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La stagnazione economica prepara nuovi tagli

L’economia italiana ristagna già da anni. Il 1998 si è chiuso con un ridicolo aumento del Pil dell’1.4%, mentre la disoccupazione non accenna a scendere. L’Euro, come abbiamo spiegato più volte, non ha risolto nessun problema, la recessione e la deflazione in Asia e non solo stanno danneggiando pesantemente le esportazioni italiane. Che cosa comporterà tutto questo per i lavoratori?

I dati

Partiamo dall’analisi dei dati più recenti disponibili sull’economia italiana e mondiale. Il Pil dell’Unione Europea è salito del 2.7% nel ‘97 e del 2.8% nel ‘98. La disoccupazione dell’area Euro rimane inchiodata all’11%. L’inflazione è ormai scomparsa, dato il crollo dei prezzi delle materie prime e la riduzione dei salari.

Alcuni paesi cosiddetti emergenti hanno subito dei crolli del Pil (Corea -7%, Russia -5.7%, Indonesia -17% ecc.). Nuovi crolli si sono manifestati all’inizio del 1999 (Brasile, Sudafrica, Cile). La crescita mondiale dipende sempre più dagli Stati Uniti, in cui la bolla speculativa finanziaria mantiene alti i consumi e gli investimenti (ma fino a quando?). Del Giappone, ormai in coma economico, non parliamo neppure, se non per segnalare che l’impiego a vita è finito (la Sony ha annunciato il 10 marzo 17.000 licenziamenti).

Il mondo è sempre più piccolo per le capacità produttive accumulate, da qui le continue battaglie su questo o quel fronte commerciale tra Usa ed Europa. Queste battaglie colpiscono soprattutto l’Italia. Per questo i “superdazi” imposti dall’America da qualche giorno hanno scatenato un’esplosione di malcontento nella borghesia italiana. Questa la causa dell’attrito con gli Usa, non certo la strage del Cermis di cui né ai padroni né a D’Alema interessa qualcosa.

Chi sta pagando la crisi? Non è difficile scoprirlo: il costo di lavoro per unità di prodotto nell’area europea è sceso in due anni del 4%. I profitti battono un record dopo l’altro. Ma anche la piccola borghesia viene schiacciata dalla recessione mondiale. Per esempio in Italia nel ‘98 i prestiti delle banche alle imprese individuali sono crollati del 46.5% quando i prestiti totali aumentavano del 4.4%.

La crescita del Pil italiano è la metà della già bassa crescita europea (1.5% e 1.4% negli ultimi due anni). Dopo il ‘92 l’economia italiana ha vivacchiato sulla rendita di posizione fornita dal deprezzamento della lira. Ma l’Euro e il crollo delle economie asiatiche hanno distrutto le residue armi della competitività:

“la crescita delle importazioni italiane è stata trainata dai beni finali, sia di investimento, sia di consumo. Su questi ultimi ha influito soprattutto la crescente competitività sul nostro mercato dei paesi asiatici in crisi.” (Bollettino Economico della Banca d’Italia 2/1999, p. 22)

Non solo, dunque, le importazioni sono aumentate (+9.9% nel ‘97 e +6.1% nel ‘98), ma le esportazioni rallentano per

“il grave rallentamento del commercio mondiale e la perdita di competitività rispetto ai paesi asiatici: essa è stata probabilmente più netta che per gli altri partner europei data la nostra specializzazione internazionale nei settori più esposti alla concorrenza dei produttori asiatici (in primo luogo, tessili, abbigliamento e calzature). Vi si è aggiunta, nella seconda parte dell’anno, la decelerazione della domanda nei principali paesi europei” (cit.)

Così l’export ha segnato un +5% nel ‘97 e un misero 1.3% nel ‘98. Il saldo tra importazioni ed esportazioni rispetto alla crescita economica è di -1.1%, ovvero ormai, il commercio mondiale danneggia l’Italia. La bilancia commerciale volge al peggio. L’avanzo delle partite correnti è sceso del 30% e i capitalisti italiani hanno lasciato all’estero 30.900 miliardi nel ‘98. Gli investimenti diretti all’estero hanno toccato 29.000 miliardi, mentre gli investimenti esteri in Italia sono solo 5.300 miliardi. L’Italia aveva un avanzo commerciale col Giappone di 956 miliardi. Nel ‘98 si è tramutato in 1.013 miliardi di disavanzo. L’avanzo verso le “tigri” è sceso di due terzi, mentre il disavanzo verso la Cina è salito del 50%.

La recessione sta prendendo piede. Lo si vede dalla tendenza degli ordini industriali, che è in calo dal terzo trimestre del 1998, dal grado di utilizzo delle capacità produttiva (che rimane al livello del 1989).

Sul fronte dell’occupazione la faccenda è chiara. La flessibilizzazione del mercato del lavoro non ha creato nuovi posti, ma solo permesso ai padroni di sostituire lavoro vero con lavoro “atipico”. Nel ‘98 si sono creati 110.000 posti di lavoro. Ma di che tipo? Lo spiega il già citato Bollettino:

“La creazione netta di occupazione nel 1998 è derivata interamente dalla componente femminile...Alla crescita dell’occupazione complessiva ha contribuito per intero l’occupazione a tempo parziale, aumentata del 7.7%” (cit., p. 24)

Questi fatti dovrebbero costituire la pietra tombale per i cialtroni che spingono sulla flessibilità come mezzo per creare posti di lavoro. La situazione è chiara: i padroni non investono perchè non gli conviene, data la enorme sovracapacità già esistente. Puntano sul taglio dei salari per mantenere i margini di profitto.

La finanza pubblica e le prospettive per una politica keynesiana

L’Italia è “entrata in Europa” con un debito statale di proporzioni colossali. Dopo quasi un decennio di tagli selvaggi, con un importo complessivo delle finanziarie di quasi 600.000 miliardi, il debito pubblico è passato dal 124 al 118%. E questo “successo” è stato ottenuto anche grazie alle privatizzazioni che sono una componente ovviamente una tantum e con un enorme inasprimento fiscale a carico della classe lavoratrice. Lo dimostra il fatto che aumenta sempre più il peso delle imposte indirette (+27% nel ‘98), mentre diminuiscono le tasse che si pagano in base alla propria ricchezza (imposte dirette -6%, contributi -10%). Il resto dell’Europa non se la passa molto meglio. Il massacro sociale che la socialdemocrazia regala ai propri elettori dovrebbe portare nel 2000 a un rapporto debito Pil del 70% in Europa. Questo macigno, ancor prima del patto di stabilità, è un ostacolo alle politiche di rilancio della spesa pubblica.

I tassi d’interesse, insieme a ogni prezzo, sono rapidamente diminuiti nel 1998. In Italia si sono dimezzati. In Giappone il tasso a breve ha raggiunto l’incredibile soglia dello 0.07%. Ma questo non ha rilanciato gli investimenti.

In un contesto sempre più nero, in cui la deflazione fa la sua comparsa dopo sessant’anni in tutto il mondo, in cui l’economia mondiale sta sprofondando in una depressione, i riformisti si aggrappano alla politica keynesiana, cercando di rianimare un cadavere. L’esperienza giapponese non ha insegnato nulla a questi signori?

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Economia
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Aggiornamento: 12/09/2014