ECONOMIA E SOCIETA'
idee per il socialismo democratico


L'UOMO E IL LAVORO DEL SOLE

OGGI

Fine dell'economia naturale

A partire dalle prime forme di organizzazione sociale fino al feudalesimo, in un processo durato migliaia di anni, l’agricoltura si sviluppò all’interno di economie naturali, che non esigevano, cioè, contabilità in termini di valore né quindi l’intervento del denaro.

Nella Roma antica la ricchezza della classe dominante proveniva tradizionalmente dalla terra ed era motivo di orgoglio discendere dalle tribù rurali, appartenere a generazioni che erano riuscite a non livellarsi alle classi urbane, magari ricche ma senza più radici nel suolo, sempre pervaso di una sacralità primigenia fino alla caduta dell'impero. La terra fu oggetto di commercio solo sporadicamente e solo molto tardi; la storia antica del latifondo non è fatta di scambi ma di usurpazioni, razzie e uccisioni. I soldati, cui veniva affidata la terra, in buon numero non la coltivavano volentieri, e la barattavano con funzioni al servizio delle classi dominanti. Così la grandezza di Roma, fondata prima sulla terra in quanto tale, si basa successivamente sulla sua concentrazione in poche mani, sull'estensione del territorio soggetto, sulla monocoltura e sulla produzione schiavistica di un surplus per il mercato.

Per millenni l'umanità è vissuta dei prodotti della terra senza farne proprietà, in ogni continente. Gli Incas, ad esempio, vittoriosi sulle popolazioni man mano conquistate, toglievano innanzitutto la terra alle comunità locali vinte e la ridistribuivano tutta tenendo conto della vastissima unità territoriale raggiunta e della centralizzazione sociale conseguente: la maggior parte andava al sostegno diretto delle comunità, mentre il resto, coltivato secondo un sistema di corvée, andava alla divinità solare e all'Inca. La società era quindi riorganizzata sulla base di un surplus, che ovviamente non era capitalizzato in alcun modo ma serviva ad una ripartizione sociale controllata da un'autorità centrale. Non si trattava di Stato, in quanto l'Inca, il suo seguito e la casta sacerdotale non rappresentavano una classe, e neppure un ceto proprietario.

Il tipo di scambio feudale, anche quello assai diffuso del tardo medioevo, anticipatore del vero e proprio mercato, era rimasto circoscritto ai manufatti artigiani, mentre la produzione agricola era oggetto di scambio quasi esclusivamente non mercantile fra le classi del tempo. Il servo della gleba pagava in natura una parte del prodotto al signore feudale, così come veniva pagata la decima alla Chiesa. L’esistenza del contadino non dipendeva dal mercato: egli produceva i propri mezzi di sussistenza, costruiva la propria casa, i mobili, gli utensili domestici, tesseva e confezionava i propri vestiti e così via. Siccome la sua esistenza dipendeva dalla terra e tutta la società dipendeva da lui, i campi dovevano essere preservati nel tempo, non potevano essere oggetto di proprietà nel senso che intendiamo oggi. Le stesse devastazioni naturali o i saccheggi dovuti alle guerre apparivano come disastri passeggeri che la società intera riparava dedicando una parte del lavoro collettivo; perciò il signore locale aveva un interesse diretto, non solo militare, nella difesa del feudo e dei suoi abitanti. Il sistema appariva immobile. La moltiplicazione degli scambi mercantili che anticiparono il capitalismo aprirono al traffico le isole chiuse feudali ed esse furono infine dissolte dalla produzione e dalla circolazione di merci e di denaro.

Con l'apparire dello specifico rapporto di produzione capitalistico il legame tra l’uomo e la terra si trasformò. I prodotti della terra divennero oggetto di scambio, diventarono cioè merci, assumendo un generalizzato valore di mercato e si fece strada la possibilità di comprare o vendere la terra stessa, valutata al modo di qualsiasi altra merce. L’affermarsi della nuova forma economica comportò quindi la nascita del processo di industrializzazione della campagna, che raggiunse il suo apice quando le moderne conoscenze scientifiche passarono alle tecniche della coltura. Nella misura in cui la scienza pervase l'agricoltura, si produsse una sempre maggiore quantità di cibo, aumentò la popolazione, iniziò l'esodo verso le città; questa situazione provocò, a causa dei limiti naturali del suolo, il rincaro dei prodotti agricoli e la conseguente pauperizzazione di una parte sempre maggiore della massa umana.

Il processo fu lungo ma inesorabile. Fin dalla fine del XV secolo l'agricoltura aveva mostrato dei limiti rispetto alla nuova epoca che si preparava. Il viaggio di Colombo fu uno dei molti percorsi che esploratori-mercanti tracciarono spinti dall’esuberanza produttiva e demografica; naturalmente le nuove scoperte non fecero che accelerare il ciclo avviato che, fino all'inizio del XVII secolo, vide un aumento costante del prezzo degli alimenti base. Nel periodo citato tale aumento provocò il dimezzamento dei redditi reali da lavoro in una popolazione nel frattempo notevolmente cresciuta; nello stesso tempo – e proprio per questo – furono dissodati boschi e pascoli che ora diventavano redditizi e sui quali fu giocoforza applicare più avanzate tecniche di coltivazione, di concimazione e di irrigazione. Esperti olandesi di dighe e canalizzazioni furono chiamati in tutta Europa a progettare opere idrauliche, mentre in Italia le più antiche strutture lombarde vennero potenziate e adattate alle nuove monocolture, tra le quali il riso; in Francia nacquero le compagnie di drenaggio delle paludi, finanziate dal nascente capitale olandese; in Germania e in Inghilterra furono scavate reti di canali per la navigazione e l'irrigazione.

Questa rivoluzione alimentare e mercantile fu insieme prodotto e fattore, molto prima della Rivoluzione borghese, di un aumento vertiginoso (con i criteri dell'epoca) della popolazione umana, che in Europa, tra il XVI e il XVIII secolo passò da 60 a 140 milioni di abitanti. Fu anche il fattore principale della successiva rivoluzione industriale, quella che a sua volta preparò le condizioni di oggi. Se è compito attuale dei comunisti vedere quali sono i caratteri presenti che anticipano il prossimo salto sociale, ciò va fatto anche per quanto riguarda l'agricoltura.

Iniezione di capitali e aumento della produttività

La terra è un mezzo di produzione particolare poiché la sua fertilità muta da zona a zona e le possibilità di intervento umano su di essa non sono illimitate. Anche supponendo che la tecnica di produzione sia sempre la stessa, permangono le differenze di qualità del suolo. Mentre il valore dei prodotti industriali è regolato dalla produttività del lavoro, e ad un aumento di quest'ultima corrisponde un abbassamento generale dei prezzi, per la produzione degli alimenti vale il discorso opposto. Il peggior terreno coltivato (cioè quello che raggiunge per poco la convenienza rispetto all'abbandono) stabilisce il prezzo delle merci agricole, mentre c’è un guadagno supplementare per chi produce in condizioni più vantaggiose. La rendita differenziale procurata dai terreni migliori non è un fenomeno passeggero come il sovrapprofitto, che nell’industria è dovuto a metodi, macchine e innovazioni a disposizione di tutti i capitalisti; la peculiarità dei diversi terreni fa della rendita differenziale un elemento stabile dell’agricoltura capitalistica.

La divaricazione crescente tra i prezzi industriali, che tendono a scendere, e quelli agricoli, che tendono a salire, è legata a questa differenza fra la rendita e il profitto. Mentre i primi sono strettamente legati alla pressione dello sviluppo della forza produttiva sociale, i secondi tendono ad aumentare per la limitatezza del terreno disponibile in confronto all'aumento di tutti gli altri parametri sociali come la popolazione, la produzione, il consumo, la produttività e così via.

Storicamente anche la produttività agricola ha conosciuto più balzi in avanti: nel giro di un secolo la popolazione mondiale è quadruplicata, ma si ciba mediamente meglio di un tempo con i prodotti provenienti da una superficie agricola aumentata di poco, dato che al recupero di terre arabili nei paesi a recente sviluppo corrisponde una perdita per urbanizzazione e abbandono delle terre povere nei vecchi paesi capitalistici. In Italia, per esempio, si sono persi in media 5.000 ettari di terreno agricolo all'anno, dalla fine della guerra ad oggi, solo per urbanizzazione e infrastrutture; come se ogni anno fosse nata una città di 100.000 abitanti (Barrass riporta per l'Italia un'urbanizzazione superiore, pari a una città come Torino ogni 4 anni). E s'è perso, tra l'altro, quasi tutto terreno fertile di pianura. Nel Regno Unito, a causa della minore densità abitativa nelle città, l'urbanizzazione si è estesa dal 1919 al 2000 di 1.667.000 ettari di terreno agricolo, pari al 16% del territorio (Inghilterra e Galles, Scozia esclusa).

La limitatezza della terra coltivabile è quindi un fattore che in agricoltura si dimostra determinante per la corsa alla ristrutturazione tecnica delle aziende e alla eliminazione di manodopera. A differenza che nell'industria, dove la produzione non ha limiti teorici, il suolo a disposizione è soltanto quello formatosi in milioni di anni e la sua scarsità obbliga già l'uomo a coltivare in serre senza terra e ad allevare in fattorie senza pascolo e senza foraggio. L'aumento di produttività dell'azienda agricola moderna è dovuto all'introduzione di specie "migliorate", di cicli fertilizzanti e alimentari forzati, di impianti automatici e di cicli farmacologici, tutto in ambienti a parametri controllati sempre più simili all'industria.

Tutto ciò è stato realizzato mediante una divisione del lavoro assai spinta e giganteschi investimenti di capitale, per cui l'intero sistema agricolo si distingue sempre meno da quello industriale; producendo la materia prima e i semilavorati di un ciclo più vasto, lascia all'industria il monopolio della loro lavorazione successiva ma, nello stesso tempo, si integra in essa. Ne assume le caratteristiche, compresa quella di un'alta specializzazione, tanto che vaste aree del pianeta sono dedicate alla monocoltura del frumento, del mais, del riso, del caffè, del cotone, della soia, dell'arachide, del cacao, della canna da zucchero, del tè, ecc. Questo fenomeno, prodotto dall'iniezione di capitali, richiede ancor più capitali per consolidarsi e svilupparsi verso le forme più avanzate, un vero e proprio circolo vizioso.

La tendenza alla monocoltura intensiva rompe il ciclo tradizionale della rotazione delle colture e relega al passato la messa a riposo della terra sfruttata. Così il processo biologico di riciclo del suolo è talmente alterato che diviene indispensabile l'apporto di concimi naturali e chimici, di acqua e lavoro tramite macchine perfezionate, di sementi ibride e ora anche geneticamente modificate. Perciò l’aumento della produzione di derrate alimentari si accompagna inevitabilmente ad una maggiore dissipazione di energia, cioè a più anticipazione di capitale, più costi, fino alla inevitabile selezione fra i contadini. Negli Stati Uniti, in trent’anni, la resa per ettaro del mais è triplicata, ma la quantità di capitale costante necessaria per la sua coltivazione è quadruplicata, per cui solo le aziende agricole più grandi hanno potuto ovviare con la massa della produzione al calo del margine di profitto. In ogni modello ecologico, naturale o artificiale, la maggior disponibilità di cibo provoca una maggior popolazione. Nel 2006 la produzione mondiale di cereali sarà il 12% in più rispetto ad oggi e supererà i 2 miliardi di tonnellate, ma la popolazione salirà della stessa percentuale e la domanda di più ancora, soprattutto nei paesi più popolati; a causa di ciò l'OCSE prevede che il prezzo del grano aumenterà del 26%.

Il ricorso massiccio alla chimica, pur restituendo in via di principio al terreno gli elementi di cui ha bisogno la pianta per crescere, ne ha sconvolto la fertilità naturale. Viene a mancare l'equilibrio biologico che permette al suolo non soltanto di mantenersi fertile, ma anche di formarsi lungo intere epoche geologiche, o di rinnovarsi in presenza di cause distruttive naturali, come il dilavamento dovuto alla pioggia e l'azione erosiva del vento. L’esaurimento della materia organica mineralizza il suolo e lo rende duro, compatto, inadatto a trattenere l'umidità, per cui si auto-alimenta il circolo vizioso che rende obbligatorio l'uso di più macchine, più fertilizzanti, più sementi modificate, più fito-farmaci.

Per quanto riguarda il prodotto agricolo la perdita di qualità nutrizionali e l'aumento dei costi si accompagnano. Frutta e ortaggi vengono raccolti immaturi, sia per anticipare l'azione di alcuni parassiti che attaccano di preferenza il frutto maturo, sia per rispondere alle esigenze della complessità dei mercati che necessitano spesso di lunghi stoccaggi. E il più delle volte si attende di proposito il periodo favorevole nelle oscillazioni dei prezzi. Spesso frutta e ortaggi mantenuti al freddo "maturano" improvvisamente durante il trasporto e fanno appena in tempo ad essere acquistati prima di marcire. L'ammasso refrigerato dei prodotti ortofrutticoli e l'insilaggio dei cereali in terminali attrezzati nella lotta ai parassiti moltiplica le necessità di spostamento, per cui il solo trasporto in certi casi viene a incidere fino al 60% del prezzo finale.

