Il MANZONI DEL CINQUE MAGGIO

Il MANZONI DEL CINQUE MAGGIO

I - II - III - IV

Parafrasi


Quando, il 16 luglio 1821, Manzoni apprese della morte di Napoleone, che cosa lo colpì particolarmente da indurlo a scrivere subito dopo, in tre giorni (fatto del tutto eccezionale nella sua opera omnia) un'ode a lui dedicata di diciotto sestine e sei settenari ciascuna, lui che su Napoleone sapeva praticamente tutto ciò che l'opinione pubblica a quel tempo poteva sapere, benché non gli avesse mai dedicato una sola riga della sua vasta produzione? Stando agli ultimi quattro versi dell'ode una notizia che, per come venne riportata sulla "Gazzetta di Milano", era del tutto leggendaria, e cioè che l'ateo Napoleone, che non frequentava la chiesa da almeno quarant'anni, era morto coi conforti della religione cristiana. Cosa che effettivamente avvenne, ma solo perché un abate, senza gli fosse stata richiesta, aveva potuto somministrargli l'estrema unzione sul letto di morte. In realtà Napoleone s'era soltanto raccomandato che venisse eseguita l'autopsia sul suo cadavere, essendo convinto che il medico inglese l'avesse avvelenato.

A tale proposito scrisse Manzoni all'amico Cesare Cantù: "Era un uomo che bisognava ammirare senza poterlo amare; il maggior tattico, il più infaticabile conquistatore, colla maggiore qualità dell'uomo politico, il saper aspettare e il saper operare. La sua morte mi scosse, come se al mondo venisse a mancare qualche elemento essenziale".

Manzoni si sentiva così sconvolto per la tragica notizia, ma anche così ansioso di far sapere al mondo cosa di lui pensava, ora ch'era morto, al fine d'indurre gli ambienti borghesi a non avvilirsi di fronte alla scomparsa di quella che in fondo era stata per loro una speranza, che, invece di rifinire l'ode, la mandò subito al censore austriaco, che naturalmente ne vietò la pubblicazione, ma non prima d'averne fatte alcune copie a mano da distribuire segretamente a Milano e anche fuori del Lombardo-Veneto. Evidentemente doveva aver capito, detto "censore illuminato", ch'essa, pur osannando un morto che da vivo aveva fatto tremare l'intera Europa, sulla cui testa pesava la damnatio memoriae del Congresso di Vienna, non era poi così pericolosa per l'establishment austriaco in Italia, che peraltro proprio a Milano cercava il favore degli intellettuali progressisti (come già fece, inutilmente, col Foscolo), allo scopo di abituarli a credere che i francesi al seguito del Corso non fossero di per sé migliori degli austro-tedeschi al seguito dell'imperatore Francesco I d'Asburgo-Lorena, tant'è che anche nel Lombardo-Veneto i governatori provavano a presentarsi come "riformatori" (si pensi p.es. alla realizzazione delle strade ferrate tra Lombardia e Veneto, alla commutazione delle pene capitali in pene detentive...), anche se le condizioni cambiarono repentinamente già dai moti del 1820-21.

Quel che bisogna cercare di capire è il motivo per cui un Manzoni che in gioventù (1801) aveva scritto (mai pubblicato) il poemetto Trionfo della libertà, fortemente pervaso di ideali illuministici e rivoluzionari, e che a Parigi aveva frequentato il gruppo degli "ideologi" (A. Destutt de Tracy, P.-J. Cabanis, C. Fauriel) di ispirazione ateo-razionalistica, anche se politicamente non filo-napoleonico, si sia improvvisamente trovato, come spinto da un irrefrenabile impulso, a dover scrivere 108 versi su un personaggio che in fondo non aveva mai amato.

La stranezza di quest'ode civile, apparsa per la prima volta a Torino nel 1823 (anche se l'anno prima era stata edita in tedesco da Goethe, mentre la prima edizione approvata dall'autore comparve solo nel 1855), appariva ai più come una lirica essenzialmente religiosa, una sorta di "inno sacro", mentre altri, al contrario, vi potevano intravedere la rappresentazione epico-popolare della "leggenda" napoleonica (come disse De Sanctis), nel senso che il grande diplomatico Manzoni era riuscito, ancora una volta, a conciliare gli aspetti laico-illuministici (che forse più gli premevano) con quelli rigorosamente cattolici, che gli permettevano di passare per un intellettuale "intoccabile", o comunque al di sopra delle parti, non politicamente impegnato.

