L'esuberanza di Beppe Fenoglio

L'esuberanza di Beppe Fenoglio

Dario Lodi


Beppe Fenoglio (1922-1963) è il cantore dell’esperienza partigiana del secondo dopoguerra italiano. Tre sono i titoli che vide pubblicati in vita: “I 23 giorni della città di Alba” (1952), “La malora” (1954) e “Primavera di bellezza” (1959). Parecchi i romanzi postumi, fra cui “Il partigiano Johnny” e “La paga del sabato”, non si sa quanto rimaneggiati (ma pare poco) dagli incaricati a sistemare le sue carte nel cassetto. Fenoglio fu partigiano lui stesso. Divenne scrittore contro il parere dei genitori (il padre possedeva un avviato negozio di macelleria nel centro di Alba, nelle Langhe). Le circostanze lo fecero debuttare nelle lettere come traduttore dell’inglese: era una lingua che aveva imparato alla perfezione, data la sua passione per l’Inghilterra (che mai riuscirà a visitare).

La decisione di diventare partigiano fu favorita dall’esempio di due suoi professori, eliminati per attività sovversiva: l’insegnante di lingua italiana Leonardo Cocito (fucilato dai tedeschi) e quello di storia e filosofia, Pietro Chiodi, spedito in un campo di concentramento tedesco (da cui riuscì a tornare a guerra finita). La sua prosa gira intorno a questa esperienza. Essa raggiunse l’apice con la descrizione della repubblica di Alba, durata solo ventitré giorni, ma scaturigine di una solida idea di libertà, d’inizio della fine della dittatura, senza dubbi di sorta.

Fenoglio scrive di getto, sotto le esigenze della passione giovanile che è generatrice di esaltazioni per la fisicità delle imprese. Non si tratta di fisicità volgare, muscolare, ma di un una energia liberata avvertita come onnipotente. L’onnipotenza riguarda, prima di tutto, la possibilità di annullare il condizionamento posto dal sistema. La ribellione alle frasi fatte e ai riti storici, per Fenoglio, dopo l’affermazione dei partigiani, è a portata di mano. Pochi anni prima di morire, nel 1960, accettò di sposare una sua vecchia amica, ma, per coerenza con se stesso, impose il solo rito civile. Uno scandalo per i tempi. La difficile intercessione della madre rese tuttavia la cosa possibile (una sistemazione all’italiana).

Il nostro scrittore non era ben messo con la salute. Aveva contratto un’asma bronchiale (o forse era genetica) che le sessanta sigarette al giorno fecero sfociare in un tumore ai bronchi, allora assai poco curabile. Fenoglio morì verso la fine dei suoi quarant’anni, consapevole. Aveva affrontato la malattia e respinte cure (la cobaltoterapia) che allora erano quasi sperimentali e che avevano effetti collaterali non lievi, angoscianti.

Nella sua breve esistenza, Fenoglio scrisse molto, riversando sulla pagina il suo mondo partigiano, fatto di grande, spontaneo, cameratismo e di confidenze intime, provenienti dalla coscienza. Sorte di rivisitazioni sofferte nel timore della perdita del riferimento principale. La guerra partigiana e contro i tedeschi non era cosa lieve. Ogni momento era buono per morire.

Il nostro scrittore tradusse in romanzi le cose dette, e quelle non dette, in quei frangenti. La stesura schietta e immediata lo aiutava a renderle vere. La revisione, le correzioni, erano orientate a sottolineare la vivezza del racconto, a renderlo palpitante. Fenoglio non voleva ricorrere alla letteratura classica, al periodo ornato, al barocchismo allora ancora in voga (benché, ad esempio, di grande valore, come nel caso di Cardarelli, Cecchi e altri – pochi per la verità), ma puntava su una letteratura viva, diretta, parlata. Egli si affidava al modello giornalistico americano. Non per niente era stato incoraggiato da Vittorini (che lo consigliò in continuazione, in parte condizionandolo) e da Calvino, due seguaci del nuovo modo internazionale di fare letteratura. All’epoca piacevano Hemingway, Miller, Fitzgerald.

Fenoglio, per la verità, non aveva molto a che fare con gli scrittori americani (neanche Calvino, però, e neanche Vittorini, bravi comunque a cogliere l’essenzialità, non tanto dei concetti quanto delle descrizioni: il guaio della letteratura italiana del tempo – di cui il neorealismo sarà il capolinea – è il dare per scontati i concetti, così le descrizioni possono essere essenziali sin che si vuole, ma sempre mancheranno di profondità. Il rischio che viene dal guaio è l’esibizionismo fine a se stesso, ovvero un accademismo nuovo opposto a quello vecchio: ma quest’ultimo gode di un retroterra culturale importante, il primo no).

Lo scrittore di Alba entrò nell’americanismo per la freschezza del dettato di quella espressione. Essa consentiva una disinvoltura la cui adozione portava a superare le incertezze, le reticenze, le cadute nelle formule tradizionali. Il classicismo era visto come una ripetizione esangue di modelli, mentre la letteratura americana, in verità più il giornalismo americano, era per una partecipazione al tema trattato perché tale partecipazione dava più risalto alla morale relativa. Più seriamente, la scrittura americana non aveva preoccupazioni morali vere e proprie: fingendo di averne (ma poi facendosi talvolta condizionare dalle possibilità costruttive del nuovo modo di esprimersi) era in grado di coinvolgere maggiormente il lettore.

Di tutto ciò, Fenoglio prese la parte spettacolare e assunse come propria quella disinvoltura espressiva, lieto di andare contro il moloc delle lettere tradizionali e ancora più lieto di offrire una verità nuda, priva di orpelli e di bardature, che tanto poteva essere utile alla coscienza del fruitore. Fenoglio rivelava, non si limitava a descrivere. Ma nel rivelare andava spesso oltre la sua conoscenza fotografica e umanitaria occasionale per imbarcarsi in considerazioni contestuali, tuttavia sviluppate come fossero fuori contesto: nel senso che lo scrittore albese non ha vocazioni filosofiche e neppure è un verista trascinabile in polemiche psicologiche.

La sua bravura sta nella rappresentazione sanguigna delle cose. Fenoglio parla di carne, martoriata quanto si vuole, ma non spiritualizzabile. Egli è felice quando ha a che fare con cose concrete e semplici: un amore, un tradimento, uno sparo, un ferito, un evviva, una depressione. Non c’è alcuna analisi nella sua prosa. Le sue parole sono semplici e lineari. Quando devono spiegare un avvenimento, nascono complicazioni che non si risolvono con la stessa linearità programmata. È sufficiente leggere le prime pagine de “La paga del sabato” e vedere come lo scrittore affronta il rapporto con la madre (peraltro attingendo dalla realtà). I concetti sono solo accennati, egli ha premura di arrivare al dunque: la sinteticità invocata da Vittorini con il nostro scrittore non poteva funzionare. Quest’ultimo aveva bisogno di elaborazioni, di sublimazioni. Puoi sintetizzare se prima hai sublimato.

Vale l’umiltà di Fenoglio, vale la sua sincerità, la sua fede verso il buono di una espressione letteraria, quella americana fatta di sostanza (o tendente alla sostanza: anche qui, devi introitare prima di esprimerti) che come minimo ha avuto il merito di svecchiare il linguaggio letterario. Fenoglio formalmente ci ha provato. I suoi tentativi sono notevoli per onestà intellettuale. Per questo è simpatico.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019