GIOVANNI BOCCACCIO, SER CIAPPELLETTO

GIOVANNI BOCCACCIO, SER CIAPPELLETTO

I - II

GIOVANNI BOCCACCIO


La novella di Boccaccio "Ser Ciappelletto" (o Cepparello) è la prima della prima giornata del Decamerone e ne costituisce la vera introduzione generale. Probabilmente trae origine da narrazioni venute dalla Francia sul conto degli usurai italiani, e non è da escludere che l'autore attribuisca alcuni fatti a un personaggio realmente esistito. Antecedenti letterari alla novella appaiono anche nella Vita di san Martino, di Sulpizio Severo, e nella Storia di Spagna, di Juan de Mariana.

Un certo Cepperello (o Ciapperello) Dietaiuti da Prato risulta anche da alcuni documenti di fine Duecento, in qualità di ricevitore di decime e di taglie, per conto del sovrano francese Filippo il Bello (1268-1314) e del papa Bonifacio VIII (1230–1303). Tale protagonista è dall'autore assimilato a Giuda, in veste bonaria però, e fa da pendant negativo alla figura ideale di Griselda, che concluderà il Decamerone.

Oltre a ser Ciappelletto si parla anche, seppur solo per introdurre la novella, di un certo Musciatto di messer Guido Franzesi, che accumulò grandi ricchezze, trafficando in Francia e divenendo uno dei più ascoltati consiglieri del suddetto re Filippo, inducendo quest'ultimo a falsificare la moneta e a vessare i mercanti italiani. Risulta anche che fu podestà e poi capitano del popolo a Prato e capitano della taglia (dirigente degli esattori fiscali) in Toscana nel 1301. Era già morto nel 1310 e fu realmente in stretti rapporti d'affari con Cepparello, che nel 1304 era ancora vivente.

Dunque, se la ricostruzione dei fatti è realistica, il Musciatto, nel 1301, doveva venire in Toscana al seguito di Carlo di Valois (1270-1325), detto "Senzaterra", fratello del re di Francia, su richiesta di papa Bonifacio; e siccome doveva riscuotere delle imposte (le "taglie" appunto) in Borgogna, e sapeva che i borgognoni erano litigiosi, sleali e falsi, aveva pensato di servirsi di ser Cepparello, ch'era un diminutivo di Ciapo, a sua volta deformazione di Jacopo, benché il Boccaccio lo faccia provenire da "ceppo" (e non era "notaio" come l'autore sostiene).

I "cani lombardi" di cui si parla nella novella erano gli italiani del centro-nord della penisola (Toscana inclusa), chiamati così dai francesi proprio a motivo della loro attività usuraria, privata o pubblica (attraverso le banche). Si tratta di una borghesia assolutamente senza scrupoli, che però non è ancora giunta al potere politico, come al tempo del Machiavelli.

Questi strozzini, che in Toscana, soprattutto nell'area fiorentina, pullulavano enormemente, essendo quella una delle zone più ricche d'Europa, avevano fatto grandi fortune anche in Francia e, proprio per questo, erano periodicamente soggetti a feroci pogrom (1277, 1299, 1308, 1311, 1312, 1329 ecc.). Lo dimostra il fatto che nella novella i due usurai fiorentini residenti in Francia sono più preoccupati del danno d'immagine che i loro affari possono subire che non della malattia del "collega", e temono che se Ciappelletto muore in casa loro, la gente ne approfitterà per inventarsi chissà cosa allo scopo di farli fuori o per privarli dei loro archivi, contenenti l'elenco dei debitori. Non dimentichiamo che a quel tempo i corpi degli usurai morti venivano gettati, insieme a quelli dei suicidi, degli eretici e degli scomunicati, nei fossati che cingevano le mura urbane.

Lo stesso Ciappelletto, ben sapendo queste cose, piuttosto che mettere in difficoltà il dominio dei banchieri e usurai italiani in Borgogna, preferisce perdere la propria anima per l'eternità, facendo una confessione sacrilega in punto di morte. E' questo e solo questo il motivo dell'ammirazione che gli tributano i colleghi in usura: la sua empietà, paragonata da alcuni critici alla blasfemia di Capaneo, appare inaudita.

* * *

La premessa della novella è in netto contrasto col suo contenuto, in quanto da un lato si mette in luce, con ironia, la vita di un truffatore, dall'altro invece (in stile medievale) si fa una sorta di professione di fede. Teoricamente Dio è considerato "creatore di tutto", il cui nome va "lodato", in quanto vero "significato della vita": senza di lui sarebbe impossibile affrontarne le avversità (questa sembra essere la parte "catechistica" del racconto). Di fatto però nel racconto la fede viene usata in maniera tutt'altro che religiosa.

