. Quale socialismo?

Lenin e la guerra imperialista

L’idealista Gorbačëv. Le forme del socialismo democratico

Il grande Lenin

Cinico Engels. Oltre l’Anti-Dühring

L’aquila Rosa. Critica della Luxemburg

Società ecologica e democrazia diretta

Stato di diritto e ideologia della violenza

Democrazia socialista e terzomondiale

La dittatura della democrazia. Come uscire dal sistema

Dialogo a distanza sui massimi sistemi

Diritto:

Il diritto biforcuto (In rapporto a capitalismo e socialismo)

Siae contro Homolaicus

Diritto laico

Psicologia:

Psicologia generale

La colpa originaria. Analisi della caduta

In principio era il due

Sesso e amore

Didattica:

Per una riforma della scuola

Zetesis. Dalle conoscenze e abilità alle competenze nella didattica della storia

Ateismo:

Cristo in Facebook

Diario su Cristo

Studi laici sull’Antico Testamento

L’Apocalisse di Giovanni

Johannes. Il discepolo anonimo, prediletto e tradito

Pescatori di uomini. Le mistificazioni nel vangelo di Marco

Contro Luca. Moralismo e opportunismo nel terzo vangelo

Esegesi laica (Metodologia e protagonisti per una quarta ricerca)

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Le diatribe del Cristo. Veri e falsi problemi nei vangeli

Ateo e sovversivo. I lati oscuri della mistificazione cristologica

Risorto o Scomparso? Dal giudizio di fatto a quello di valore

Cristianesimo primitivo. Dalle origini alla svolta costantiniana

Guarigioni e Parabole: fatti improbabili e parole ambigue

Gli apostoli traditori. Sviluppi del Cristo impolitico

Indice


Premessa 5

Introduzione generale 7

Quale transizione? 10

Le chiavi interpretative di Pašukanis 15

Forma e contenuto del diritto 23

Diritto ed economia 25

Tutto deve partire dall’interno 27

Regolare o regolamentare? 30

Etica e diritto 33

Politica e diritto 36

Falsità del diritto 39

Diritto privato e pubblico 41

Funzioni sociali del diritto privato 43

Storia del capitalismo 47

Non c’è nulla di spontaneo 51

Libertà e proprietà 54

La relatività del progresso 57

L’astrazione del soggetto 59

Le astrazioni sono fittizie 62

Dal capitalismo statale verso cosa? 65

Quale socialismo? 67

L’interpretazione della storia 69

Teoria dell’inganno 71

Equidistanza e coercizione 74

Ideologia e Stato 77

Questioni religiose 80

Il plusvalore statale 83

Il potere del valore di scambio 86

Giusnaturalismo e diritto positivo 88

Uguaglianza giuridica ed economica 91

Analisi della morale kantiana 94

Universale e particolare 96

Teoria del diritto marxista 99

Questioni di etica 101

Etica e famiglia 103

Etica ed economia 105

Diritto e teologia 107

Origine del diritto penale 110

Distorcere il passato 113

La critica di Stučka a Pašukanis 115

Cenni sulla storia del diritto russo 120

Pēteris (o Pyotr) Stučka 123

Evgenij B. Pašukanis 127

Andrej J. Vyšinskij 129

Conclusione 133

Bibliografia su Amazon 134



1 Incredibile che il browser di Google, digitando il nome di Pašukanis, dica ch’era “influenzato da Marx, Vyšinskij, Trotskij e Bucharin”. L’unico, che può essere considerato un “giurista”, fu il secondo, che però lo volle morto!

2 Un grande e valente studioso italiano della Russia, che mi piace qui ricordare, è stato Aldo C. Marturano.

3 L’autore sottintende lo sviluppo “umano” in generale, ma bisognerebbe sempre distinguere le società schiavistiche da quelle pre-schiavistiche, altrimenti si induce il lettore a credere che queste ultime fossero molto vicine a quelle “animalesche”. Lo stesso per quanto riguarda la definizione “cosiddette leggi barbariche”. Se l’espressione “leggi barbariche” non viene messa tra virgolette, come per riferirsi a una narrativa dominante il cui valore euristico è discutibile, il lettore può supporre che fosse giusto definirle “barbariche” proprio perché “incivili”.

4 Attenzione che qui si usa la parola “principali” per distinguerla dalla parola “personali”. I mezzi personali sono quelli che non minano l’esistenza di un collettivismo libero.

5 Forse si potrebbe addirittura dire che mentre Mosè chiedeva di credere in un Dio irrappresentabile, indicibile, ecc., cioè in una forma di “ateismo”, che servisse a dare un maggior senso di responsabilità a se stessi, il popolo invece chiedeva ancora di poter avere un culto tradizionale, di tipo religioso o superstizioso.

6 Attenzione a non confondere questa definizione di etica con quella hegeliana, per la quale l’ethos popolare viene di fatto garantito dallo Stato, che resta sempre infinitamente superiore alla società civile. Già il giovane Marx si era accorto di questo ribaltamento di prospettiva.

7 Ovviamente il diritto non si poneva tra una persona libera e una schiava, essendo la forza dell’una sull’altra una semplice constatazione di fatto, ma soltanto tra due soggetti liberi, generalmente dotati di cittadinanza.