Egli infatti nell'ultimo settenario fa capire, al censore austriaco o comunque al cattolico conservatore, che l'imperatore era stato un grande personaggio in quanto sul letto di morte, pur potendolo evitare, aveva accettato il ritorno alla fede, ma, nel contempo, in tutti gli altri versi ha cercato in qualche modo di spiegare, al cattolico liberale in grado di leggere tra le righe, che con la morte di Napoleone era venuto meno un baluardo borghese contro la dilagante restaurazione oscurantista sancita dal Congresso di Vienna e dalla Santa Alleanza. Cioè egli in sostanza, arrampicandosi sugli specchi, diceva espressamente una cosa per dirne un'altra implicitamente.

Il lettore cattolico dell'ode doveva o ripensare il giudizio negativo espresso sull'imperatore oppure credere ancora possibile una conciliazione di valori borghesi e valori religiosi. L'ode era un "inno sacro" per la censura austriaca, che in essa vedeva il plauso ai ravvedimenti in extremis del più grande dittatore della moderna storia europea, ma per il patriota italiano voleva essere un invito a non aspettarsi un liberatore nazionale di origine straniera.

Identico ragionamento si ritrova nell'Adelchi. Non dimentichiamo che il 1821 fu per il Manzoni un anno di grande fertilità creativa, stimolata anche dal precedente soggiorno parigino del 1819-20. Erano sì falliti i primi moti risorgimentali, ma il Manzoni voleva far capire, proprio con Marzo 1821, l'Adelchi e appunto il Cinque maggio, che non era il caso di disperare e che la lezione negativa doveva servire per confidare di più nelle proprie risorse (per quanto con quei primi moti italiani furono condannati i principali frequentatori di casa sua: Pellico, Maroncelli, Berchet, costretti all'esilio o allo Spielberg).

Nell'Adelchi, in particolare, il cattolico Manzoni non sta dalla parte del cattolico Carlo Magno, assetato di potere, principale alleato della chiesa romana, ma sta dalla parte dei figli del longobardo Desiderio, Adelchi ed Ermengarda, ch'egli s'immagina "neo-cattolici", ancora puri ingenui onesti, lontani dagli intrighi della politica, vittime di circostanze quanto mai ciniche, spietate, e che pur accettano con stoica dignità. Anche con questa tragedia il popolo italiano veniva invitato a non aspettarsi da messia stranieri la liberazione e unificazione nazionale.

Qui però, se può non dispiacere l'idea di raggirare la censura, mediante l'alibi della morte cristiana del Bonaparte, per riuscire a dire, a mezza voce, che le imprese di quest'ultimo, finalizzate a diffondere gli ideali illuministici, furono indubbiamente di maggior valore rispetto a quelle intraprese dai suoi avversari per impedirglielo, bisogna comunque chiedersi sino a che punto un'operazione poetica del genere non pagasse uno scotto superiore a quello che il Manzoni avesse messo in preventivo. Un critico infatti dovrebbe porsi il compito di dimostrare che per il Manzoni non era tanto in gioco l'idea che il Napoleone "cristiano" avrebbe potuto trovare redenzione al cospetto di dio, quanto l'idea che senza di lui le popolazioni oppresse rischiavano di restare tali se non avessero trovato in se stesse la forza per reagire.

In tal senso non sarebbe sbagliato interpretare il verso relativo ai "posteri" che andranno ad emettere l'"ardua sentenza", come una sorta di finzione letteraria per dire che, in cuor suo, il poeta aveva già formulato un giudizio storico sull'operato dell'imperatore francese, ma che non l'avrebbe espresso finché il popolo italiano non avesse fatto sue le idee di giustizia uguaglianza libertà elaborate dagli illuministi.

Poiché il Manzoni aveva scelto di vivere in Italia e non all'estero (come p.es. il Foscolo), chiedendo quindi alla propria coscienza di scendere a compromessi, un critico non può non chiedersi sino a che punto i vari compromessi manzoniani fossero davvero compatibili con l'esigenza di promuovere un senso di emancipazione nei confronti dell'oppressione nazionale. Una cosa infatti era dire agli italiani che non potevano sperare di essere liberati dagli austriaci, dai Borboni e dal potere temporale della chiesa per mezzo dello straniero; un'altra era fingere che Napoleone, suo contemporaneo, non avesse cercato concretamente di farlo, pur in mezzo a tradimenti politici (come p.es. il Trattato di Campoformio) e a comportamenti vergognosi (come p.es. le requisizioni di famose opere d'arte). Non esprimesi pro o contro Napoleone era davvero impossibile: prima di lui l'avevano fatto chiaramente il Monti, il Foscolo e tanti altri intellettuali che non potevano certo essere ritenuti di poco conto.