Altri esempi rendono evidente tale dicotomia. Da un lato si fa mostra di credere nell'intercessione dei santi, nella superiorità della grazia divina rispetto alla volontà umana di compiere il bene, nel valore della preghiera, e addirittura si afferma che se si ama Dio in buona fede, con intenzioni pure, non si perde la grazia neppure quando si viene ingannati dalle vicende terrene ("ingannati da una falsa opinione, consideriamo santo qualcuno che è dannato"). L'autore quindi sostiene che la verità non è appannaggio della fede, poiché in buona fede ci si può enormemente sbagliare.

Dall'altro però (ed è la conclusione del racconto) il narratore afferma di non poter negare del tutto che ser Ciappelletto sia beato alla presenza di Dio (per quanto, storicamente, il suo nome non appaia in alcun elenco di santi). Ciò in quanto non è escludere che, in punto di morte, egli si sia pentito con tale contrizione che Dio può anche aver avuto misericordia di lui. La vera conclusione della sua vita non la sapremo mai con sicurezza.

Dunque in Boccaccio la religione ha perduto ogni certezza, non è più un metro di misura, un criterio di giudizio. Solo in apparenza si deve credere che l'anima di ser Ciappelletto sia all'inferno. Boccaccio lascia addirittura intendere (anticipando temi psicologi dei secoli a venire in materia di autosuggestione e di effetti placebo) che se anche essa fosse all'inferno, chi le si rivolgesse in buona fede per ricevere una grazia, potrebbe anche ottenerla.

Duecento anni prima di Lutero e di Calvino, la religiosità viene trattata dal Boccaccio in maniera del tutto "protestante". Non s'intravvede alcuna incompatibilità tra fede e affari, e non tanto perché - si badi bene - Boccaccio approvi la condotta riprovevole di Cepparello (che è usuraio, ipocrita e blasfemo), quanto perché esalta la fede interiore, quella che, per essere o per sentirsi vera, non ha bisogno di prove esteriori, di conferme da parte di qualche personalità o autorità religiosa, di tradizioni consolidate. Boccaccio è un protestante ante-litteram poiché pone letterariamente le basi di un modo individualistico di vivere la fede, che è tipico della borghesia cattolica (quella volta anzitutto italiana).

In particolare Boccaccio ha voluto far vedere che i religiosi (nella fattispecie alcuni frati) possono essere facilmente ingannati se si finge di avere la fede, cioè se si è capaci di sdoppiarsi in credente e borghese.

Ha voluto far vedere che quando il potere politico è in mano alla chiesa (clericalismo) e si vuole svolgere, da privati, un'attività affaristica (che per sua natura è impopolare agli occhi del mondo rurale e delle persone onestamente religiose), non resta che fingere e mentire (dissimulare), nella convinzione che detto potere, già profondamente corrotto, non sarà in grado di scorgere l'inganno o, in ogni caso, non avrà i titoli per smascherarlo e per impedire che si sviluppi la suddetta attività. La stessa base popolare, abituata a obbedire passivamente alle autorità religiose, resta incredibilmente ingenua di fronte alla borghesia, non sapendo distinguere il bene dal male.

Insomma l'ateismo borghese - molto evidente in questa novella - resta "borghese" sino in fondo, cioè non si pone mai come ateismo etico o democratico: è soltanto una forma di cinismo e di volgare materialismo.

Sotto questo aspetto si può considerare giusta la considerazione finale, secondo cui è possibile compiere opere di bene anche servendosi di azioni negative o di persone immorali o di beni la cui provenienza è vergognosa, ma questo non può essere assunto come criterio generale del comportamento umano. Dovrebbe essere considerata un'eccezione, non la regola, e un'eccezione valida solo quando effettivamente il bene dimostra nel concreto d'essere superiore al male.

La regola generale in realtà (quella che la borghesia non vorrebbe mai ammettere) è un'altra, e cioè che un comportamento sbagliato ripetuto ad oltranza, ad un certo punto, dopo essersi ingigantito a dismisura, non appare più come tale. E ci vogliono gravi catastrofi procurate da quel comportamento prima che riesca a emergere un'alternativa.

ser_ciappelletto (mp3) - il testo e l'analisi letteraria (rtf) - testi su Boccaccio (zip)

Il Decamerone (zip) - Trattatello in lode di Dante (zip) - www.rose.uzh.ch/static/decameron/

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019