Il processo di meccanizzazione della campagna comporta un'enorme incidenza del capitale costante sui prodotti agricoli e sulla definitiva conquista capitalistica della terra: se poniamo a 100 il tempo medio mondiale che uomini e macchine disponibili impiegavano per falciare un ettaro di frumento alla fine dell'800, l'indice scende a 63 all'inizio del '900 e a 30 negli anni tra le due guerre. Il confronto fra l'uomo e la macchina è ancora più eclatante del tempo medio: un contadino impiegava tra quattro e cinque giornate per falciare un ettaro a frumento, contro le quattro ore di una falciatrice a cavalli. Una moderna mieti-trebbiatrice fa saltare ogni indice perché alla velocità della mietitura motorizzata aggiunge il vantaggio di fornire il frumento già trebbiato e la paglia già compattata; ovviamente i costi del capitale fisso salgono più che in proporzione.

Negli Stati Uniti all'inizio del '900 erano già in funzione 25.000 trattori, 246.000 nel 1920, 1,6 milioni nel 1940, 4,7 milioni nel 1960 (le aziende agricole passavano nel frattempo da una superficie media di 55 ettari a 185). In Italia, in vent'anni a partire dall’inizio degli anni ’50, i trattori passarono da 60.000 a 660.000 mentre la popolazione dedita all'agricoltura si dimezzava. Dal 1960 i cosiddetti piani verdi, piani quinquennali che prevedevano incentivi economici e accordi privilegiati per l’acquisto di macchine agricole prodotte dalla Fiat, fecero salire ulteriormente il numero di trattori, oggi stabilizzato intorno al milione e mezzo. In questo quarantennio la produzione agricola è aumentata del 250% mentre gli addetti all'agricoltura sono passati dal 20 al 6% dell'occupazione totale. A causa del diritto di successione, cioè della proprietà, non si è però eliminata l'estrema frammentazione delle aziende, dato che solo il 4% di esse supera i 20 ettari e il 66% è a di sotto dei 3; l'aumentata meccanizzazione si è tradotta dunque in semplice eccesso di capitale costante per unità di superficie, e non in una produttività conseguente. Così il valore del capitale anticipato per investimenti fissi esclusi gli immobili è raddoppiato nel periodo di maggior incremento delle macchine, passando dal 12% del 1951 al 24% del 1971 senza permettere però un recupero di profitto.

Il capitalismo si trova a dover affrontare una contraddizione che si manifesta contemporaneamente con l'eccedenza della produzione agricola di alcuni paesi avanzati, con la diminuzione del profitto agricolo e con l'aumento dei prezzi, quest'ultimo dovuto al recupero attraverso la rendita, di ciò che si perde col profitto. Infatti, considerata nel suo complesso, l'azienda agricola sintetizza in sé il capitale da profitto e il capitale da proprietà, cioè la rendita, cioè il plusvalore proveniente da altri settori produttivi.

L'agricoltura come "servizio non vendibile"

Le caratteristiche peculiari dell'agricoltura, come il tempo di sviluppo del raccolto, l'avvicendarsi delle stagioni, il ciclo biologico degli animali e l'influenza dell'ambiente, impediscono al sistema agrario di competere con quello industriale come efficienza e rendimento; l'introduzione della tecnologia e l’aumento della produttività sono fattori che, a differenza di quanto succede nel settore industriale, oltre certi limiti non valgono ad elevarne il livello qualitativo. Anche per questo i capitali mondiali si sono gettati al finanziamento degli investimenti sulle biotecnologie che, con la "correzione" dei fattori naturali sensibili all'ambiente, permetterebbero di simulare alcune delle caratteristiche del ciclo industriale.

Se c'è un limite ai consumi sul versante industriale, esso è ancora più stretto per quanto riguarda l'agricoltura: l'uomo non può ingurgitare alimenti e bevande più di tanto; e molti materiali per l’industria provenienti dalla terra, come il legno, la lana e le altre fibre per il tessile, sono ormai sostituiti dai metalli e dalle materie plastiche. Il problema che assilla oggi l'azienda agricola dei paesi sviluppati non è più, come in passato, la bassa produttività, bensì la sovrapproduzione relativa cronica. Nonostante ciò, questi paesi non possono affidarsi alle leggi del mercato mondiale e importare semplicemente gli alimenti in cambio di prodotti industriali: nel caso del cibo per la popolazione interna, non si tratta soltanto di un problema economico ma di un problema politico-economico non trascurabile.

Tale situazione obbliga gli Stati ad adottare politiche di intervento sempre più mirate. A partire dal 1964, per esempio, nel Mercato Comune Europeo viene regolamentato il settore ortofrutticolo, con il ritiro delle eccedenze di frutta e di alcuni ortaggi, mentre per il grano duro e per l’olio d’oliva si istituisce un regime di sostegno diretto al reddito degli agricoltori. E negli Stati Uniti si attiva un processo simile con aspetti protezionistici aperti e un oculato utilizzo strategico del monopolio cerealicolo. Viene così impiantato nei gangli vitali del sistema agricolo mondiale un meccanismo misto di distruzione di alcuni prodotti, di incentivi alla produzione di altri e soprattutto di chiusura totale a protezione dei sistemi alimentari nazionali dei paesi imperialisti, meccanismo che in breve tempo si generalizza al punto di diventare una caratteristica planetaria irrinunciabile.

Nel 1987, le quantità di cereali, latte e carni stoccate dalla Comunità Europea raggiungeva un valore di 24.000 miliardi di lire, una cifra, tanto per avere un termine di raffronto, pari al 60% del valore aggiunto dell'intera agricoltura italiana dello stesso anno. Questi prodotti venivano ritirati dal mercato per essere in seguito distrutti o smaltiti nelle aree senza influenza sulla formazione dei prezzi internazionali, mentre i produttori venivano risarciti con un "prezzo minimo garantito". Naturalmente lo smaltimento della sovrapproduzione occidentale avviene verso i paesi poveri, mentre nei confronti dei loro prodotti viene praticato un vero e proprio protezionismo.

Ci si rende facilmente conto, a questo punto, di come i termini di valore nell'agricoltura moderna siano alquanto alterati. Se esprimiamo il valore di un prodotto agricolo con la classica addizione delle sue componenti: capitale costante, capitale variabile, plusvalore, interesse, rendita, notiamo immediatamente che la voce "plusvalore" è insignificante rispetto a tutte le altre. La voce plusvalore-salario (valore aggiunto) in agricoltura è storicamente diminuita a causa dell'abbandono massiccio da parte della forza-lavoro; abbandono che non ha assolutamente corrispettivo nell'industria, dove invece il numero dei proletari è costantemente salito, anche se con incrementi decrescenti nel tempo. Per converso, sono cresciute d'importanza tutte le altre voci. In primo luogo il capitale costante, come abbiamo visto, cioè quello anticipato per macchine, impianti, carburante, energia, sementi, concimi, antiparassitari, animali da ingrasso, mangimi ecc.; ma anche l'interesse e la rendita: il primo già responsabile, fin dal tempo di Roma antica, della rovina del contadiname indebitato; la seconda del dirottamento di plusvalore verso il contadino – grazie al suo monopolio sulla terra – per compensare la sua perdita di profitto.

Ecco che allora la rendita diventa la chiave di volta per la trasformazione dell'intera agricoltura mondiale, che – è ormai un fatto storico – non è più un settore produttivo in sé, per quanto disastrato, ma un servizio in funzione della sopravvivenza del Capitale. Poiché l'umanità dedita alla produzione capitalistica, compresa la crescente massa della sovrappopolazione relativa mondiale che non produce un bel nulla, deve comunque cibarsi, e poiché i paesi più potenti non possono rinunciare per ragioni strategiche alla loro "sovranità alimentare", ecco che tutta la società mantiene gli addetti al servizio del cibo come mantiene i vigili del fuoco, le crocerossine, i professori, i poliziotti, i soldati.

Contadiname mantenuto

Il bilancio di uno Stato moderno rivela l'insostituibile funzione della ripartizione del plusvalore all'interno della società al fine di stabilizzare il "corso forzoso" dell’agricoltura in questa fase di massimo sviluppo capitalistico. Più il peso specifico dell’agricoltura si fa insignificante nel complesso dell'economia reale, cioè nella produzione di valore, più i sussidi statali a suo sostegno si accrescono. Il tasso di crescita delle sovvenzioni è infatti assai più elevato dell’incremento dello sviluppo agricolo, ma nonostante ciò l'agricoltura non potrà mai più essere abbandonata all'investimento del singolo capitale e meno che mai al mercato. Teniamo soprattutto presente che il valore dei prodotti agricoli entra in buona parte nel valore del salario e che quindi il loro abbandono al libero mercato comporterebbe un selvaggio e traumatico riequilibrio fra plusvalore e capitale variabile. Anche per questo è più che mai necessario l'intervento regolatore dello Stato.

L’enorme trasferimento di plusvalore verso l'apparato di servizio del Capitale nella società moderna, e specificamente verso l'agricoltura, si può dimostrare con poche cifre tratte dagli annuari ufficiali. In Italia, rispetto all'intera massa di valore prodotta ex novo in un anno, circa 2 milioni di miliardi di lire, l'agricoltura partecipa con circa 50.000 miliardi, cioè con appena il 2,5%; negli Stati Uniti e in Giappone l'agricoltura produce il 2% del valore totale; in Francia il 3,3; in Germania l'1,2; in Inghilterra l'1,7. In proporzione, i servizi prima citati, che non partecipano alla formazione di nuovo valore, ne assorbono per circa 250.000 miliardi di lire, cioè il 12,5% del valore complessivo. Come si vede l'agricoltura non solo è un'infima parte dell'economia, ma considerata come una specie di "servizio nazionale all'alimentazione", è persino economica: il 16,6% dell'intero costo dei servizi non vendibili. In realtà la differenza fra il valore degli alimenti di tutta la popolazione e il mantenimento di poliziotti e professori è più esigua: in Italia, considerando il valore aggiunto dalla trasformazione industriale del cibo, si spendono circa 200.000 miliardi di lire per mangiare e bere. Oltre tutto i 50.000 miliardi non rappresentano unicamente cibo, bensì l'intero prodotto agricolo, legname, tabacco, fiori, agriturismo, ecc.

L'ammontare lordo della produzione agraria è un dato parziale. Secondo uno studio dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria, l’importo del sostegno diretto dello Stato all’agricoltura per il triennio 1989-91 si è aggirato sui 17.000 miliardi di lire. Inoltre, altri 13.500 miliardi erano pagati in via indiretta dai consumatori attraverso il sistema dei prezzi fissato d'arbitrio dallo Stato su alcuni prodotti chiave. Con le agevolazioni tributarie e previdenziali, che portano indirettamente all’agricoltura altri 8.120 miliardi, in complesso è fluito verso la classe contadina un valore pari a 38.500 miliardi di lire, cioè l’88 % dell'intero valore prodotto in quegli anni. Come se ognuno dei circa 2,5 milioni di contadini "ufficiali" italiani avesse intascato un assegno mensile di 1.250.000 lire per tutto il triennio 1989-91.

A dimostrazione che non si tratta di oscillazioni periodiche interne ad un paese ma di un processo irreversibile, nel 1999 ognuno dei nove milioni di produttori agricoli europei ha ricevuto in media 38 milioni di lire all'anno in sussidi, che si sono aggiunti ovviamente al suo reddito "normale". Ciò significa che vi è stato un trasferimento di reddito da tutte le altre classi verso il contadiname, e che ogni famiglia dell'Unione ha "versato" 2,75 milioni di lire in sovrapprezzo alimentare, così come ha pagato le tasse per altri tipi di servizi. Per il 65% si è trattato di versamento diretto tramite lo Stato, per il 35% di versamento indiretto tramite la manipolazione dei prezzi. Anche gli altri paesi capitalistici non scherzano: la media ricevuta da ogni contadino titolare d'azienda dell'area OCSE non EU è di 25 milioni e mezzo di lire, con punte di 75 milioni in Norvegia e Svizzera, seguite dal Giappone con 59, dagli Stati Uniti con 46, dal Canada con 21, fino alla Nuova Zelanda con 2.

Un caso particolare è rappresentato dalla Germania, che riceve meno di quanto paghi ("l'industria tedesca finanzia l'agricoltura francese", scrive l'Economist). I contadini tedeschi intascano in totale pochi sussidi (11.500 miliardi di lire), ma in Germania vi sono soltanto 429.000 aziende agricole delle quali meno della metà sono gestite a tempo pieno. Perciò le 185.000 aziende che rientrano nei parametri dell'Unione si dividono il totale, intascando ognuna 62 milioni, una somma pro capite che è molto più alta rispetto alla media. Per quanto riguarda l'Italia abbiamo qualche contraddizione nei dati; i contadini dovrebbero essere ufficialmente due milioni e mezzo, ma per l'ufficio di statistiche europeo (Eurostat) sono il 7% degli occupati; poiché questi sono 23 milioni, i contadini "veri" dovrebbero essere 1,6 milioni, quindi il sussidio pro capite dovrebbe aumentare di conseguenza e così il loro contributo al prodotto lordo e il loro reddito. Ma può darsi che un milione di contadini fantasma facciano parte di qualche furbizia italica. Siccome il generico reddito globale è la somma fra salario e plusvalore, è chiaro che il trasferimento avviene soltanto a danno di queste due voci che rappresentano l'intero valore prodotto nella società dal proletariato. Vuol dire che in Italia un milione di nullafacenti "contadini" beneficiari vanno aggiunti alla sovrappopolazione relativa.

