La tragedia di Paul Celan

La tragedia di Paul Celan

Dario Lodi


Primo Levi definì la poesia di Paul Celan (1920-1970) oscura e  nichilista. In effetti, leggendo e rileggendo la sua lirica più famosa, “Fuga di Morte”, uno dei massimi testi sulla Shoah, si è presi da un senso di sgomento per l’incapacità di cogliere il “messaggio nella bottiglia” che il poeta ebreo-romeno vi ha messo dentro, si direbbe a viva forza e con disperazione lucida. Celan (acronimo e pseudonimo di Ancel, adottato nel 1947), incalzato dalla richiesta di spiegazioni, una volta confessò che la lirica tratta di un dialogo immaginario fra un se stesso alla deriva ed un immaginario ascoltatore ideale, quanto forse impossibile da reperire. L’irreperibilità in questione è dovuta al tentativo di descrizione – dall’interno - dell’orrore dei campi di concentramento. Il filosofo Adorno, un oppositore deciso del capitalismo, ebbe a dire che scrivere ancora poesia dopo Auschwitz era una barbarie. Ma Celan opera una sublimazione poetica della tragedia perché rimanga una testimonianza altissima e palpitante del dolore esistenziale che essa provoca nell’uomo. Il poeta non parla di sé come di un uomo ideale, non baratta l’angoscia insopportabile che la tragedia comporta con la propria sensibilità creativa, ma si offre a testimone implacabile della più insospettata crudeltà umana perché rimanga nel cuore e nella mente dell’umanità il più grande disastro civile della storia.

Celan, nato nella Bucovina settentrionale, occupata dai tedeschi nel 1942 (poi passata all’URSS), riuscì sempre a sfuggire alla deportazione, arrangiandosi a sopravvivere con lavori di fortuna nei campi romeni. Furono invece catturati il padre e la madre (l’uno morì di tifo, l’altra fu fucilata in un campo ucraino).

Nel 1945 egli lasciò le sue poesie giovanili alla prima fidanzata, Ruth Lackner, e cominciò le sue peregrinazioni per l’ Europa: intendeva rifarsi una vita in piena libertà (in Romania rischiava la persecuzione sovietica). Importante a Parigi la conoscenza del poeta-patriota Renè Char, la lettura di Heidegger (che più tardi, avendolo incontrato, detesterà, per il silenzio, complice, sul nazismo),  in Germania l’appartenenza al Gruppo 47 (socialisteggiante) favorita dall’amicizia, e probabilmente dalla relazione, con la grande intellettuale Ingeborg Bachmann. Intanto peggioravano le sue condizioni psichiche, certo dovute al ricordo della terribile esperienza dell’occupazione nazista del suo paese, finché fu ricoverato per qualche tempo in una clinica specializzata, dove ebbe modo di comporre con maggiore impegno. Nel 1958 conseguì il prestigioso Premio Città di Berna. Di lui scrisse con ammirazione il geniale critico ungherese Peter Szondi.

Celan era ormai al centro dell’attenzione nella cultura europea. I suoi volumi di poesie, fra cui “Di soglia in soglia”, “La rosa di nessuno”, “Svolta del respiro”, “Filamenti di sole”, erano degli autentici successi. Il poeta temeva che tanto successo fosse causato da un generale desiderio di “mettersi a posto la coscienza” attraverso la penitenza di quelle letture. Il timore era sorretto dal fatto che il successo maggiore avveniva in Germania. Dopo l’ulteriore ricovero clinico nel 1962, Celan, raggiunta la piena maturità, subì, con molta probabilità, la rivisitazione della propria difficile giovinezza (tra l’altro il padre lo trattava male) ed ebbe modo di riflettere sentimentalmente sulla fondamentale povertà dell’animo umano. Il mondo era risorto seppellendo frettolosamente quegli orrori: era morbosità, ormai, la loro presa in carico. Molti, reduci di quelle vicende, finirono con il suicidarsi. Nella notte fra il 19 e il 20 aprile 1970, anche lui prese questa decisione gettandosi nella Senna che scorreva vicino casa sua. All’opinione di Primo Levi sulla sua poesia, oscura e nichilista, Celan rispose con un discorso (praticamente un breve saggio intitolato “Il meridiano”) in occasione del Premio Bückner, che aveva vinto (era il 1960), rivendicando il diritto della poesia all’oscurità se la stessa porta ad una significazione maggiore di un componimento rifinito in maniera convenzionale. In quanto al nichilismo, il nostro poeta non ha, invero, alcuna intenzione di denunciare una vanità assoluta nelle cose. Il suo grido di disperazione, espresso in modo agghiacciante ne “La sabbia delle urne” testo del 1948, è in realtà una voce estrema di speranza in un ravvedimento civile da parte dell’umanità. Egli vede nel nazismo il crollo del capitalismo industriale, di una civiltà, cioè vittima del superuomo robotico, implacabile ed impietoso nei confronti della vecchia umanità, secondo gli esaltati “robot” debole e schiava di profitti minori, quanto improduttivi in senso progressista. Una filosofia rozza, basata sulla forza fisica, stolta negatrice del progresso umanistico e umanitario. Celan sperava che questo crollo portasse a qualche serio ripensamento (che ci fu con l’affermazione del sistema statunitense, in parte moralmente sano), ma intanto, con le sue poesie, denunciava con le lacrime agli occhi, bloccate da stupore e sconcerto, da delusione e amarezza, il dolore profondo, tragico, di un uomo, che si sentiva rappresentante dell’umanità buona, di fronte alla insensatezza della violenza più cieca che, col nazismo, mai s’era vista nella storia.

Fa male, come una ferita, la sua parola incisa in questo dolore, intenso, amorevole, indifeso, patetico, sconsolato, sfiduciato. Celan trasmette la sensazione di smarrimento assoluto della personalità umana, uno smarrimento causato da una tragedia imprevista e imprevedibile, del tutto incredibile, ma purtroppo vera in tutta la sua brutalità. Egli va a toccare le più riposte corde dell’animo: dunque non si arrende alla nullità sostanziale dell’uomo, ma, per quanto remotamente, conta su una svolta decisa e catartica della condizione umana. Celan pensava di poterlo fare con le poesie, ovvero con la sublimazione massima dell’espressione, ma forse ritenne di non esserci riuscito e, qui ha ragione Levi, e che nessuno mai ne sarebbe stato capace. Per questo si eliminò: un gesto di sconforto, tuttavia, non un modo per togliersi dal problema. Una questione personale, umanamente comprensibile, non una sentenza di inutilità del tentativo di purificazione dell’animo umano.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019