L’angoscia di Vasilij Grossman

L’angoscia di Vasilij Grossman

Dario Lodi


Le considerazioni di Vasilij Semënovič Grossman (1905-1964), culminate nel romanzo fluviale “Vita e destino”, sono condizionate dal rimorso dell’autore per non aver salvato la madre, Ekaterina Savel’evna, dalla furia nazista. I soldati tedeschi erano arrivati a Berdičev, in Ucraina, all’inizio dell’Operazione Barbarossa, nel luglio 1941. Vennero accolti come liberatori dal giogo sovietico. Due mesi dopo, con l’aiuto (determinante) della polizia locale fucilarono la popolazione ebraica, circa 30.000 persone, fra cui, appunto, la madre del nostro scrittore. Esistono ancora i tumuli a testimonianza del massacro.

Berdičev contava allora circa 60.000 abitanti ed era uno dei centri più importanti dell’Ebraismo orientale. Grossman, che nel corso dell’invasione si trovava a Mosca (ma avrebbe potuto organizzare l’evacuazione della madre: non lo fece su pressioni della moglie, del tutto ignara del pericolo), era di origini ebraiche, ma la sua famiglia, molto agiata, non professava alcuna fede.

La tragica perdita della madre – di cui si ritenne responsabile per tutta la vita – è il motivo principale di una sua lunga e sofferta elaborazione delle condizioni civili del tempo, con conclusioni riguardanti l’eterna brutalità dell’uomo. La sofferenza derivava dall’inclusione nella brutalità del sistema sovietico, sino a poco prima ritenuto la salvezza dell’intero genere umano.

Grossman, dopo la morte della madre, avrebbe voluto arruolarsi nell’Armata Rossa, invece, per le sue doti letterarie, fu ingaggiato come giornalista. Divenne corrispondente di guerra della “Stella Rossa” e fu sui campi di battaglia di Stalingrado, di Kurks, visse la controffensiva sovietica, l’invasione di Stalin della Germania. Vide i campi di concentramento, li descrisse (suo un agghiacciante libro su Treblinka), seppe dettagliatamente degli stermini nazisti, fra cui quello tremendo di Babij Jar, un vallone presso Kiev. Ma parlò anche dei gulag, senza alcuna reticenza (“Tutto scorre …”), evidenziò lo sterminio del Kulaki (i contadini russi possidenti), le carestie indotte dal regime, le morti per fame in Ucraina: eppure il popolo si mosse, sollevò la testa è, fidando nel proprio animo, riuscì a sconfiggere il nemico. Grossman, alla fine, dice esplicitamente che l’Unione Sovietica ebbe ragione della Germania nonostante Stalin.

E’ pur vero che Stalin, colto di sorpresa dall’iniziativa nazista, si rivolse ai concittadini parlando di patria in pericolo e quindi da salvare, ma è anche vero che senza lo spirito di sacrificio dei soldati quasi improvvisati (non dimentichiamo che l’URSS ebbe circa venti milioni di morti nella Seconda guerra mondiale) e di abili generali (nonché di aiuti da parte degli Alleati), non sarebbe avvenuto il miracolo della vittoria. La guida di Stalin non ci fu, nella realtà, anzi: il nostro scrittore tutto questo lo chiarisce molto bene.

Lo sviluppo delle sue elaborazioni avviene nel libro citato, “Vita e destino” (apparve nel 1960, fu proibito da Kruscev, e l’autore emarginato; arrivò in Occidente grazie all’impegno d’intellettuali del calibro di Vittorio Strada e fu pubblicato in Italia nel 1984 da Jaca Book con traduzione di Cristina Bongiorno). In questo libro lunghissimo (oltre 800 pagine), Grossman sviluppa una storia complessa, dove avviene una specie di maturazione, si direbbe forzata, da parte del protagonista a favore del sistema da cui è umiliato.

Lo scrittore ucraino si riferisce ovviamente alla dittatura. Il regime di Stalin non è stato diverso da quello di Hitler: ma a Grossman non interessa sostenere una teoria di questo tipo per cui certe cose avvengono senza una responsabilità generale. A lui interessa dimostrare che la dittatura è nel cuore dell’uomo e che deve essere estirpata da lì se si vogliono libertà e democrazia. Solo un’operazione di tale portata può garantire la chiusura definitiva di lager e gulag.

La teoria è più sentimentale che razionale, nasce da orrori visti e vissuti, può alimentare ingenui risentimenti, vaghi propositi di riscatto: senza un’aderenza storica alle cose, non può esserci una catarsi, salvo che non ci si accontenti di parole. Ma allora sarebbe la solita indignazione, nel nostro caso, e in casi analoghi, irrobustita da eventi particolarmente cruenti.

Chiaramente, Grossman non ha alcun intento accademico. La sua è un’angoscia che nasce da uno stupore per ciò che non avrebbe mai pensato di vedere, tanto meno di provare sulla propria pelle (l’uccisione della madre). Le offese alla sua dignità di uomo sono enormi e si manifestano in tutta la loro enormità dopo l’inevitabile riviviscenza: è un’ossessione che cresce, ingigantisce, deborda, travolge. Il nostro scrittore è a sua volta un fiume in piena. Vi annaspa, ma si tiene a galla grazie ad un impegno e a una lucidità invidiabili. Grossman ha una prosa secca, diretta, fatta di razionalità autoimposta che accoglie, con animo disperato, una sorta di filosofia per cui l’uomo è proprio così, un vile alla mercé di un egoismo volgare e crudele.

Lo scrittore ucraino è stato uno dei testimoni più importanti del XX secolo. A questo riguardo, è determinante la ricostruzione della sua vita fatta da John e Carol Garrard, “Le ossa di Berdičev. Vita e destino di Vasilij Grossman” (traduzione di Roberto Franzini Tibaldeo e Marta Cai, pp. 488, Marietti 1820 editore). E’ una specie di diario che raccoglie esperienze dirette e indirette con grande cura. Straziante la prima parte che tratta della preparazione e della esecuzione del massacro degli Ebrei di Berdičev. Qui, come dice bene Gabriella Alù nel suo blog, Grossman si supera, fa capire quanto siano importanti le parole – vere – di un uomo preoccupato dell’umanità. Intellettuali come lui migliorano comunque il cammino della storia. Va detto.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019