Il futuro ingresso nell'Unione di alcuni paesi alquanto arretrati in agricoltura, come la Polonia, la Romania, la Turchia, che hanno ancora una parte notevole della popolazione legata alla terra, spingerà necessariamente verso un ulteriore aumento dei sussidi (e delle speculazioni).

Il rapporto inversamente proporzionale tra la diminuzione del valore della produzione agraria e l’aumento delle sovvenzioni statali, ha evidentemente un limite oltre il quale il trasferimento di valore in questa sfera produttiva non può andare, dato che non si può estrarre sempre più plusvalore da sempre meno operai all'infinito. Si riproduce una situazione da storica decadenza sociale già paragonata da Marx a quella di Roma nel tardo impero: è sempre un guaio, per una società di classe, mantenere troppa gente anziché sfruttarla. Il plusvalore estratto dal proletariato moderno permette infatti la sopravvivenza del capitalismo che, per mezzo dello Stato distributore, trova un precario equilibrio fra spinte caotiche e violente: viene mantenuta tutta la parte improduttiva della società, cioè i pochi capitalisti veri sopravvissuti al reciproco esproprio, le mezze classi, l'imponente massa del servitorame domestico-ministerial-militare, giù giù fino all'altrettanto imponente massa del lumpenproletariato. Ma questo meccanismo perverso è assai pericoloso per la società borghese. Se da una parte svolge una funzione di ammortizzatore sociale, dall'altra produce una media fra l'altissima produttività del settore industriale e la dissipazione di energia sociale che gli sta intorno, con il risultato di un rendimento complessivo disastroso.

La sottomissione definitiva della terra al Capitale

Nel dopoguerra, nonostante l'aumento dei prezzi agricoli mentre scendevano quelli industriali, e nonostante i primi interventi statali, nella maggior parte d'Europa ai contadini era ancora negato l'accesso generalizzato al credito, quindi alla necessaria modernizzazione. Era un circolo vizioso, perché la parcellizzazione della proprietà generava aziende troppo piccole che non potevano ingrandirsi per l’impossibilità di accumulare capitale in proprio e di garantire i debiti. D'altra parte i semplici sussidi tendevano a far sopravvivere una situazione che si sarebbe voluto superare, mentre lo sviluppo delle aziende ammodernate tendeva a provocare una concorrenza spietata nei confronti di quelle che, nonostante l'aumento dei prezzi, non riuscivano ad uscire dalla loro condizione. Era inevitabile a questo punto l'esodo dalle campagne, con l'abbandono delle terre, alla ricerca di fonti migliori di reddito in città. Le buone terre di pianura, anche se non vendute a causa dei bassi prezzi, vennero comunque date in affitto o coltivate personalmente dagli ex contadini divenuti operai, ma con produzioni del tutto marginali. Di fronte all'aumento della produttività nei terreni migliori, molti terreni di montagna, collina o zone aride furono abbandonati a causa della loro bassa resa o per la loro inaccessibilità.

Il compito di regolamentare, attraverso interventi sui prezzi, l'esodo dalle campagne e la formazione di aziende più efficienti, fu affidato al Mercato Agricolo Europeo, organismo nato nel luglio del 1964 a Bruxelles. Le linee guida del nuovo modello agricolo capitalistico non riuscirono però in nessun paese a concretizzarsi in una vera e propria riforma agraria che toccasse la proprietà, e sancirono soltanto l'adozione generale 1) di un limite, il "prezzo di intervento", al di sotto del quale lo Stato garantiva il ritiro del prodotto dal mercato al prezzo stabilito; 2) di una integrazione aggiuntiva a sostegno del reddito agli agricoltori; 3) di un "prezzo di soglia", che stabiliva un dazio d'importazione per i prodotti provenienti da paesi extra-comunitari qualora fossero stati troppo concorrenziali.

In poco tempo, l'adozione da parte di tutti i paesi di una politica di controllo artificioso dei prezzi interni, di sussidi pilotati e di barriere doganali, condusse alla formazione di un differenziale di prezzo fra mercato interno e mercato mondiale, spesso utilizzata per ragioni di concorrenza interstatale. Non è un caso che l’area di maggiore conflittualità nelle relazioni economiche internazionali sia appunto quella agricola. Dagli anni ’60 in poi, nei trattati della WTO (ex GATT) l’agricoltura ha sempre rappresentato un settore a sé, oggetto di negoziati separati e di continui contrasti. Particolarmente aspri quelli fra Stati Uniti e Unione Europea, riguardo ai criteri di utilizzazione dei sussidi, con un corollario di astiose politiche di ritorsione reciproca. Del resto è normale, il protezionismo e la guerra commerciale sono nella natura dei rapporti interstatali. Il libero commercio in realtà non è mai esistito, tantomeno quello agricolo. Quest'ultimo è stato ufficialmente sepolto negli anni ’60 da parte dei principali paesi capitalistici, costretti a stendere una vera e propria rete protettiva intorno al settore alimentare, tanto decisivo da essere presente nei piani strategici nazionali, pur rappresentando – come abbiamo rilevato - una sfera insignificante dal punto di vista della generale valorizzazione del capitale.

La dipendenza alimentare di troppi paesi sta diventando un problema mondiale che coinvolge la politica di alleanze fra Stati. Ve ne sono alcuni, come l'Egitto e la Corea, che importano la quasi totalità delle loro derrate alimentari; altri, come il Giappone, che sono comunque fortemente dipendenti dall'estero. Nel mondo non sviluppato, accanto alle attività delle grandi aziende multinazionali agrarie sopravvivono certo forme arretrate di produzione agricola, ma sarebbe errato interpretarle come dovute ad un ritardo del ciclo capitalistico locale. La sopravvivenza di grandi aree di povertà legate ad una agricoltura miserabile è diretta conseguenza del capitalismo sviluppato, le cui sofisticate materie prime da cibo, prodotto della scienza agraria, si confrontano ormai troppo sfacciatamente con quelle tipiche dell'agricoltura di sussistenza. E non c'è più alcuna possibilità né di accumulo capitalistico spontaneo locale, né di riforma agraria nazionale che possano far competere un paese "emergente" qualsiasi con i vecchi paesi capitalistici. Solo la Cina, che ha una millenaria agricoltura basata sul controllo delle acque, è riuscita ad affrancarsi dalla dipendenza alimentare, mentre l'India, che ha da sfamare una massa umana dello stesso ordine di grandezza, ha un'agricoltura assolutamente disastrata.

Il processo di sottomissione dell’agricoltura al capitale è stato lento e tortuoso. Ancora agli inizi del '900 l’azienda agricola moderna era un modello produttivo assai poco diffuso in Europa. Le più importanti realizzazioni meccaniche per l'agricoltura erano state applicate per la prima volta negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà dell'800, ma il loro costo, a parte l'aratro completamente in acciaio di John Deer, ne aveva impedito la diffusione massiccia. Alla fine del secolo si impose la mietitrice McCormick e fecero la loro comparsa certe gigantesche trebbiatrici a vapore per il cui traino occorrevano 40 cavalli. Ma una vera meccanizzazione dell'agricoltura venne solo più tardi, specie in Europa. Fino a dopo la Prima Guerra Mondiale le cause della sua limitata diffusione erano molte: la necessità di enormi capitali privati, che però si rivolgevano di preferenza verso l'investimento industriale, bancario e speculativo; la distanza delle campagne dai centri industriali; la ancora scarsa viabilità; la mancanza di combustibili e di grandi impianti elettrici con le loro reti di distribuzione; la carenza di personale tecnico e scientifico. Tutti elementi che all’epoca difettavano al capitalismo agrario e che solo il lavoro di intere generazioni avrebbe potuto formare, e solo se si fosse eliminato il problema del frazionamento del territorio in molte aree d'Europa.

Fu l'industria che riuscì, nella maggior parte dei casi, ad imporre le sue macchine alla campagna, anche quando risultavano penosamente sottoutilizzate. E lo Stato, intervenendo a favore dell'industria, permise l'accesso ai capitali da parte dei contadini, fino a fornirglielo gratis o addirittura a interesse negativo. Quando l’industria raggiunge un alto grado di sviluppo, anche l’agricoltura necessariamente la segue e si trasforma. Non solo con le macchine, ma anche con l'assunzione di forme organizzative di tipo industriale. "Una volta che il modo di produzione capitalistico è saldamente instaurato" – dice Engels nell'Antidühring"il grado in cui esso si è assoggettato le condizioni di produzione si manifesta nella trasformazione del capitale in proprietà immobiliare. Così il capitale fissa la sua sede nella terra stessa. Ormai, i saldi presupposti forniti dalla natura alla proprietà fondiaria derivano dalla sola industria". L’urbanizzazione, che fu la culla e il fattore dell'industria, ora ne è il suo mostruoso prodotto, e si fa strada in ogni area del globo.

Il capitalismo moderno, una volta insediatosi nelle aree arretrate, non può svilupparsi localmente ricalcando lo stesso schema dell'accumulazione originaria, e cioè: espropriazione dei contadini e loro trasformazione in operai, nascita e sviluppo delle manifatture, trasformazione delle stesse in grande industria, ecc. I presupposti che apparivano all’origine come condizioni del divenire capitalistico, si presentano oggi come risultati della sua propria realizzazione. Ad esempio, i contadini delle aree povere del mondo sono stati espropriati della terra o a causa dei bassi prezzi dovuti alle politiche agricole dei paesi industrializzati, o a causa dei processi di centralizzazione dell'industria agraria locale dovuta a investimenti diretti; non certo a causa di una nuova genesi "in ritardo" del capitalismo. Nell’agricoltura mondiale questo rovesciamento di prospettive risulta molto chiaro: paesi periferici di scarsa industrializzazione praticano ormai forme avanzate di monocoltura agricola, producendo non più per il consumo interno ma per l’export internazionale. Come il poverissimo Bangladesh, dove si produce un terzo della iuta mondiale; come il Senegal, dove l’agricoltura di sostentamento è stata sacrificata a vantaggio dell'olio di arachidi; come la Colombia, dove la produzione di frumento ha lasciato il posto a quella di garofani per il mercato statunitense; come l’Egitto, dove la produzione di cotone pregiato per l'esportazione ha soppiantato quella degli alimenti, quasi tutti importati; come il Vietnam, dove l'agricoltura tradizionale sta lasciando il posto alle più redditizie piantagioni di caffè del tipo "robusta", di cui è diventato il primo produttore mondiale; come la Malaysia, dove si produce la metà dell'olio di palma del mondo.

La monocoltura permette al paese che vi si dedica lo scambio fra un prodotto particolarmente adatto ad essere coltivato in certe condizioni e il cibo che esso sostituisce, ma espone lo stesso paese alle oscillazioni internazionali dei prezzi, completamente al difuori del suo controllo. Il prezzo del "robusta" vietnamita, per esempio, è precipitato nell’ultimo anno da 1740 a 870 lire al Kg, suscitando rivolte locali dei contadini, che in alcune zone dipendono ormai economicamente per l’80% da quella produzione.

Rovesciamento in corso

L'azienda può giudicare il mercato soltanto in base ai propri interessi immediati; se scopre, come è successo in Messico, che può guadagnare venti volte di più coltivando pomodori per gli americani piuttosto che mais per i messicani, perseguirà il proprio interesse a scapito di quello generale. Mentre in Messico il mais scarseggia, negli Stati Uniti abbonda come da nessuna altra parte al mondo, e verrà esportato. Del resto la produzione e il commercio di cibo per cani e gatti suscita maggiore attenzione del sostentamento di milioni di persone, per il semplice fatto che la domanda per i primi viene dai paesi industriali ed è solvibile, mentre quella degli affamati del Terzo Mondo per del cibo qualsiasi non lo è. Per questo i pescosissimi mari del Perù, un paese che ama tradizionalmente il pesce ma ne consuma poco a causa del prezzo, forniscono molta materia prima per le polpette destinate alle adorabili bestiole dei gringos.

La specifica produzione capitalistica di merci, impadronendosi definitivamente della sfera agraria, ha subordinato il consumo personale immediato alla produzione e alla vendita in massa dei prodotti della terra, specie alimentari. Nel gigantesco supermarket mondiale c'è sovrabbondanza di cibo, ma lo può acquistare in quantità e qualità adeguate solo chi partecipa non marginalmente alla formazione del Capitale. Gli altri, schiacciati sul loro campicello famigliare, o espropriati della loro terra senza poter diventare proletari, o cacciati verso le immense bidonville delle nuove metropoli, siano oggetto per conferenze sulla "fame nel mondo".

Non ci sarà mai più un ritorno a forme di liberismo economico in agricoltura (come in tutti i settori): il processo è irreversibile. Si pensi al fallimento del Fair Act, votato dal congresso degli Stati Uniti nel 1995, allo scopo di liberalizzare il mercato agricolo nazionale: la legge sanciva la libertà totale dei volumi di produzione agricola per il periodo 1996-2002 e il risultato è stato catastrofico. Prima della fine dell'esperimento, il Congresso americano è stato più volte chiamato a votare urgenti piani d’aiuto. Nel 1999 gli agricoltori statunitensi hanno ricevuto sovvenzioni record, circa 24 miliardi di dollari (contro i 12 miliardi del 1998 e i 7,5 miliardi del 1997), circa 20 milioni di lire a testa per ogni contadino fisso, 46 milioni per azienda. Il clamoroso ripensamento della borghesia americana, che si accompagna agli innumerevoli tentativi di regolare gli squilibri strutturali dell'agricoltura, dimostra che non è più possibile lasciare la produzione agraria all'anarchia del mercato e che il capitalismo, in questo settore più che in altri, avrebbe bisogno di produrre secondo un piano mondiale. Il piano di produzione, che riesce così bene al capitalista nella singola fabbrica, riesce malissimo al capitalismo sul mercato internazionale, dove le proprietà private si scontrano al massimo livello di concorrenza e dove gli interessi nazionali bloccano lo sviluppo di strutture esecutive comuni. Gli spasmodici tentativi di tutti gli organismi mondiali per giungere ad un controllo generale dell'economia è un implicito riconoscimento del carattere sociale delle forze produttive alla scala globale, una vera e propria capitolazione di questa società di fronte al marxismo.