Quello che più stupiva del Manzoni era che invece di passare dalla fede all'ateismo, aveva fatto il processo inverso. Egli aveva incontrato il cristianesimo dopo aver maturato una forte crisi esistenziale nei confronti dell'Illuminismo politico dei rivoluzionari. La sua conversione poteva facilmente apparire come qualcosa di impuro, di ambiguo, il ripiego di un uomo che si sentiva fallito; poteva cioè essere interpretata non solo come un modo per fuggire dalla Francia che con la dittatura giacobina, la controrivoluzione termidoriana e l'impero napoleonico aveva tradito tutti gli ideali illuministici, ma anche come una forma di salvacondotto per tornare nell'Italia clerico-feudale, con la speranza di poter scrivere qualcosa di "umanamente accettabile".

Quando Manzoni scrisse il Cinque Maggio non era ancora quel cattolico bonario e paternalista che conosciamo nei Promessi sposi, fiducioso in una sana provvidenza, che non toglie agli esseri umani la loro libertà di scelta, ma era invece il giansenista molto vicino alle posizioni calviniste della moglie Enrichetta (che poi era stata lei la prima a diventare giansenista). Come noto, il giansenismo aveva una concezione della predestinazione piuttosto rigida: i seguaci di questa corrente cattolica (molto sviluppata in Francia) erano pessimisti sulla possibilità che l'uomo potesse giungere alla salvezza eterna fidando solo nei propri mezzi.

Ora chiediamoci come il Manzoni applichi il proprio giansenismo alla figura di Napoleone. E' anzitutto evidente che un giansenista non avrebbe potuto esprimersi su un personaggio del genere finché tutte le nazioni d'Europa gli fossero state ostili. Se le armate napoleoniche avessero trionfato in Russia, probabilmente la storia avrebbe avuto un percorso diverso, che avrebbe probabilmente indotto lo stesso Manzoni a spendere parole positive, in maniera esplicita, nei confronti di questo genio dell'arte militare e grande portavoce di istanze borghesi.

Viceversa in quest'ode le buone parole, in maniera esplicita, risultano connesse più che altro a un giudizio di tipo religioso sulla figura in sé di Napoleone, sulla sua essenza umana. Napoleone esce sconfitto dalla storia perché evidentemente non era predestinato a vincere, tuttavia, poiché il Manzoni lo dipinge non come ateo ma come credente, seppur solo sul letto di morte, l'uomo Napoleone può tornare ad essere vittorioso nell'aldilà, dove le sue idee di giustizia libertà uguaglianza (borghesi) troveranno il meritato compimento, voluto da dio stesso.

Ora la domanda che si pone è la seguente: perché sforzarsi di attribuire a Napoleone un destino diverso (di tipo religioso), quand'egli in realtà, nella sua vita, fu sempre ateo e anticlericale (nonostante l'accettazione dell'idea di Concordato)? E' evidente che il Manzoni ha escogitato una soluzione abilmente diplomatica, contorta ma efficace agli occhi di chi, cattolico come lui, avesse saputo leggerla come una sorta non di "inno sacro" ma di "parabola". Napoleone era stato rivalutato come uomo religioso, negli ultimi dodici versi, perché si potesse parlare di lui, in maniera sfumata, sospensiva, senza riferimenti a idee di tipo religioso, negli altri novantasei, per far capire, in sostanza, che i suoi ideali avrebbero anche potuto realizzarsi sulla terra se i popoli fossero riusciti a togliere di mezzo il vetero-feudalesimo che ancora stava al potere.

In un certo senso Manzoni vuol far credere d'essersi identificato con l'imperatore, poiché come lui aveva creduto negli ideali illuministici e come lui era approdato alla consolazione della fede dopo il fallimento della realizzazione politica di quegli ideali. Ma fa anche capire che molto dipendeva dai popoli, dal loro consenso, dalla forza della loro volontà emancipativa: i singoli, per quanto potenti siano, non possono far nulla. Ai "posteri" non andava lasciato solo il giudizio su quanto l'imperatore aveva compiuto ma anche su quanto meritava d'essere proseguito e completato.

Non dimentichiamo che nel 1848, scoppiata la rivoluzione delle Cinque giornate di Milano, egli incitò i tre figli maschi a prendervi parte e benché uno di essi fosse caduto prigioniero e ostaggio degli austriaci, firmò un appello a tutti i popoli e principi italiani perché aiutassero i milanesi. Manzoni voleva l'unificazione di cattolicesimo e borghesia e non si può dire che questo suo obiettivo non fosse riuscito a realizzarlo.


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Aggiornamento: 10-02-2019