8 La Cina però non è entrata nei mercati del capitalismo mondiale con prodotti particolari, ma diversificando al massimo la sua produzione, che veniva venduta a prezzi stracciati, assolutamente competitivi a quelli occidentali. Ha potuto far questo perché il costo del lavoro era minimo e il numero dei lavoratori era spropositato.

9 Da notare che anche Isaak I. Rubin, nel 1928, diede un’importanza eccezionale alle teorie marxiane sul feticismo delle merci (cfr Saggi sulla teoria del valore di Marx, ed. Feltrinelli, Milano 1976).

10 Quando in Europa si parla di “Stato sociale”, lo si fa solo per accontentare, limitativamente, quelle categorie sociali che si sentirebbero maggiormente tutelate se al posto del capitalismo vi fosse il socialismo. Il che non è detto che lo sarebbero effettivamente, ma la semplice idea che potrebbero esserlo, accompagnata da azioni conseguenti, può spaventare i poteri costituiti. Non a caso questi poteri, reduci da una pesante sconfitta militare nella guerra mondiale condotta contro la Russia stalinista, non ebbero dubbi nel dare allo Stato una configurazione para-socialista, in cui molti asset strategici erano gestiti direttamente dallo Stato. È tuttavia evidente che quanto più diminuisce la resistenza popolare al capitalismo, tanto più aumenta lo smantellamento dello Stato sociale.

11 Si noti che il “tomismo” altro non è che una teologia giuridicista a sfondo laico (derivante dall’aristotelismo) nei limiti di un’egemonia ecclesiastica. Cioè è la rappresentazione più evoluta, sul piano teologico, del fallimento di quell’astratto idealismo, di derivazione platonica, che va sotto il nome di “agostinismo”, che dominò nell’alto Medioevo. Il tomismo (come tutta la Scolastica) rappresenta già un compromesso con l’ideologia borghese urbanizzata, in quanto concede alla facoltà della ragione un potere troppo autonomo rispetto alla classica fede religiosa. Senza uno studio di questi riferimenti teologici è impossibile capire la genesi dell’ideologia borghese, tant’è che quando si parla, storicamente, di un’ideologia del genere, bisogna sempre qualificarla come “cristiano-borghese”.

12 Nel Capitale il valore d’uso è implicito in quello di scambio, in quanto si dà per scontato che una merce debba servire a qualcosa. Discorso diverso è quello di chi sostiene che sul mercato l’utilità di una merce sia “inventata” dal suo produttore per poterla vendere.

13 Non dimentichiamo che i primi tentativi di affermare l’ateismo, seppur in forma criptica o mascherata, risalivano addirittura alla riscoperta accademica dell’aristotelismo e alla diffusione della filosofia nominalistica.

14 Il testo di Stučka, cui facciamo riferimento, è quello pubblicato in Italia dall’editore Einaudi, Torino 1967, curato da Umberto Cerroni.

15 Sarebbe del tutto naturale pensare che i primi mercanti sulle lunghe distanze siano stati degli ebrei, la cui religione, a causa dei pregiudizi dominanti, li teneva discriminati nelle comunità altomedievali. Il loro interesse per il denaro era probabilmente conseguente a una situazione che non permetteva altre forme di riscatto personale. Tuttavia non è dall’ebraismo che può nascere il capitalismo, sebbene l’interesse per i commerci, gli affari, la finanza, l’usura… possano aver avuto un certo peso. Il capitalismo ha bisogno di un diritto che non ponga differenze di sorta, e questo è possibile solo laicizzando il cristianesimo.

16 Sono noti i nomi di ex marxisti come P. B. Struve, S. N. Bulgakov, S. Frank e N. A. Berdjaev. Cfr Dal profondo. 1918: la rivoluzione vista dalla Russia, 2a ed., Milano, Jaca Book, 2017.

17 Nikolaj V. Krylenko partecipò alla stesura dei codici penali del 1922, 1926 e 1934. Nel 1927-29, insieme a Pašukanis, elaborò la teoria del “principio di corrispondenza dei fini”, secondo cui il giudice doveva valutare il reato non tanto secondo la sua gravità “retributiva” (es. un omicidio “vale” più d’un furto), ma secondo il grado di pericolosità verso il fine ultimo, cioè la tutela del comunismo: quindi maggiore è la pericolosità per la sopravvivenza della rivoluzione e maggiore sarà la pena (es. un atto di corruzione nei confronti dello Stato può essere considerato più grave di un omicidio personale). Questo voleva dire che non si poteva stabilire a priori, in astratto, la pena nei confronti di un reato. Nel 1930, nella sua qualità di procuratore generale dell’Urss, sostenne l’accusa nel processo-farsa contro il cosiddetto “partito industriale”, accusato di voler sabotare l’industrializzazione accelerata e la collettivizzazione forzata dello stalinismo. Nel 1936 venne promosso a commissario alla Giustizia per i suoi meriti. Tuttavia – al pari di altri noti giuristi sovietici che avevano teorizzato il superamento della sovrastruttura giuridica una volta esauritasi la fase della transizione, fra i quali lo stesso Pašukanis – si trovò presto a essere in opposizione a Stalin, che lo fece giustiziare nel 1938. Fu completamente riabilitato nel 1956.

18 In questa Enciclopedia scrisse, giustamente: “Il comunismo non è la vittoria del diritto socialista, ma la vittoria del socialismo sul diritto tout court poiché il diritto sparirà con l’eliminazione delle classi antagoniste”.

19 Cfr Il pensiero giuridico sovietico, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 71-83.


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