L'intervento statale nell'agricoltura all'interno dei singoli paesi è già un piano generale di alimentazione sottratto al mercato. Non ha finalità economiche in senso stretto, non ricade cioè nell’ambito delle politiche keynesiane, cioè in quel complesso di misure per estendere i consumi e gli investimenti in funzione anti-crisi. Per esempio, nel "Protocollo per il sostegno alla produzione" del luglio 1993 l'agricoltura non era neppure nominata. Significativamente, in Germania, dopo l'ondata di BSE ("mucca pazza") e di afta epizootica, il problema dell'agricoltura è stato affrontato dal punto di vista dell'intero sistema dei consumi e non dal punto di vista economico. Commenta l'Economist del 1° febbraio 2001: "Facendo di necessità virtù il cancelliere Schröder ha approfittato della crisi per annunciare un completo ridisegno delle politiche agricole tedesche. D'ora in poi occorrerà mettere l'interesse dei consumatori davanti a quello dei contadini. Un rilanciato ministero dell'agricoltura sarà responsabile, nell'ordine: della protezione dei consumatori; del cibo e dell'agricoltura. I 5 miliardi di dollari in sussidi saranno riutilizzati conseguentemente. Le urla di protesta che il cancelliere prevede levarsi dalle potenti lobby delle fattorie, egli dice, saranno rigorosamente ignorate".

Ovviamente non è così facile ignorare chi alimenta la popolazione, come insegna un baffuto contadino francese che presso gli imbecilli passa per rivoluzionario, ma la borghesia è realmente assillata dal problema. Al di là del fatto che i consumatori di merci contano solo in quanto tali, mentre della loro salute non importa niente a nessuno, se ridisegnare le politiche agrarie di un qualsiasi paese secondo le priorità elencate dal cancelliere tedesco fosse possibile, ciò significherebbe esattamente sancire la negazione dell'agricoltura come sfera produttiva di profitto, sancire il suo passaggio ufficiale a quella dei servizi non vendibili.

Siamo quindi in presenza di qualcosa di ben diverso dai tentativi keynesiani di sostenere la produzione; si tratta di un qualcosa di strutturale, di una più potente e decisiva spinta al cambiamento. Non ha nessuna importanza se alcune singole industrie agro-alimentari, magari multinazionali, accumulano profitti enormi; sta di fatto che lo Stato, strumento dell'anonimo Capitale complessivo, non può permettere che l'alimentazione della società sia lasciata in mano ai contadini, e peggio che mai a monopoli internazionali assetati di rendita. Sarebbe come consegnare la società intera ad una classe specifica, per moderna e aziendalizzata che sia. Sarebbe la fine della stessa borghesia come classe.

Se è vero, com'è vero, che in tutto il mondo l'agricoltura ha perso ogni autonomia ed è controllata direttamente dai più grandi stati imperialisti attraverso massicci trasferimenti di plusvalore, allora non esiste più una "questione contadina" alla maniera della Terza Internazionale, neppure nei paesi dove i contadini costituiscono ancora buona parte della popolazione. La struttura del ciclo alimentare è completamente subordinata allo Stato, all'industria, alla finanza e da adesso in poi anche al monopolio della produzione industriale di sementi (capitale costante) ottenute con le biotecnologie. Dal punto di vista marxista la questione agraria, che nella Russia del 1917 era anche – e correttamente – questione contadina, può essere oggi affrontata soprattutto con i parametri della società futura.

Oggi non esiste più, in nessun paese del mondo, una situazione di rivoluzione doppia come quella che obbligava Lenin a dare una doppia soluzione al problema dei rapporti fra le classi: "Il proletariato deve condurre a termine la rivoluzione democratica legando a sé la massa dei contadini, per schiacciare con la forza la resistenza dell'autocrazia e paralizzare l'instabilità della borghesia. Il proletariato deve fare la rivoluzione socialista legando a sé la massa degli elementi semiproletari della popolazione, per spezzare con la forza la resistenza della borghesia e paralizzare l'instabilità dei contadini e della piccolo borghesia" (da Due tattiche).

Oggi non può rimanere più nulla della prima parte citata: la rivoluzione democratica borghese è storicamente compiuta, l'autocrazia feudale non esiste più e la borghesia non oscilla più impotente fra modi di produzione diversi ma è saldamente al potere. E anche la seconda parte non rispecchia più la situazione di oggi: ci ha già pensato la borghesia a neutralizzare l'importanza di classe del contadiname. Rimane la rivoluzione proletaria integrale, che nel suo programma immediato non consegnerà affatto la terra ai contadini ma ne farà un bene collettivo, come ha sempre precisato Marx. Il problema reale dell'arretratezza di vaste aree e l'oppressione economica di paesi forti su quelli deboli ha portato spesso a identificare i compiti della rivoluzione comunista anche con un vago "anti-imperialismo" legato all'annosa "questione nazionale". Ma anche in questo caso abbiamo la spiegazione chiarissima di Lenin: non è la dipendenza economica a stabilire il criterio per individuare condizioni rivoluzionarie borghesi, bensì quella politica, negatrice della libertà nazionale (Intorno a una caricatura del marxismo).

Esistono ancora numerosissimi contadini, portatori di "stimmate antiche", veri barbari moderni benché siano immersi fino al collo nella civiltà, costretti a convivere con le forme espropriatrici, assassine della loro particolarità e spesso della loro stessa esistenza. Solo nella prospettiva rivoluzionaria "pura", mai più "doppia" – adesso sì possiamo dirlo con sicurezza definitiva – "anche questi barbari potrebbero diventare, contro essa civiltà, uno dei proiettili della rivoluzione che la deve sommergere" (da Pressione "razziale" del contadiname, pressione classista dei popoli colorati).

DOMANI

Ridistribuzione del reddito o negazione del Capitale?

Da un punto di vista generale, l'agricoltura si prenderà la sua grande rivincita storica già con il capitalismo, anzi lo sta già facendo. Una volta che la "terra vergine" ha ricevuto le attenzioni del "Capitale satiro" (Mai la merce…) e ne è stata fecondata con scienza e tecnologia, il quantitativismo produttivo legato al profitto cozza contro l'esigenza umana di cibarsi decentemente. Lo stesso ciclo naturale, uomo compreso, ha reazioni di rigetto. Un cancelliere tedesco non potrà rivoluzionare l'agricoltura con un decreto del governo, né cozzare contro gli interessi del capitale agro-industriale, ma è l'intero complesso economico tedesco, non solo l'agricoltura, ad averlo mosso a certe affermazioni. Così nel resto d'Europa, in America, in ogni altro paese ultra-sviluppato. E' il sistema intero che rende sempre più evidente agli uomini il fatto palese che di capitalismo si muore. E sempre più cadono parole d'ordine delle rivoluzioni passate, lasciando chiara e tremenda la domanda fondamentale: volete il capitalismo? E' questo, non può essere altro; ma è esso stesso a mostrarvi che è pronta una società nuova, che ha solo bisogno di essere liberata da questo involucro putrefatto.

Come l'aumento della forza produttiva sociale è legato al periodo in cui l'umanità è divisa in classi, ponte fra il comunismo primitivo e quello sviluppato, così la nostra specie ha dovuto gettare un ponte fra la semplice raccolta di cibo e la sua produzione cosciente, secondo un progetto che consenta all'uomo di inserirsi armonicamente nella natura e non depredarla. Il ponte dello sviluppo non è più da percorrere, siamo già dall'altra parte, il regno della necessità è già alle spalle, oggi la forza produttiva sociale è pronta per il balzo nel regno della libertà; rimane da abbattere – ultima barriera che ci separa dalla società futura – la classe-cadavere oggi al potere. Allo stesso modo è già percorso il ponte dello sviluppo agrario: l'umanità ha già in potenza la soluzione alimentare, basterebbe che potesse evitare l'economia, cioè la contabilità secondo segni di valore, quella che porta a considerare la media tra quelli che non hanno nulla da mangiare e quelli che muoiono obesi, saturi di colesterolo e di pillole dimagranti.

Il capitalismo, drogato e tenuto in vita dalla continua ripartizione sociale del plusvalore, con la sua politica agraria moderna ci fornisce un'ulteriore prova che la società futura è a portata di mano. Siamo, ovviamente in modo mediato dallo sviluppo della proprietà e della forza produttiva sociale, nella condizione di certe società antiche ancora comunistiche, dove l'agricoltura forniva il cibo all'intera società con una ripartizione del prodotto attuata da strutture comunitarie centralizzate. La condizione oggi è rovesciata in quanto la società basata sul valore ha distrutto l'organicità delle prime forme produttive, non ancora di classe, dove l'energia di ognuno era al servizio della collettività; dove, a differenza di oggi, non si poteva neppure immaginare che la terra potesse essere oggetto di possesso e di scambio, non diciamo di proprietà e di commercio. Ma, se un paragone meccanico sarebbe storicamente arbitrario, non è invece fuori luogo annotare che la società moderna avanza verso la distruzione delle forme specifiche di valore, quelle stesse che le sono essenziali per esistere: per esempio adottando forme di distribuzione comune del cibo, forzandone il prezzo alla scala planetaria.

Non si tratta di un ritorno a forme antiche, anzi; ma di certo il frutto del lavoro sociale è distribuito come e più ancora che in quelle. L'agricoltura non si può certo definire un "settore produttivo" se a suo favore, in due sole aree economiche, Europa e Stati Uniti, una massa di valore pari al prodotto lordo di un centinaio di paesi minori viene sistematicamente ripartita d'autorità fra le classi.

Questa non è l'unica forma di ripartizione ad hoc, oltre a quelle fisse della corrente spesa sociale. Il piano energetico interno presentato dalla nuova amministrazione americana prevede una spesa ancora superiore. L'insieme delle manovre economiche varate per il riallineamento dell'Italia ai parametri di Maastricht ha mosso una quantità di valore pari a dieci volte l'ammontare di un anno dell'intera produzione agricola nazionale. Il fenomeno keynesiano degenerato della Cassa per il Mezzogiorno ha trasferito per mezzo secolo quantità enormi di valore dall'insieme dell'economia ad interessi pubblici e privati particolari, impedendo il collasso del Sud, ma anche bloccandone lo sviluppo autonomo. La stessa grande industria ha beneficiato di enormi trasferimenti di valore che hanno stimolato la sua crescita ma nello stesso tempo hanno inquinato le sue capacità di concorrenza internazionale.

Questo capitalismo asfittico si fonda ormai, alla faccia del liberismo, su interventi autoritari dello Stato per l'utilizzo sociale del plusvalore proveniente dai settori produttivi. Ma se guardiamo oltre questa specie di accanimento terapeutico, possiamo vedere una spinta materiale alla necessità di un progetto generale della vita di specie, ad un vero e proprio tentativo di rovesciamento della prassi. Solo che il capitalismo lo trasforma in una rozza e brutale salvaguardia della sua propria esistenza. All'interno di questo intervento autoritario, l'agricoltura ha già dimostrato nei fatti che, se non ci fosse di mezzo la proprietà, i problemi dell'alimentazione potrebbero essere risolti con interventi di rilevanza insignificante rispetto al complesso delle manovre economiche. Ma le forme sociali non si possono ri-formare, occorre distruggerle per vederne emergere di completamente nuove.

Lo sviluppo della forza produttiva sociale è dunque arrivato al punto di mettere in discussione la moderna produzione di valore in agricoltura. Nello stesso tempo, però, la persistenza della proprietà ingigantisce gli effetti del monopolio della terra; tutta la società, se vuole nutrirsi, è costretta a pagare una tangente al contadiname, dirottando valore dall'insieme delle sfere produttive verso l'agricoltura. L'azienda agraria intasca dunque valore altrui. Sarebbe razionale eliminarla, ma nella forma sociale basata sulla proprietà non si può. Altro che "terra ai contadini", occorre strappargliela dalla grinfie per sempre.

Perciò, mentre l'immensa forza della futura produzione e distribuzione agisce direttamente sul presente, la società borghese si arrocca in difesa proprio utilizzando questa potenza. Se infatti si considera il capitalismo come sistema globale e non come somma dell'azione di singoli capitali (del resto sempre meno significativi), è indifferente il percorso per giungere alla produzione di nuovo valore, purché questo ci sia. Con lo sviluppo definitivo della "sottomissione reale del lavoro al Capitale", il direttore di una fabbrica e l'addetto alle pulizie della stessa partecipano alla produzione finale pur non essendo entrambi a rigore direttamente produttivi; essi fanno parte, come lavoratori parziali, di un insieme che Marx definisce "operaio totale" (VI Cap. Inedito, pag. 74). Così com'è produttivo questo operaio totale, è produttivo il sistema che permette al capitalismo di sopravvivere, anche se al suo interno vi sono particolari settori, come l'agricoltura, che ne producono ben poco, o come la scuola pubblica, la polizia, ecc. che non ne producono affatto.

