Le ossessioni di Antonin Artaud

Le pene di Antonin Artaud

Dario Lodi


A 4 anni, Antonin Artaud (1896-1948) conobbe l’esperienza della meningite. Si vuole che i suoi problemi mentali nascano da essa. Il rapporto fra malattia e sensibilità artistica è un topos radicato nella cultura occidentale. Si pensi, ad esempio, alla vicenda di Van Gogh, del quale, tra l’altro, Artaud fu strenuo difensore. Van Gogh si presentava perfettamente come personaggio-pilota per una tesi che lo scrittore marsigliese volle sviluppare a favore del malato, o del disturbato. Il disturbo mentale, causa di sdoppiamenti di personalità, secondo Artaud, è una sorta di profonda ammissione di impotenza nei confronti della comprensione della realtà, fagocitata da un timore di debolezza razionale da parte del malato. Questa debolezza viene accentuata artificialmente dai problemi di competitività spietata insiti nel sistema. Il malato, tuttavia, non accetta la sua debolezza, tanto più se si chiama Antonin Artaud.

A dimostrazione di un falso nella tesi, in qualche modo voluta dalla cultura circostante e dominante, il marsigliese espone una serie di considerazioni acribiche sulla funzione dell’intelligenza e della sensibilità quando vengono chiamate a dare risposte convincenti sullo scopo dell’esistenza.

Volutamente, ma sinceramente, Artaud pone una raffica di domande sul valore della parola, allora considerata, in generale, la chiave della conoscenza assoluta. La semeiotica provvedeva a spiegare la provenienza di una affermazione e ne spiegava il motivo. I motivi, riuniti, davano una visione precisa del mondo. Era un po’ come nell’enciclopedia classica, quella prima francese, dove ogni voce ha una descrizione accurata del suo essere. La semeiotica vi aggiungeva il perché, chiudendo il cerchio della conoscenza superiore dell’uomo. Artaud, che viveva a Parigi in pieno Surrealismo (per lui un notevole aiuto intellettuale, anche quando lo lasciò), fu tra i primi a contestare tanto sapere attraverso la sola speculazione umana fatta appena sotto la superficie delle cose e con intento finale utilitaristico.

Questa contestazione si trova, implicitamente, nella corrispondenza fra lui e Jacques Rivière (eccellente critico letterario e scrittore lui stesso), dove, tentando di piazzare delle poesie – rifiutate – Artaud spiega ampiamente il suo autentico stato d’animo, quello segreto: egli ammette la propria ignoranza, ma denuncia anche una limitatezza intellettuale che lo tormenta in quanto inadatta a seguire i seri rapimenti del sentimento. Il sentimento vuole tutto, mentre la ragione può poco: è una condizione dettata dalla storia dello sviluppo dei due estremi. Essi, con Artaud, vogliono assolutamente andare insieme. Rivière, direttore di una importante rivista letteraria, la “Nouvelle Revue Française”, attratto dallo strano personaggio, finirà con il pubblicare parte della loro corrispondenza. L’inquietudine abissale di Artaud viene tuttavia rivelata con estrema precisione da un breve testo, il “Pesa-nervi” dove lo scrittore marsigliese raggiunge forse il culmine del proprio acuto ed intelligente malessere esistenziale, riuscendo a dare allo stesso una valenza universale.

Dunque inquieto e incontentabile, Antonin Artaud passa ad altre esperienze, fra cui, determinante, quella del viaggio nel paese dei Tarahumara (scritto centrale del volume “Al paese dei Tarahumara” a cura di H.J. Maxwell ed E. C. Rugafiori, Adelphi editore, nel quale sono compresi i due testi citati, più le “Lettere di Mènage”, i “Frammenti di un diario d’Inferno”, le “Lettere da Rodez” e “Frammentazioni”: una panoramica impressionante del mondo Artaud). Il popolo dei Tarahumara abita la parte sud dello Stato di Chihuahua (confinante con il Texas) nel Messico. Artaud vi conobbe il rito del “Peyotl” un allucinogeno antidolorifico e liberatorio da ogni complesso. Lo scrittore marsigliese cadrà preda degli oppiacei, che già aveva conosciuto come “cura” attraverso il laudano.

Importante per lo sviluppo della sua personalità, fu l’incontro con il teatro balinese nel 1931 in occasione di una Esposizione coloniale. Da quell’antico modo espressivo, fatto di gesti morbidi e allo stesso tempo sincopati (come statue che cambiano posizione quasi inavvertitamente e nella nuova vi restano per qualche minuto per poi passare alla successiva seguendo il medesimo rito) trasse parecchi spunti per i suo “Teatro della crudeltà”, padre del “Living Theatre” e di molto teatro moderno (recitazione con l’intero corpo, la voce in secondo piano, il testo, elementare, estremamente vissuto sino al patimento: da qui la crudeltà). Artuad fu anche buon attore cinematografico, per Abel Gance, ad esempio, il regista francese più quotato de tempo; recitò con Jean-Louis Barrault, con Louis Jouvet, i due divi maschili francesi di allora.

Il Nostro invecchiò rapidamente e molto anzitempo, dando seri segni di squilibrio, oppure per tali furono prese le sue stranezze, i suoi dolori (cose che probabilmente erano poco fisiche) e finì in Sanatori dove non gi lesinarono elettrochoc, impietosamente. Morì male, di un male terribile, di un cancro al colon, ma fino all’ultimo fu lucido e fino all’ultimo denunciò la pochezza intellettuale dell’uomo creato dal materialismo, con scritti di rarissima efficacia razionale e sentimentale.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019