I ricami di Giosuè Carducci

I ricami di Giosuè Carducci

I - II

Dario Lodi


Pianto antico
L'albero a cui tendevi - La pargoletta mano, - Il verde melograno - Da' bei vermigli fior - Nel muto orto solingo - Rinverdì tutto or ora, - E giugno lo ristora - Di luce e di calor. - Tu fior de la mia pianta - Percossa e inaridita, - Tu de l'inutil vita - Estremo unico fior, - Sei ne la terra fredda, - Sei ne la terra negra; - Né il sol piú ti rallegra - Né ti risveglia amor.

Giosuè Carducci (1835-1907), premio Nobel per la letteratura nel 1906, è, detto sbrigativamente, poco amato per la sua pedanteria, per la sua erudizione, spesso causa di forzature e di esiti da fanfara di paese. Parecchie poesie, rimandate a memoria per esigenze scolastiche, sono di una pesantezza insopportabile, di un trionfalismo assurdo rispetto al contenuto ultimo della composizione.

Gli è che il poeta toscano (attivo per quasi tutta la vita a Bologna) è tutto teso alla conquista di uno spazio poetico fatto di classicismo moderno, e cioè un classicismo attivo, positivo, più che contemplativo. La contemplazione del verso è prevista nella misura in cui risuona perfetto, in cui la musicalità ha raggiunto l’acme. Il senso sottostà a questa regola ed è in qualche modo scontato in partenza. Carducci compone a tavolino con molta attenzione, lima la parola, ricama il verso.

Il ricamo è virile, l’accademia è come risvegliata da una specie di carica che la pone, giustamente, secondo lui, sul trono più alto. Carducci si traveste da vate, da sciamano consapevole delle proprie alchimie, e travolge qualunque ostacolo, vuoi sentimentale, vuoi razionale. E’ la vittoria della poesia, dell’oracolo, sulle debolezze, sulle miserie della vita. Per questo il nostro poeta non amava la prosa, ritenendola un genere inferiore, e trascurabile, della letteratura.

Per Carducci, la poesia non deve piegarsi a nessun compromesso. Deve essere voce pura d’espressione e l’espressione deve essere, a sua volta, parola d’uomo, parola limpida dell’animo, senza mediazioni di sorta, senza ricorsi ad “aiuti esterni”. Senza ripiegamenti religiosi soprattutto.

La questione religiosa porta con sé visioni romantiche e presunte svenevolezze, cioè svendite della propria personalità. E’ questa la convinzione di Carducci, in forza della quale si oppone al credo manzoniano che vede nella Provvidenza la mano equilibratrice divina, come se la volontà dell’uomo fosse una cosa di nessun pregio. Chiaramente Manzoni non ragiona in questo modo, la sua è una religiosità del tutto spirituale, da giansenista esemplare. Ma il nostro poeta è come invasato dall’opzione classica e dalla necessità della reviviscenza del classicismo in un momento in cui pare piegata la spina dorsale ad una sorta di fatalismo.

D’altro canto, il positivismo di Carducci non va per niente d’accordo con il virilismo muscolare opposto al mondo apparentemente battuto del sentimento. Il suo uomo, il poeta, espone ciò che ha di divino e vuole imporlo, ritenendolo un diritto e quindi un dovere. Lo fa con il massimo impegno estetico perché sia chiaro lo spirito sacro da cui proviene.

Tutto questo impegno porta alla stessa esaltazione dello sciamano preso dai suoi riti. Carducci, per nulla modesto, si ritiene un uomo forte e va alla ricerca di suoi pari. Ad esempio, sposa la causa di Francesco Crispi, lo statista italiano che vara l’approssimazione politica di cui ancora l’Italia è prigioniera. E’ lo stesso Crispi del massacro di Adua. Massone, Carducci seguirà l’avvicinamento della massoneria alla monarchia e dedicherà una poesia alla regina, lui nemico di ogni sovrastruttura convenzionale.

La maggior parte delle composizioni carducciane è macchiata di oratoria celebrativa: la grandezza di Roma antica, il fascino del passato, la gloria dei Comuni italiani nel Medioevo. Di contro, il senso della morte come privazione di tutto in quella che è forse la sua poesia più sentita e insieme artificiosa, “Pianto antico”.