Bilancio energetico della produzione di cibo

La legge del valore non risulta certo inficiata da tutto ciò: semplicemente è dimostrato che essa agisce sempre più in generale e sempre meno in particolare. "Ciò può avere una qualche utilità per la diffusione del nostro lavoro", come si scrivevano Marx ed Engels quando scoppiava qualche contraddizione significativa. Ebbene, nella società così com'è, la legge del valore s'incarica di mostrarci la critica in positivo del modo di produzione capitalistico, vale a dire presenta già completamente formati i presupposti della società futura. Chiunque non si faccia rincoglionire dalla propaganda borghese capisce benissimo, senza bisogno di tante spiegazioni, che la produzione in generale non è scarsa ma sovrabbondante, e che persino l'agricoltura esistente potrebbe risolvere da subito ogni problema alimentare del mondo. Il compito che qui ci assumiamo, quindi, non è di ripetere la potente critica che il marxismo ha già avanzato nei confronti della rendita capitalistica, ma quello di riprenderne il filo e di dimostrare che, anche in questo caso, nel programma immediato della rivoluzione prossima ventura non ci sarà più bisogno di ricorrere a provvedimenti "costruttivi", basterà adoperare razionalmente il risultato storico già raggiunto e avanzare.

La società futura non avrà più bisogno di incrementare la produzione agricola di un forsennato 2% medio all'anno per sessant'anni, come hanno fatto gli Stati Uniti dal 1940 ad oggi, per un aumento totale del 328%. L'umanità non avrà più bisogno di produrre, sempre sull'esempio degli Stati Uniti, 13 quintali di cereali per ogni abitante della Terra. Distribuirà la produzione evitando l'insensato sfruttamento degli uomini e del suolo. Né avrà bisogno di dimostrare che la produttività agricola è portentosamente salita, con 1.750 quintali di cereali all'anno per ogni agricoltore, 75.000 polli per ogni avicoltore e 5.000 bovini per ogni allevatore; se la prenderà più comoda, soprattutto evitando le porcherie che il ciclo della produttività esasperata richiede. Non dirà che l'agricoltura industriale ha un rendimento straordinario, vera menzogna e truffa borghese, si adopererà per ottenere davvero questo rendimento tramite una scienza non venduta al profitto.

La società futura non estenderà gli attuali metodi bestiali, pardon, civili, a tutta la terra. Sfrutterà la scienza dell'alimentazione portandola a mete ben diverse che non la pura e semplice produttività. Perché questa, ed è persino un luogo tristemente comune ripeterlo, è vertiginosa per azienda, ma è fallimentare per la massa degli uomini: 100 milioni di uomini muoiono ogni anno per malnutrizione; 340 milioni sono cronicamente ammalati per lo stesso motivo; 730 milioni non hanno sufficiente denaro per nutrirsi con le calorie indispensabili a sopportare un lavoro qualsiasi.

Il paradosso sta tutto nel preteso alto rendimento dell'agricoltura moderna, ma un diverso assetto sociale può smascherare la menzogna. Per rendimento si intende la differenza fra l'energia immessa in un sistema e l'energia che lo stesso sistema fornisce sotto altra forma. Il rendimento, per un principio fisico, è sempre inferiore al 100%. Un'automobile comune ha un rendimento apparente di circa il 28%. Ciò significa che se si immette nel serbatoio energia per 100, se ne utilizza per 28 e se ne dissipa per 72. Un motore elettrico ben progettato e costruito ha un rendimento apparente fino al 98%. Ma perché diciamo "apparente"?

Se valutiamo il sistema completo, l'automobile è prodotta con una serie di operazioni che va dallo scavo in miniera all'imbonimento pubblicitario; ha bisogno di tutto un supporto di servizi quando viaggia e quando sta ferma, fatto di reti di vendita, distributori di carburante, officine di riparazione, autostrade, garage, compagnie di assicurazione, demolitori, ecc. Quindi il suo rendimento reale è molto, ma molto inferiore al 28%, forse dell’ordine del 2 o 3%. Un motore elettrico avrà pure un rendimento alto, solo però a partire dalla presa di corrente, senza contare l'energia che esso stesso contiene. L'elettricità viaggia attraverso cavi che hanno una resistenza e che quindi dissipano energia; è prodotta quasi tutta utilizzando combustibili di varia natura che mettono in moto macchine a loro volta soggette a dissipazione, e ha bisogno di una rete logistica e di materiali vari per il suo, sebbene in misura neppure confrontabile con quel che necessita all'automobile; perciò alla fine anche il rendimento reale del nostro ipotetico motore elettrico scende di un bel po', diciamo al 20%.

La macchina umana, fatta di muscoli, nervi e cervello perfezionatisi attraverso un'evoluzione di milioni di anni, "rende" infinitamente di più. Con le calorie di un piatto di spaghetti ben conditi un adulto normale percorre a piedi una sessantina di chilometri. Se costui facesse il contadino e lavorasse la terra con attrezzi a mano, in un clima temperato e con le materie prime di oggi produrrebbe 10 calorie di cibo per 1 dissipata col lavoro. L'agricoltore medio americano ne produce 6.000 dissipandone 1, ma il suo rendimento apparente fa la fine di quello dell'automobile. Se si calcola l'energia complessiva dissipata nel processo produttivo delle 6.000 calorie, il bilancio è del tutto negativo. Per produrre 1 Kg di mais il contadino della corn belt americana, dove c'è la produttività agricola più alta del mondo, dissipa l'energia equivalente a più di 10 Kg dello stesso cereale.

Consumo dieci per produrre uno? Dov'è l'inghippo? Tutto nel differenziale fra le calorie contenute nelle materie prime per l'industria dei fertilizzanti, dei carburanti, ecc. e il contenuto calorico del mais, naturalmente confrontati in termini di valore, cioè dollari/caloria; il valore dell'energia racchiusa nei prodotti industriali è inferiore a quello dell'energia racchiusa negli alimenti. Il bilancio va fatto tenendo conto dell'ambiente depredato. L'agricoltura, tra l'altro, è una sfera di produzione ad alta dissipazione di energia: negli Stati Uniti il 12% di quella totale è dissipato dall'agricoltura, che produce, come ricordato, solo il 2% del prodotto interno lordo. Mai una società basata su di un piano generale di produzione di valori d'uso potrebbe dissipare, cioè buttar via, una quantità così enorme di energia.

L’energia viene sprecata anche a valle del processo alimentare. Infatti il sistema di distribuzione, conservazione e trasformazione industriale porta a sprechi enormi anche del prodotto già raccolto dai campi, e il rendimento si abbassa ulteriormente. Ma ciò nonostante, l'agricoltura di un paese come la Francia produce una quantità di calorie sufficiente per 250 milioni di cinesi d'oggi (2.000 calorie medie giornaliere a testa).

Se aggiungiamo alla Francia gli altri paesi sviluppati e facciamo la proporzione usando i parametri attuali, troviamo che in una futura società, non impelagata con la legge del valore né con il problema di un rendimento puramente quantitativo, 18 milioni di contadini con produttività occidentale sarebbero in grado di produrre ciò che produce il miliardo e mezzo di contadini attuali e di fornire decentemente di cibo l'intera popolazione terrestre lavorando un decimo dell'attuale terra agraria. Tutto ciò utilizzando una piccolissima quantità di energia sociale, distribuita sul mondo intero ma equivalente appena a quella che viene prelevata oggi dalla società per darla all'agricoltura in forma di valore. Come si vede, un piano mondiale per l'ottimizzazione delle risorse agricole potrebbe facilmente essere varato subito, se non ci fosse di mezzo il capitalismo.

Abbiamo parlato di rendimento in rapporto all'energia; ora, per mostrare appieno i vantaggi dell'eliminazione della proprietà, occorre parlarne in altri termini, cioè in base al rapporto fra seminato e raccolto, che chiameremo resa per ettaro di un certo prodotto. Si tratta di due approcci non confrontabili sotto l'aspetto del valore, ma questo secondo modo di vedere il problema ci introduce direttamente all'agricoltura della nuova società. Ricordiamo che, dal punto di vista capitalistico, possono esserci contemporaneamente un'alta resa e una bassa produttività. Si tratta di un paradosso dovuto esclusivamente alla proprietà, che distingue fra i terreni migliori e quelli peggiori. In una società non proprietaria, essendo eliminata appunto la proprietà e perciò la legge della rendita, vi sarebbe un'unica resa media mondiale e un'unica produttività sociale.

Su terreni con diversa fertilità naturale si può ottenere entro certi limiti un'eguale resa applicando lavoro e capitale, così come su terreni di eguale fertilità si possono ottenere rese differenziate per lo stesso motivo. Ma passando alla produttività, è chiaro che essa è fortemente condizionata dai confini dell'azienda, quindi dalla proprietà. Poniamo che una tipica azienda italiana di 10 ettari produca 400 quintali di frumento con un contadino a tempo pieno; l'attrezzatura necessaria e lo stesso contadino potrebbero tranquillamente coltivare il doppio del terreno, quindi con una produttività doppia, ma il limite della proprietà non lo permette. Un altro contadino che invece abbia un terreno di fertilità 3/4 rispetto a quella del primo, ma vasto il doppio, avrebbe una produttività di 600 quintali, cioè una volta e mezza. Dato che oltre i 40 quintali per ettaro è difficile forzare la resa, la superficie diventa essenziale per aumentare la produttività. Questo esempio vale in generale, soprattutto per le singole proprietà e per ogni dimensione di azienda, ma vale anche per i singoli stati. Nei Paesi Bassi, per esempio, fin dal XVI secolo la resa per ettaro è una delle più alte del mondo per qualsiasi coltura adatta a quel clima, ma la concentrazione della popolazione e la limitatezza del terreno disponibile impedisce che la produttività, l'unico criterio valido dal punto di vista capitalistico, salga oltre al limite raggiunto. Se il piccolo contadino e il piccolo Stato di fronte a ciò non muoiono, è perché riescono ad arrangiarsi con altre fonti di valore.

La concentrazione di capitale fisso per ettaro è un altro indice della produttività. Supponendo per i vari paesi un tasso di meccanizzazione equivalente per ogni azienda agraria, in rapporto alla terra l'utilizzazione degli impianti varia moltissimo: nei Paesi Bassi ogni trattore serve a coltivare 5 ettari di terreno, in Germania 5,8 negli Stati Uniti 43, in Canada 67, nella vecchia URSS ben 110. Solo nel caso dell'URSS il tasso di meccanizzazione potrebbe non essere totalmente comparabile, ma siamo comunque nello stesso ordine di grandezza degli altri paesi.

In paesi come gli Stati Uniti e Canada, dove la quantità di terra disponibile non comporta problemi e la proprietà privata è anche molto estesa, si è affermata storicamente un'alta produttività. Quella nel campo del frumento, per esempio, è quadrupla rispetto alla media europea anche se la resa è meno della metà di quella ottenuta sui terreni francesi, inglesi e tedeschi: 21 quintali per ettaro contro una media di 43. In Russia, dove la superficie media delle aziende era di 4.200 ettari prima del crollo dell'URSS, la resa è decisamente bassa; perse le terre nere dell'Ucraina che facevano salire la media a 18 quintali per ettaro, oggi, facendo la proporzione con le superfici rimaste, dovrebbe aggirarsi attorno ai 10 quintali. I Colcos avevano rese più alte della media ma produttività molto bassa, essendo composti da una pletora di contadini poco meccanizzata. I Sovcos, nonostante avessero in dotazione le terre peggiori, a bassissima resa, soprattutto in Siberia, offrivano produttività migliori per via dell'alta meccanizzazione e la bassa densità di manodopera; erano anche meglio organizzati e riuscivano a rifornire direttamente le città circostanti e ad evitare gli immensi sprechi russi nel trasporto e nello stoccaggio.

Nessuna riforma capitalistica potrà mai eliminare la contraddizione fra resa e produttività. Una resa elevata si può ottenere soltanto sui terreni migliori e con un anticipo elevato di capitale, ma gli ottimi terreni sono una piccola percentuale di quelli esistenti sul globo. Un'alta produttività si può ottenere su terreni poco fertili, la maggior parte, estendendo la coltura, introducendo nuovi ibridi, meccanizzando al massimo, ecc. Sappiamo però che alta produttività significa anche alta quantità, e questo comporta una concorrenza spietata delle colture estensive nei confronti dei terreni anche ad alta resa ma di superficie minore. Concorrenza dovuta soprattutto alla caduta del saggio di profitto nelle aziende minori, dove è alta la composizione organica del capitale in rapporto al prodotto e dove, oltre tutto, macchinari sovradimensionati e tenuti fermi per la maggior parte dell'anno abbassano il grado di utilizzo del capitale fisso.

Solo la non-merce sarà frutto armonico della terra

La scomparsa della proprietà, anche solo su una parte significativa del globo, eliminerebbe la contraddizione fra terreni di diversa natura ed estensione, e permetterebbe di utilizzare al meglio le loro caratteristiche in ragione delle colture di cui l'umanità avrà bisogno. Scomparsa anche la contabilità in valore, il bilancio fra energia dissipata ed energia ottenuta potrà riprendere un ciclo organico equilibrato. Ciò non significherà ritornare alla zappa e rinunciare alla tecnologia e alla scienza, tutt'altro. Proprio la scienza ci permetterà di capire meglio quale immenso circolo vizioso di spreco avremo spezzato e quali orizzonti si potranno aprire.

