Le dolenze di Grazia Deledda

Le dolenze di Grazia Deledda

Dario Lodi


Molti intellettuali addebitavano a Grazia Deledda (1871-1936) lo svilimento della Sardegna, attraverso la narrazione di vicende in cui veniva mostrata un’arretratezza eccessiva della sua terra. In realtà, la cosa appare più complessa per la variegata personalità della scrittrice (alla quale fu assegnato il Nobel per la letteratura nel 1926), tutta dentro, nelle diverse sfumature, nei suoi numerosi romanzi (e racconti).

Questi romanzi sono di chiara derivazione romantica e hanno un’identificazione nella narrativa di Balzac (che la Deledda, autodidatta, tradusse): fondali truci, personaggi duri come la terra, passioni violente, contrasti insanabili, scontri terribili, soluzioni quasi mai consolatorie (nel caso positivo, accettate più che scelte).

La Deledda amava il romanzo ottocentesco, con il suo Balzac in testa, ma amava anche Tolstoj (al quale voleva dedicare dei racconti) e aveva qualche infatuazione per il nostro D’Annunzio (pochi ne erano esenti all’inizio del ‘900): tre personaggi diversissimi, un genio (Tolstoj), un ottimo mestierante, per necessità (Balzac), e un maestro della retorica più bolsa che si possa immaginare (ma D’Annunzio aveva anche una vitalità straordinaria, era dotato di un magnetismo assai efficace in un mondo provinciale com’era l’Italia di allora). La nostra scrittrice avrebbe voluto ricavare dai tre uno stile proprio. S’impegnò a fondo per riuscirci.

Non sembra che l’intento le sia completamente riuscito, e questo per una serie di esitazioni dovute a mancanze analitiche rispetto a quelle di Tolstoj, suo riferimento, infine, principale. Il russo mette in campo una lotta fra ragione e fede, dispiacendosi che la ragione voglia prevalere, ma dispiacendosi, nel contempo, che la fede voglia comunque imporsi, voglia dominare a prescindere, insomma. La Deledda non conosce questo tormento: la sua filosofia va nella direzione cristiana per cui qualunque male, alla fine, può trasformarsi in bene. La denuncia del male – su cui la nostra scrittrice insiste con una punta d’involontario sadismo – è il primo passo verso la catarsi.

Nella sostanza, la catarsi può e deve avvenire con l’impegno personale, ma anche con la fiducia verso il cambiamento radicale. Certo, secondo la Nostra, l’impegno personale non basta, occorre anche la fede. Su tutto, a questo punto, piomba la provvidenza divina (di manzoniana memoria) che evita tragedie, che livella le aspettative, senza però appiattirle.

Il livellamento, secondo logica date le condizioni di partenza, è un richiamo che la Deledda fa all’uso del classico buonsenso irrobustito da consapevolezze derivate da constatazioni, dal pagare di persona una determinata condizione. La scrittrice sarda non punta tanto sulla questione esistenziale, come fa Tolstoj, ma su quella sociale, come fa Balzac. La prova è data dai suoi romanzi più celebri, “Canne al vento”, “La madre”, “Elias Portolu”, “Marianna Sirca”.

Certo, nella trattazione sociale la Deledda inserisce questioni personali, anticonvenzionali, che portano oltre la contingenza e accendono temi di fondo, propri di qualunque essere umano, che fanno riflettere di là dalla storia. L’autrice racconta con notevole partecipazione, vive ogni personaggio, esprime una sincera preoccupazione per la loro sorte. Ecco, la sincerità e la partecipazione sono i due fiori all’occhiello della sua prosa, una prosa che in molti tratti è poetica (specie negli intermezzi morali e psicologici, dove moralità e psicologia sono come espressi da una buona madre).

La Deledda affermava di non saper scrivere in italiano. Per lei era una seconda lingua, come il francese. Doveva pensare in dialetto sardo e tradurre. Si portò appresso questa convinzione nel trasferimento a Roma, nel 1899. Più verosimilmente temeva di non essere all’altezza dell’italiano accademico, non sapendo che la sua genuinità, la sua spontaneità (peraltro molto ben temperate da una preparazione intellettuale di primordine e da un’ambizione di verità attentamente alimentata), erano una benedizione per l’espressività vera. La Deledda, come Verga, e pochi altri, fu determinante per lo svecchiamento dell’italiano scritto.

La simpatia per la nostra scrittrice, mai ingessata e mai vittima di formule, pur traendole dai drammoni ottocenteschi e abusandone, sta in una scrittura personale, secca, ma non asciutta, semplice e non superficiale. Di sicuro vi affiora il melodramma, però non da poco. La Deledda amalgama tutto con una sana indulgenza verso ogni cosa, anche se fondamentalmente si chiede perché dover ricorrere a una sorta di adesione passiva alle cose. La passività, intendiamoci, non canta vittoria, la bisbiglia soltanto, ma sarebbe meglio la sua sostituzione.

La sostituzione non avviene per il clima culturale del momento che – secondo le regole decadenti – ama più la depressione della vitalità. La Deledda ne è in qualche modo condizionata, pur cercando di reagire a tono. D’altro canto, scarta subito la prosopopea dannunziana. Ed è un miracolo, dati i tempi.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019