La cifra stilistica di Carducci è sempre notevole. Il poeta non conosce distrazioni. La tensione è sempre alta. Il metodo prevede il rimescolamento di topoi classici, frutto di un’erudizione straordinaria. Carducci non è aggressivo e impositivo come D’Annunzio, preferendo la frase in sé equilibrata, per quanto esternamente eccessiva, mentre il pescarese porta disequilibri tonali già nel verso, con esiti esterni magari più contenuti, ma di certo più dispersivi.

L’accostamento delle parole in Carducci ha una logica musicale precisa. In realtà la sua composizione andrebbe letta d’un fiato per godere dell’insieme. In D’Annunzio ogni verso ha il suo carattere, sta sotto l’altro verso, non accanto. La poesia diviene così una specie di scalata (si tratta di un escamotage per tenere alto il ritmo) mentre nel Nostro i versi sono interdipendenti, sono legati strettamente fra loro. Ecco, così, che Carducci è un antesignano della poesia moderna. Viene prima di Rimbaud. E, da questo punto di vista, convince di più.

Si diceva che Carducci non amava la prosa, ma evidentemente la prosa amava lui. I suoi saggi su Parini sono mirabili, le sue lettere preziose. Grande è il Nostro quando pensa con calma e ascolta la coscienza più che il cuore. La semplicità più che l’accademia.

D’altro canto, il positivismo di Carducci non va per niente d’accordo con il virilismo muscolare opposto al mondo apparentemente battuto del sentimento. Il suo uomo, il poeta, espone ciò che ha di divino e vuole imporlo, ritenendolo un diritto e quindi un dovere. Lo fa con il massimo impegno estetico perché sia chiaro lo spirito sacro da cui proviene.

Tutto questo impegno porta alla stessa esaltazione dello sciamano preso dai suoi riti. Carducci, per nulla modesto, si ritiene un uomo forte e va alla ricerca di suoi pari. Ad esempio, sposa la causa di Francesco Crispi, lo statista italiano che vara l’approssimazione politica di cui ancora l’Italia è prigioniera. E’ lo stesso Crispi del massacro di Adua. Massone, Carducci seguirà l’avvicinamento della massoneria alla monarchia e dedicherà una poesia alla regina, lui nemico di ogni sovrastruttura convenzionale.

La maggior parte delle composizioni carducciane è macchiata di oratoria celebrativa: la grandezza di Roma antica, il fascino del passato, la gloria dei Comuni italiani nel Medioevo. Di contro, il senso della morte come privazione di tutto in quella che è forse la sua poesia più sentita e insieme artificiosa, “Pianto antico”.

La cifra stilistica di Carducci è sempre notevole. Il poeta non conosce distrazioni. La tensione è sempre alta. Il metodo prevede il rimescolamento di topoi classici, frutto di un’erudizione straordinaria. Carducci non è aggressivo e impositivo come D’Annunzio, preferendo la frase in sé equilibrata, per quanto esternamente eccessiva, mentre il pescarese porta disequilibri tonali già nel verso, con esiti esterni magari più contenuti, ma di certo più dispersivi.

L’accostamento delle parole in Carducci ha una logica musicale precisa. In realtà la sua composizione andrebbe letta d’un fiato per godere dell’insieme. In D’Annunzio ogni verso ha il suo carattere, sta sotto l’altro verso, non accanto. La poesia diviene così una specie di scalata (si tratta di un escamotage per tenere alto il ritmo) mentre nel Nostro i versi sono interdipendenti, sono legati strettamente fra loro. Ecco, così, che Carducci è un antesignano della poesia moderna. Viene prima di Rimbaud. E, da questo punto di vista, convince di più.

Si diceva che Carducci non amava la prosa, ma evidentemente la prosa amava lui. I suoi saggi su Parini sono mirabili, le sue lettere preziose. Grande è il Nostro quando pensa con calma e ascolta la coscienza più che il cuore. La semplicità più che l’accademia.

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Testi di Giosuè Carducci


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019