L'agricoltura, più di tutte le altre attività umane, ha un ciclo legato al rinnovo del suolo, alla geologia, all'ambiente, al clima, tutti fattori più potenti di qualunque capitalista agro-industriale, di qualunque Stato. Fattori cui occorre sottomettere l'attività umana, armonizzandola con l'insieme. Si possono razionalmente varare progetti a lunga scadenza e di vasta portata solo partendo da presupposti di equilibrio che coinvolgono aree vastissime, ma se su queste gli uomini hanno tracciato confini nazionali e privati, ne è impossibile la realizzazione. Il carattere mercantile delle grandi opere non tiene conto in nessun modo degli equilibri suddetti, come dimostrano gli esempi disastrosi della diga di Assuan in Egitto, l'immenso progetto di irrigazione che sta prosciugando il Mare d'Aral, la desertificazione delle terre fertili negli Stati Uniti, i dissodamenti amazzonici, l'erosione delle terrazze di loess sottratte al pascolo per l'aratura in Cina, ecc. Seppure gli stati avessero il potere di varare politiche agricole coordinate al di sopra degli interessi nazionali e privati, essi dovrebbero sottomettere in modo totalitario tutti i proprietari dei terreni, cosa che evidentemente corrisponderebbe più ad un esproprio violento che ad una riforma.

Non appena la merce agraria raggiunge il mercato, essa si comporta come tutte le altre merci, attende il compratore. Solo che è una merce un po' particolare. Essendo un prodotto a ciclo naturale, non si può produrre just in time; essendo deperibile, non si può immagazzinare come si vuole per il tempo che si vuole; essendo spesso legata a zone e climi specifici dev'essere trasportata per lunghe distanze; interagendo con la fisiologia umana, non può essere del tutto industrializzata, inscatolata, liofilizzata, ridotta alle sue componenti essenziali e riassemblata in prodotti dalle nuove qualità organolettiche, materia morta. Perciò il suo valore è molto sensibile alle perdite che avvengono dopo la produzione. Ecco perché il capitalismo tende a snaturare il cibo nella massima misura possibile, affinché sia trattabile come tutte le altre merci. La società futura non avrà tale necessità, vedrà il trionfo della vitamina fresca, del frutto di stagione profumato, della qualità organolettica esaltata, del vivo sul morto.

Oggi la tendenza a prolungare la presenza di un certo alimento lungo l'arco di tutte le stagioni mette in moto una serie di meccanismi che a loro volta stanno alla base di industrie e di servizi produttori di plusvalore. Trasporti e immagazzinaggio prima di tutto, ma anche conservanti, antiparassitari, essicatori, stagionatori, restauratori chimici di gusto e profumo, additivi, coloranti, imballaggi, pubblicità. Tutta un'industria post-raccolto che produce di gran lunga più valore dell'agricoltura stessa. La società futura migliorerà il bilancio energetico anche eliminando il mostruoso sistema della ricerca di valorizzazione post-produzione in ogni campo.

Per la società capitalistica, invece, il dispiegamento di energie post-produzione è sempre più necessario, e porta a paradossi che i moralisti amano ricordare, come quello dei contenitori da cibo per i 275 milioni di americani, la cui industria ha un fatturato parecchie volte superiore a ciò che spendono un miliardo di indiani per mangiare. Ma il Capitale può continuare il suo ciclo di accumulazione solo attraverso la moltiplicazione delle occasioni di mercificazione. Se l'agricoltura americana è l'esempio eclatante, è perché l'industria se ne è appropriata, facendone un semplice supporto per le sue attività diversificate. La Boeing che fabbrica aerei, missili, satelliti artificiali, tratta anche le patate, ma non ricava certo profitto dal tubero in quanto tale, bensì in quanto prodotto utilizzabile dall’industria che le frigge, le impacchetta nel cellofan, le pubblicizza, le distribuisce nei supermercati, nei cinema e negli stadi, con gadget e quant'altro serva a valorizzare il tutto. Così la gigantesca ITT, colosso delle telecomunicazioni, che investe sul prosciutto, base per quasi tutto il fast food industriale americano; così la petrolifera Getty con le noccioline salate. L'industria americana, seguita da quella del resto del mondo, si è buttata sul cibo non per vocazione agreste né per il suo valore intrinseco che è piuttosto scarso, ma per quello che sta intorno al cibo, dalle rutilanti confezioni alla televisione. Essa è quindi giunta al controllo quasi totale – all'origine – della produzione americana dei cereali e della soia, del 51% di quella degli ortaggi, dell'85% degli agrumeti, del 97% del pollame da carne, del 40% delle uova.

Tutto ciò sarà spazzato via non appena il profitto non sia più il parametro guida di ogni attività produttiva umana. Il ciclo naturale potrà essere finalmente rispettato, non per moralismo ma per armonizzare con esso il metabolismo umano, dato che dopo essersi adattato per milioni di anni ai ritmi naturali non può essersi evoluto in questo ultimo mezzo secolo tanto da staccarsi da essi. E del resto non è un assioma mangiare fragole insapori e avvelenate in inverno per puro sfizio consumistico. La nuova società, se deciderà di diversificare la dieta nonostante le stagioni, lo farà per utilità o anche per piacere, ma non certo per profitto. Così non sposterà fragole in aereo, non fabbricherà il profumo che non possono avere, non le irrorerà con antiparassitari e conservanti, non le avvolgerà in imballi che assorbono energia sociale per il doppio di quella del contenuto, non le pubblicizzerà con messaggi idioti ed eviterà infine di ammalarsi e di consumare medicine a loro volta inscatolate, pubblicizzate, ecc. ecc. Solo un'umanità insensata può voler mangiare una fragola che contiene in sé, in energia equivalente, una quantità di petrolio mille volte superiore alle sue qualità nutrizionali.

Tutto l'apparato mercificatorio che si stratifica intorno ad ogni prodotto utile come quello dell'agricoltura crollerà da solo, non appena salterà il meccanismo della valorizzazione del Capitale. Il trasporto aereo delle fragole sarà bandito perché è una fesseria, non per "risparmiare" sui costi o per ritornare a una vita spartana. Sarà preferito il trasporto su rotaia e su acqua a quello aereo e su gomma non per una sorta di risparmioso raziocinio ecologista, ma perché tutto il sistema tenderà a mettersi in armonia con la natura. Perciò ogni incremento dei rendimenti nel bilancio energetico sarà un risultato naturale nel ricambio dell'uomo con la natura, non una voce di bilancio aziendale.

Nel libro di Bebel La donna e il socialismo c'è la descrizione entusiastica e un po' ingenua di una vigna in serra, con tutti i suoi meccanismi per ottenere il microclima ottimale e produrre vino anche nel clima sfavorevole della Slesia. Si tratta di 500 metri quadrati di terreno coperti da una struttura di vetro, un esperimento insignificante rispetto ai sistemi di serre computerizzate di oggi, ma fortunatamente, come "vigna del futuro", soltanto una piccola utopia. Non c'è bisogno di vigne artificiali; oggi la scienza borghese produce buon vino in una fascia climatica assai ampia e, dove non basta, provvede al trasporto di vini eccellenti. Ma proprio la produzione del vino offre lo spunto per mettere in evidenza le contraddizioni del capitalismo e la facilità con cui la società futura risolverà i problemi che esso ha generato per mezzo delle sue stesse tecniche. Oggi la vite, dopo la diffusione della peronospora e di altre patologie, necessita di trattamenti massicci e di cure assidue, in un processo produttivo che richiede un esborso notevole di capitale. Ma il circolo vizioso, che in campagna impone generalmente il crescendo infernale dei trattamenti, può essere bloccato con la tecnologia. Siccome il ciclo di alcune patologie è legato soprattutto a umidità, insolazione e temperatura, è sufficiente una rete di sensori che da una determinata zona di produzione inviano i dati ad un centro che li elabora per stabilire un ciclo minimale di trattamento. Sistemi del genere sono già utilizzati in ambienti consortili e possono di gran lunga essere migliorati. Così non si dovrà ricorrere all'irrorazione di veleni a tempi fissi o, peggio, ad arbitrio del contadino. D'altra parte anche un sistema migliorato potrà essere una soluzione transitoria, adottata mentre si studierà il modo di giungere a una viticoltura ante peronospora; nel frattempo si sarà non tanto risparmiato, quanto evitato un eccesso di veleno nell'ambiente e nello stomaco.

In altri tipi di coltura l'abbinamento fra la chimica e la biologia, con l'immissione sul territorio di insetti nemici dei parassiti o di parassiti resi sterili, può rappresentare una soluzione di passaggio. La coltivazione in serra, che oggi è la peggiore possibile dal punto di vista organico, può essere riabilitata alla coltura di un maggior numero di prodotti dall'uso non capitalistico delle tecnologie. Tornando alle fragole, per esempio, può darsi che l'umanità decida di permettersi il loro consumo in inverno, utilizzando una minima parte dell'immensa quantità di energia risparmiata altrove. C'è già oggi la possibilità tecnica per coltivarle in grandi ambienti dove sono quasi perfettamente riprodotte le condizioni naturali, senza bisogno di ricorrere alla perversione del ciclo chimico-biologico dell'attuale coltivazione in serra. La serra ha origini antiche ed è oggi utilizzata soprattutto per fiori e primizie ad alto valore aggiunto; ma alcuni grandi parchi botanici realizzati sotto immense cupole geodetiche ci dimostrano che sarebbe possibile utilizzarli per coltivare cibo invece che per attirare turisti a pagamento. Se sarà utile e necessario, dato che tutta l'agricoltura dovrà essere recuperata ad un ciclo organico e riprogettata in base ai vari ambienti.

Il ciclo agrario come tramite fra l'uomo e la natura

"Progettare" è un verbo reso ambiguo da questa società. Per certi versi indica il positivo rovesciamento della prassi, l'intervento cosciente dell'uomo sul disordine spontaneo dell'universo; per altri evoca i pasticci della società borghese, le sue manipolazioni aliene rispetto a qualsiasi organicità. Ma l'uomo può ben progettare un'organica sua fusione con l'ambiente, dato che il suo avvenire non sarà certo un ritorno al "paradiso perduto" dell'australopiteco, che rischiava ogni giorno di essere sbranato dai leopardi mentre per parte sua mangiava bacche e larve. Il ciclo agrario è il completo ciclo di trasformazione dell'energia che giunge dal Sole e che, agendo sulla materia, produce una serie di effetti non solo sul cibo dell'uomo – l'unico elemento preso in considerazione nella limitata ottica antropocentrica – ma su tutta la biosfera in cui l'uomo è immerso. Il petrolio, che oggi sconsideratamente bruciamo "a perdere", in fondo non è che il risultato dell'azione del Sole in ere passate.

L'agricoltura nuova sarà il tramite fra l'uomo e la natura, anzi, sarà la nuova fusione dell'uomo con la natura di cui fa parte. Ma per giungere a tanto è necessario lo stadio che stiamo ancora attraversando, che ha permesso, tramite il Capitale, di legare terra, industria e scienza. Bebel, nel testo citato, ricorda, con Marx, come la loro epoca abbia segnato il passaggio dall'agricoltura praticata empiricamente alla scienza della coltivazione e dell'alimentazione. Egli riprende il lavoro di Justus von Liebig che, come tanti scienziati a lui contemporanei, fu uno degli strumenti umani che la rivoluzione produttiva stava… producendo. Liebig per primo lavorò al presupposto che scienza dell'agricoltura e dell'alimentazione sono inscindibili: si alimentano le piante, gli animali che se ne cibano e l'uomo che si ciba di entrambi. Egli partì da quella che considerava la legge fondamentale dell'accrescimento dei vegetali: 1) ogni pianta deve la sua vita alla chimica del suolo e all'azione della luce; 2) essa regola la sua crescita sull'elemento che è presente in minore quantità fra quelli che le sono necessari; 3) al suolo bisogna restituire gli elementi chimici che gli sono sottratti. Questa legge, sotto il capitalismo, è stata utilizzata come sappiamo, specie dall'industria petrolchimica, ma essa, nonostante sia una semplificazione al limite dell'arbitrio rispetto alla complessità del processo che procede dal Sole, come schema generale può stare alla base anche di un'agricoltura organica. Oggi abbiamo ben altre conoscenze, ma le abbiamo anche rispetto a Newton, Darwin, Marx, Einstein e tutto lo stuolo di scienziati, veri giganti della rivoluzione, sulle spalle dei quali la scienza nanerottola di oggi si arrampica.

Bebel riconosce che il capitalismo getta le basi per una società nuova, la quale non dovrà fare altro che appropriarsi dei risultati raggiunti per rovesciarli a proprio favore: "La nuova società trova per sé una risorsa nel campo scientifico agrario, un terreno teoricamente e praticamente assai meglio preparato di altri alla sua attività, terreno sul quale essa non ha che da cominciare ad organizzare per ottenere risultati migliori di quelli ottenuti fino ad oggi". Non importa se Liebig pensava che la vita potesse essere giunta sulla Terra da altre galassie tramite combinazioni "eterne" del carbonio (per questo è criticato da Engels, forse un po' precipitosamente, visto l'effettivo riscontro di composti organici del carbonio sulle comete); il fatto è che egli aderiva alla concezione materialistica della vita come proprietà della materia, "un principio informatore operante nell'ambito delle forze fisiche e con esse". Oggi sappiamo che è così, che la materia, oltre ad una soglia di complessità di particelle ed energia, produce auto-organizzazione proprio a partire da un "principio informativo", ed è poi in grado di mantenere e replicare questa informazione.

Tutta la natura "funziona" così. Anche il fatto sociale, che in fondo è un livello superiore di organizzazione della materia, segue lo stesso principio informativo: l'uomo attinge informazione dall'ambiente e dal passato producendo nuova conoscenza. Oggi egli adotta la legge di Liebig molto rozzamente, intervenendo sul chimismo del suolo e dell'ambiente in modo catastrofico, ma prepara informazione indispensabile per un utilizzo ulteriore a livello più alto e organico.

Liebig, che forse i più conoscono come inventore dell'estratto di carne e delle ambitissime figurine cromolitografate che lo accompagnavano, fu studiato da Marx ed Engels ponendo attenzione a ben altri risultati. Era ancora uno di quegli scienziati che rivolgevano la loro attività verso differenti campi, abbracciandoli con una visione universale. Nei suoi lavori abbatté la barriera eretta dall'uomo fra la chimica della materia e quella della vita, dedicandosi quindi sistematicamente alla chimica agraria, alla fisiologia, alla patologia. Descrisse il processo che oggi chiamiamo di fotosintesi, intuendo che l'equilibrio organico necessario al suolo e alla pianta fa parte di un sistema immensamente più complesso del suo schema, e che comprende gli animali, l'uomo, i batteri, tutto l'ambiente. Era anche un passionale, quindi un insegnante formidabile che attirava allievi da tutto il mondo, capostipite di una scuola internazionale.

La rivoluzione agraria, come quella industriale, si imponeva con premesse scientifiche universali già utili a un'umanità potenzialmente emancipata dal bisogno, ma il capitalismo distillò da subito soltanto la parte utile alla valorizzazione del Capitale e portò alle estreme conseguenze i frutti delle ricerche scientifiche fino all'uso indiscriminato della chimica, premessa della mineralizzazione del suolo. Nell'esplosione della rivoluzione agraria fu coinvolto direttamente lo stesso Liebig, quando l'azienda uruguayana che produceva farine animali su sua licenza le introdusse, assai presto (1865), non solo nei concimi ma nei mangimi da ingrasso. Consenziente o no, era una conseguenza dei suoi studi sull'efficienza dell'alimentazione animale e dell'uso capitalistico che ne derivava. Dieci anni prima aveva messo in guardia contro la perdita di vista del chimismo organico della natura: "Sfortunatamente la vera bellezza dell'agricoltura e l'intelligenza che anima i suoi principi, sono scarsamente riconosciuti. L'arte dell'agricoltura andrà perduta quando maestri ignoranti, di corte vedute e privi di scienza, persuaderanno i contadini a riporre tutte le loro speranze in rimedi universali che in natura non esistono. Seguendo i loro consigli, abbagliati da un effimero successo, i contadini dimenticheranno il suolo e perderanno di vista il suo valore intrinseco e la loro stessa influenza su di esso" (1855). In là con gli anni, quando aveva ormai approfondito il rapporto fra la crescita delle piante e la chimica del suolo, ammise che le sue leggi erano una semplificazione meccanica rispetto all'enorme lavoro che Dio aveva affidato alla natura e ironizzò di fronte alla pretesa dell'uomo di sostituirlo. Sostenne che, accanto alla fotosintesi e agli ioni minerali disciolti dall'acqua assorbita dalle radici, vi erano altri processi materiali che non erano da scimmiottare ma da assecondare, dato che richiedevano tempo per la generazione e rigenerazione dell'humus.

Oggi anche borghesi con molti meno scrupoli ammettono che il ciclo agrario capitalistico è perverso e dovrà essere interrotto. Questo succederà comunque: si tratta solo di vedere se succederà a prezzo di catastrofi ambientali e sociali all'interno della società capitalistica o se avverrà in modo cosciente con una progettata trasformazione nell'ambito di una società senza classi e senza denaro. La contraddizione principale è evidenziata proprio dalla legge di Liebig: occorre dare alla terra ciò che le si toglie; oppure, il che è lo stesso, si può prendere dalla terra solo ciò che le si dà. L'enorme produzione richiede energia, come abbiamo visto, ma la ricostituzione del suolo richiede il lavorìo di batteri, muffe, lieviti, enzimi, tutti fattori che non producono humus a cottimo, in linea di montaggio. Occorre tempo, che in questa società, come tutti sanno, è denaro. Senza il fattore tempo che registri i vari passaggi non c'è bilancio energetico, c'è solo bilancio ragionieristico in puro valore venale. La natura è messa da parte a vantaggio dell'azienda, gli alimenti sono fabbricati, la terra è consumata, l'ambiente è corrotto, e al Capitale che ingrassa dei posteri non importa nulla, si arrangino.

Figura 1 – Fonte: R. Barrass, Biologia, cibo e popolazione.

Alla società futura interesserà non il bilancio aziendale ma il bilancio energetico nella produzione dei diversi prodotti agricoli. Questo si ottiene – come abbiamo già visto - facendo il rapporto fra l'energia contenuta e quella dissipata per produrli. Ora è evidente che se l'uomo mangia un animale che mangia a sua volta vegetali in un ciclo che di per sé dissipa energia in tutti i modi, la sua non è un'operazione brillante (vedi figura 1). Negli Stati Uniti il 70% di tutta la produzione di cereali è destinato al bestiame, quindi il consumo diretto di vegetali sarebbe più razionale. Indipendentemente dai problemi posti da ecologisti e animalisti su tipi "alternativi" di alimentazione, è certamente da registrare il fatto che l'economia agraria capitalistica tende a rivolgersi verso i settori a massima dissipazione d'energia. Soprattutto perché in questo come anche negli altri campi, quello che conta è il risultato finale del ciclo economico, quello che si chiude con il conteggio del valore aggiunto; ed è palese anche ai rampolli dell'economia politica che per la crescita del PIL è indifferente il modo per giungervi: cresce anche – e persino di più – se il sistema si dirige verso il massimo disordine e spreco.

La società futura risolverà il problema del bilancio energetico non certo con ritorni a forme di produzione del passato. Anche il fattore tempo, che dal punto di vista capitalistico è valore, troverà la sua soluzione. I cicli di rotazione delle colture e di riposo della terra, indispensabili per millenni, possono essere in parte sostituiti accelerando la formazione biologica dell'humus. L'uomo sa oggi maneggiare abbastanza bene il fattore tempo per sapere che si tratta di un concetto relativo ad altri parametri. Non ci riferiamo tanto alla fisica relativistica quanto ai più modesti fattori pratici: quando si dice che ci vuole molto o poco tempo ad arare un campo, dobbiamo specificare a che cosa si riferisce quel "molto" o quel "poco", perché c'è differenza fra il tempo del bue e quello del trattore. Quindi non ci stupiamo, per esempio, nel leggere che Marx attribuiva agli spazi disabitati degli Stati Uniti una densità relativa di popolazione maggiore di quella dell'affollata India. Questo perché dal punto di vista economico il sistema di comunicazioni abbrevia il tempo sociale. Tutti sanno che oggi abitiamo il "villaggio globale", il quale, proprio perché il sistema di comunicazioni ha raggiunto complessità e velocità un tempo impensate, ha una densità demografica molto più alta di quanto riportino le statistiche. Allo stesso modo il tempo biologico della rigenerazione del suolo non sarebbe un problema una volta che, separato storicamente dal profitto, l'umanità avesse imparato ad accelerarlo. Ma siamo sicuri che l'umanità debba ancora fare questo passo? In realtà non occorre giungere nell'ambito della società futura per vedere un'accelerazione del tempo nell'ambito della rigenerazione del suolo; il problema è già tecnicamente risolto in questa, solo che la soluzione non è generalizzata come potrebbe, ed è applicata rozzamente.

Oggi alla terra si restituisce un pallido surrogato minerale rispetto al materiale vivo che le si toglie. Ma non è obbligatorio che sia così per sempre. Tecniche varie di compostaggio in grande scala sono già sperimentate con ottimi risultati per produrre concimi naturali. L'utilizzo di colonie di lombrichi per la produzione di humus fertile è abbastanza comune presso molte fattorie. Una sola fabbrica giapponese ha venduto circa 5.000 impianti che singole fattorie possono adottare per il compostaggio rapido tramite autofermentazione. Processi biologici industriali più complessi e centralizzati, a base di batteri, sono in grado di metabolizzare rifiuti misti per produrre fertilizzanti e metano. Tutti questi processi sono basati sulla separazione del ciclo di coltivazione da quello di produzione degli elementi di reintegro della fertilità, quindi accelerano di molto il processo naturale riproducendolo in condizioni predisposte dall'uomo. Parallelamente al lavoro di coltivazione, gli impianti industriali di compostaggio possono digerire in poco tempo foglie, potature, residui agricoli, segatura, rifiuti organici, deiezioni animali, sangue dei macelli, ecc.

Ai processi di compostaggio naturale "assistiti" se ne possono affiancare altri del tutto artificiali. Negli anni '50, in Francia, si era notato che in alcuni bidoni di kerosene depositati alla pioggia si erano moltiplicati spontaneamente dei batteri dando luogo a un composto proteico. Il primo stabilimento industriale per "coltivare" con microrganismi gli scarti della lavorazione del petrolio grezzo fu impiantato in Scozia nel 1971 dalla British Petroleum; da esso si traevano all'inizio 4.000 tonnellate all'anno di biomassa, un composto organico ad alto concentrato di proteine, che veniva utilizzato per integrare i mangimi. Da allora molte altre fabbriche di proteine sono entrate in funzione nel mondo. Vicino a Marsiglia c'è un impianto da 20.000 tonnellate; a Sarroch, in Sardegna, uno da 100.000. Vasti esperimenti sono stati fatti anche con la produzione industriale di biomassa attraverso la coltura di cellule vegetali in ambiente artificiale, specie con le alghe. I due esempi, la serie dei processi naturali accelerati e la fabbrica di proteine, possono, se l'umanità stabilirà che è utile, essere unificati. Solo considerazioni di profitto impongono che i composti proteici artificiali passino direttamente nei mangimi; qualcuno ne ipotizza addirittura l'impiego per l'alimentazione umana. Se si prescinde dal profitto, quantità enormi di biomassa possono essere fabbricate a partire da molti residui di lavorazione ed essere poi fatte ulteriormente "digerire" da compost batterici o da organismi superiori come i lombrichi. Immessa nel suolo, verrebbe ancora metabolizzata in quel formidabile digestore chimico naturale che è l'humus.

La società futura eliminerà alla radice un altro elemento negativo del bilancio energetico fallimentare dell'agricoltura capitalistica, e forse il più importante: lo spreco indiscriminato della quantità enorme di sostanze organiche oggi buttate nelle fognature. L'assurda sostituzione della chimica naturale e del ciclo biologico generale con l'intervento chimico industriale locale è inesorabilmente proiettato verso il fallimento (figura 2). Senza rigenerazione del suolo la terra è come drogata dalla chimica, richiede dosi sempre più massicce con effetti sempre più scarsi.

Su questo tema Bebel insiste molto nel suo libro e oggi le maggiori conoscenze acquisite integrano perfettamente le sue osservazioni. Dopo aver notato che la terra si deve alimentare di sostanze organiche così come se ne devono alimentare gli animali e gli uomini, egli nota che nelle città confluisce la maggior parte del cibo prodotto, ma esse non permettono il ritorno del materiale organico alla terra. Ben diversa era, ancora al suo tempo, la situazione nelle millenarie città cinesi. Citiamo Bebel che a sua volta cita Liebig: "In Cina, ogni coolie che la mattina ha portato sul mercato i suoi prodotti, riporta a casa la sera, due bigonce cariche di concime… Il cinese raccoglie con cura ogni sostanza vegetale e animale per trasformarla in concime… Quello che il contadino [tedesco] spenderebbe per questa raccolta è poco, mentre l'investimento sarebbe sicuro, certo più che in una cassa di risparmio, e nessun capitale gli nasconde una rendita più alta, perché la rendita del suo campo raddoppierebbe in dieci anni; produrrebbe più grano, più carni e più formaggio, senza impiegarci più tempo e più lavoro; e non resterebbe più in angustie a motivo di que’ nuovi ignoti rimedi, che non ci sono, atti a conservare in altro modo fruttifero il suo campo… Tutte le ossa, la fuliggine, la cenere, lavata o no, il sangue animale, i detriti e i rifiuti di ogni specie dovrebbero essere raccolti in stabilimenti speciali e preparati per spedirli a destinazione… I governi e le autorità di polizia nelle città dovrebbero aver cura affinché, con opportuni regolamenti sulle latrine e cloache, venga evitata la perdita di queste materie" (J. von Liebig, Lettere sulla chimica). "Nuovi e ignoti rimedi che non ci sono": detto dall'inventore dell'ammendamento chimico del suolo e dall'efficace divulgatore del socialismo suonerebbe strano, se non sapessimo che lo scienziato e il marxista erano consci del fatto che la terra si deve migliorare dove sia necessario, non depredare a morte sempre e ovunque.

Decremento dell'efficienza nell'uso dei fertilizzanti chimici (milioni di tonnellate)

Anni

Produzione
mondiale di
cereali

Aumento
cereali

Impiego
mondiale di
fertilizzanti

Aumento
fertilizzanti

Aumento di produttività
(b)/(d)

 

(a)

(b)

(c)

(d)

(e)

1934-38

651

 

10

   

1948-52

710

59

14

4

14,7

1959-61

840

130

27

13

10,0

1964-66

955

115

41

14

8,2

1969-71

1120

165

64

23

7,1

1974-76

1236

116

84

20

5,8

Figura 2 – Fonte: FAO, USDA (United States Department of Agricolture).

Bebel riporta il dato di 48,8 Kg di deiezione solida e 438 liquida prodotte annualmente da ogni tedesco adulto per un totale di 486,8 Kg. L'evacuazione media attuale di un occidentale è un po' più alta, 54 e 470, per un totale di 524 Kg; evidentemente l'alta produttività dei visceri moderni è il risultato sia di una maggior quantità di cibo ingurgitata, comprese le bevande, sia di una scarsa assimilazione dovuta al minor dispendio di energia lavorativa che vuol dire anche meno traspirazione. Tenendo conto che nella media ci sono anche i neonati, e che ci serve solo un dato indicativo, teniamo buono quello di Bebel. Anche gli animali da allevamento producono scarti metabolici, e abbiamo un dato interessante per gli Stati Uniti, dove l'industria dell'allevamento produce una massa di liquame 130 volte superiore a quella prodotta dagli umani.

Facendo i conti, abbiamo che 275 milioni di americani producono 133,8 milioni di tonnellate di liquame organico che, moltiplicato per 130 in modo da comprendere gli animali da allevamento, fa 17,5 miliardi di tonnellate. Ora, leggiamo sui manuali che in un'agroindustria biologica la raccolta integrale dei liquami umani e di stalla equivale allo 0,6% del peso in azoto, allo 0,4% di fosforo e allo 0,3% di potassio. Per ogni tonnellata di concime organico abbiamo dunque l'equivalente di 6 Kg di azoto, 4 di fosforo e 3 di potassio. In breve: in un paese come gli Stati Uniti i liquami organici prodotti in un anno, in gran parte buttati, contengono 105 milioni di tonnellate di azoto, 70 milioni di fosforo, 52,5 milioni di potassio, per un totale di 227,5 milioni di tonnellate. Nonostante siano rimasti fuori da questo calcolo i rifiuti organici di altro tipo e i potenziali recuperi da altre qualità di rifiuti e materiali, come quelli citati prima, il confronto con il ciclo chimico industriale è impressionante: gli Stati Uniti hanno prodotto nel 1996 32 milioni di tonnellate di fertilizzanti, di cui 19 milioni azotati. La produzione mondiale di fertilizzanti è 150 milioni di tonnellate, di cui 90 azotati. Le deiezioni buttate via dagli americani basterebbero da sole a fertilizzare l'intero complesso mondiale di terre coltivate per un anno e mezzo.

Estinzione del contadino

Naturalmente i nostri sono calcoli del tutto indicativi. La società futura non si sognerà neppure lontanamente di nutrirsi al modo di oggi, soprattutto non alleverà su un territorio come quello degli Stati Uniti, per quanto vasto, i 430 milioni di volatili e i 220 milioni di bovini, ovini, caprini e cavalli che oggi sono allevati dagli americani (1996). Non avrà quindi bisogno di quantità immense di concime per coltivare cereali da cibo per animali da cibo. Soprattutto darà un altro significato al concetto di tempo ed eviterà come la peste l'attuale frenesia produttiva, dovuta al ciclo di reintegro del Capitale nella sua accumulazione. Tutti i capitali esistenti sono lavoro passato, morto. Non per nulla un ciclo di consumo e obsolescenza del capitale fisso si chiama ammortamento, da ammortare, uccidere. Nella società futura, come ricordato in un nostro testo, la rigenerazione dei fattori della produzione dovrà piuttosto chiamarsi ravvivamento, in armonia con il nuovo modo di essere della produzione e riproduzione sociale.

In generale l'uso indiscriminato di prodotti dell'industria, chimici e meccanici, saturando ampi spazi con manufatti di ogni tipo, comporta non solo un bilancio energetico perverso, non solo lo sconvolgimento ambientale e la conseguente scomparsa di un complesso organico vivente, ma anche la regressione di equilibri ecologici tipici dei sistemi consolidati nei millenni, basati su di una complessità sufficiente all'auto-organizzazione di risposte ad eventi squilibranti. Questi sistemi, come la foresta vergine pluviale, ma anche come la campagna europea "paesaggizzata" dal lavoro umano per millenni fino al capitalismo, sono costituiti da reti intricatissime di relazioni, dove una determinazione ha effetti molteplici, e dove determinazioni molteplici concorrono a un medesimo effetto; tutte relazioni tendenti al mantenimento dell'armonia del sistema stesso (omeostasi). Invece, la regressione a condizioni di instabilità, come se un sistema fosse ancora in formazione, porta a situazioni di accumulo lineare di cause contraddittorie con retroazione positiva, come dice il termine stesso di "accumulazione". Siamo qui di fronte a dinamiche esponenziali, cioè a sistemi che tendono verso un punto d'arrivo a velocità crescente. Il fatto è che il punto di arrivo è sempre una catastrofe, perché nella loro immaturità non hanno ancora capacità di auto-organizzazione, non conoscono progetto, spaccano e rattoppano brutalmente, senza coscienza del divenire. Insomma, non conoscono tempo relativo, vivono un tempo lineare che si contrae in uno spasmo continuo.

Si sa che, adottando certi parametri di riferimento, il tempo stringe, ma adottandone altri si può anche allargare. Il tempo di coltivazione nel capitalismo non è certo quello che sarà tipico della società futura. L'eliminazione della proprietà condurrà alla razionalizzazione dello spazio disponibile e l'umanità potrà stabilire, senza esservi costretta dalla fame o dal lucro, quali spazi abitare e quali coltivare intensivamente o estensivamente, con rotazioni classiche o con reintegrazione totale dell'humus, senza subire lo stress del tempo-denaro. Con molta calma e ponderazione deciderà persino se sarà utile lasciarne una parte, e quale, così com'è: con deserti, foreste, savane, in equilibrio ecologico naturale con tutta la vita animale che li abita. E' l'individuo borghese che non ha tempo; l'uomo sociale non è che la cellula di un organismo più complesso, la specie, che c'è da milioni di anni e ci sarà per altri milioni. La specie ha tutto il tempo che vuole. Ha tempo persino di progettare un equilibrio naturale, come si era stabilizzato in equilibrio il paesaggio agrario lungo i millenni, fino al capitalismo.

Modelli ecologici al computer dimostrano , ad esempio, che sarebbe possibile l'utilizzo razionale della carne di animali semi-selvatici. Nelle steppe dell'Asia era drasticamente diminuito, a causa della caccia indiscriminata, il numero delle saighe, un bovide simile all'antilope; oggi un minimo di controllo ha riportato i branchi a 3 milioni di esemplari, di cui ogni anno 300.000 sono scelti e cacciati abbastanza razionalmente. Nelle praterie degli Stati Uniti, si stima ci fossero da 30 a 100 milioni di bisonti, una massa proteica enorme che permetteva una grande abbondanza di cibo e pelli alle popolazioni indigene; oggi, nonostante la quasi estinzione provocata dall'uomo e la sottrazione di spazi adatti, i bisonti si stanno riproducendo velocemente e sono circa 200.000, di cui la metà in grandi allevamenti allo stato brado. Sia il bisonte americano che il bufalo europeo hanno un apparato digerente rustico e ad alto rendimento, in grado di digerire foraggi poverissimi e di crescere allo stato semiselvaggio più degli altri bovini, anche se più lentamente. La loro carne assomiglia a quella che si trovava nelle macellerie di campagna quando venivano macellati bovi da lavoro.

Tra l'altro Liebig utilizzò, per il suo estratto e per le farine animali da concime, proprio il bestiame che in Argentina era fuggito dalle mandrie e si era riprodotto allo stato selvaggio, bestiame che veniva catturato e venduto a poco prezzo. La stessa cosa succedeva ancora negli Stati Uniti fino agli anni '30 con i mustang, cavalli inselvatichiti. Persino in Italia, paese senza grandi spazi, vi sono territori abbastanza ampi, ormai abbandonati, dove l'allevamento allo stato brado sarebbe possibile se i confini della proprietà non ponessero dei limiti. Nella piccola Corsica l'allevamento brado è praticato, anche se marginalmente. L'uomo non farà di sicuro ritorno alla caccia come i suoi antenati preistorici, ma gli esempi possono dimostrare che, se terrà sotto controllo il bilancio energetico e se deciderà di mantenere una dieta onnivora, potrà lasciare spazio agli animali da pascolo per un razionale utilizzo delle proteine. Questo gli permetterà finalmente di eliminare, tra l'altro, quell'istituzione infame che è l'allevamento in batteria.

L'abbattimento dei confini fra terreni privati permetterà di ridisegnare la campagna alternando razionalmente colture arboricole alla terra arabile e al pascolo, in modo da evitare l'erosione e mantenere l'umidità del suolo. Il ridimensionamento delle città con l'eliminazione delle migliaia di vani inutili per attività burocratiche e di rappresentanza renderà labile il confine fra città e campagna, con ampi spazi di compenetrazione reciproca senza che vi sia il pericolo di avvelenamento da parte dalla polluzione industriale e urbana. L'antica separazione fra cittadini e contadini sparirà del tutto, dato che la scomparsa della divisione sociale del lavoro lascerà il posto alla libera espressione delle diversità individuali, indirizzate, come cellule diversificate di un organismo vivente, al miglior risultato dell'insieme.

Supponiamo, dice Marx (Estratti da Mills), d'aver prodotto in quanto uomini per altri uomini e non in contrasto fra di noi in quanto schiavi salariati, contadini, capitalisti in un mercato a tutti alieno. L'uno produce per l'altro quello di cui ha bisogno, utilizzando la propria capacità individuale al meglio, in un rapporto reciproco che realizza l'umanità del produrre e non la sua alienazione. La diversità dell'uno è complementare alla diversità dell'altro, la democrazia imbecille è superata nei fatti, l'uomo che produce mele entra in relazione con l'uomo che produce computer in base alla effettiva qualità dei prodotti e non ad un indistinto valore. Non si può neppure parlare di scambio o baratto, solo di produzione di oggetti o attività utili alla vita, entrando in relazione non con mercato, denaro, prezzi, proprietà, ma con uomini ai cui bisogni ogni altro uomo partecipa. Allora non è vero che esiste una legge bilaterale universale per cui io posso scambiare soltanto oggetti dallo stesso valore, perché anche la matematica insegna che non si possono fare operazioni fra mele e computer. Allora non è vero che tutto è basato sul presunto eterno do ut des: l'attività reciproca può non essere misurata e gli uomini possono anche passare da un'attività all'altra se ciò è utile al reciproco soddisfacimento. E la soddisfazione non è nel ricevere qualcosa in cambio, ma l'appartenenza alla realtà sociale comune, per cui il solo fatto di produrre individualmente per il tutto è già appagamento, ed è unilaterale, non pretende nulla come obbligo e nemmeno come diritto.

Solo in questo modo si può intendere la natura della società nuova che avanza, e che troppi "comunisti rozzi" ancora immaginano scaturire da un ufficio di commissari del popolo intenti ad emanare decreti: "Da oggi è abolito il denaro, da domani la divisione fra città e campagna, da dopodomani i contadini". Firmato: la dittatura del proletariato.

Fonti dei dati non espressamente indicate nel testo: Istat, Ministro del Tesoro, FAO, USDA, OCSE, Eurostat, Ist. Geografico De Agostini, Enciclopedia Europea Garzanti, The Economist, Barrass, Rifkin.

LETTURE CONSIGLIATE

  • I punti del "Programma rivoluzionario immediato" furono trattati in una riunione del Partito Comunista Internazionale a Forlì nel 1953. I nostri precedenti articoli, che li sviluppano e approfondiscono, sono stati pubblicati sui nn. 0, 1, 2, 3 e 4 della rivista.
  • Partito Comunista Internazionale, Mai la merce sfamerà l'uomo, testi sulla questione agraria, Quaderni Internazionalisti.
  • Partito Comunista Internazionale, Il programma rivoluzionario della società comunista elimina ogni forma di proprietà del suolo, degli impianti di produzione e dei prodotti del lavoro, ora in Proprietà e Capitale, Quaderni Internazionalisti.
  • Partito Comunista Internazionale, La questione agraria, raccolta di articoli, Quaderni Internazionalisti.
  • Partito Comunista Internazionale, Pressione razziale del contadiname, pressione classista dei popoli colorati, ora in Fattori di razza e nazione, Quaderni Internazionalisti.
  • Karl Marx, Estratti dal libro di James Mill "Elémens d'économie politique", Editori Riuniti, Opere Complete, vol. III.
  • Karl Marx, VI Capito Inedito, La nuova Italia.
  • August Bebel, La donna e il socialismo, Edizioni Savelli.
  • Lenin, Due tattiche, Opere complete, Editori Riuniti, vol. 9.
  • Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all'economismo imperialistico, Opere Complete, Editori Riuniti, vol. 23.
  • Karl Kautsky, La questione agraria, Feltrinelli.
  • Robert Barrass, Biologia: cibo e popolazione, Mondadori EST.
  • Jeremy Rifkin, La fine del lavoro, Baldini & Castoldi.
Fonte: www.quinterna.org

Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia -  - Stampa pagina
Aggiornamento: 10/02/2019