La lezione di Guareschi

La lezione di Guareschi

Dario Lodi


Il carattere focoso di Giovannino Guareschi (1908-1968) si deve al suo forte senso libertario. Guareschi è stato un reazionario dichiarato, monarchico per amore di ordine sociale e di garanzia personale (solo un potere storico avrebbe potuto governare efficacemente, secondo lui). Due cose che l’emiliano non incontrò mai nella vita. Determinante fu la sua esperienza nei campi di concentramento nazisti (“Non muoio neanche se mi ammazzano” scrisse una volta sul suo “Diario clandestino”) dove poté apprezzare l’ottusità di un sistema basato esclusivamente sulla forza bruta. Sta qui la malinconia di questo personaggio singolare, divenuto nel tempo lo scrittore italiano più venduto nel mondo (oltre 20 milioni di copie, in ogni lingua). Il successo letterario si deve alla creazione di due personaggi divenuti emblematici di un mondo possibile, privo di contrasti eccessivi. I personaggi sono ovviamente Don Camillo e Peppone, immortalati anche in diversi film (non tutti indimenticabili, forse il primo, del grande Julien Duvivier, è il migliore: qui Fernandel e Gino Cervi nei rispettivi panni, gareggiano in bravura recitativa, rendendo, a tratti, con efficacia i personaggi usciti dalla penna di Guareschi, dal suo “Mondo piccolo”).

Il fenomeno “Don Camillo” era nato per riempire i buchi delle pagine della rivista satirica “Candido” che Guareschi aveva fondato nel 1945, dopo la guerra, con il simpatico e arguto Giovanni Mosca. Bravo vignettista, il Nostro provvedeva anche alle figure. La rivista era edita da Rizzoli, così come quella precedente, il “Bertoldo” nata fra le due guerre in contrapposizione al più famoso “Marc’Aurelio” e diretta prima da Cesare Zavattini (un intellettuale particolare e forse neanche troppo intellettuale, si ricordino le modeste sceneggiature di alcune pellicole, fra cui quella per “Ladri di biciclette” di De Sica, film divenuto noto per l’opposizione governativa alla miseria che vi veniva descritta con una punta di sadismo), poi da Giovanni Mosca. Con “Candido”, Guareschi ebbe seri guai giudiziari. Il primo per via di una vignetta che irrideva la figura di Einaudi, allora capo dello Stato nonché proprietario di una tenuta vinicola, dove si produceva un ottimo “Nebbiolo”.

In realtà la vignetta era di Carletto Manzoni, ma il direttore era Guareschi. Il quale ebbe una ben più grave seconda esperienza con la legge in quanto pubblicò due lettere, una dattiloscritta e una vergata a mano, attribuite a De Gasperi (presidente del Consiglio): erano indirizzate agli anglo-americani ai quali si suggeriva di bombardare indiscriminatamente la periferia romana per mettere in cattiva luce gli alleati fascisti dei tedeschi e favorire così l’espulsione di questi ultimi dalla capitale. Il processo fu deplorevole: il Tribunale impedì l’autenticazione degli scritti (nel primo caso, la sola firma), non ammise alcune testimonianze, favorì De Gasperi grazie alle mene di un principe del foro di allora, l’Avv. Delitala. Guareschi fu condannato a dodici mesi di carcere, non si presentò in appello e alla fine scontò 409 giorni fra cella e arresti domiciliari in quanto si aggiunse l’aggravante del precedente reato contro Einaudi.

Non accettò il perdono e la grazia. E’ rimasto l’unico giornalista italiano a subire l’intero carico carcerario per una pubblicazione. La nuova esperienza, vissuta come sommamente ingiusta (e non si vede come potrebbe essere altrimenti), rese Guareschi fortemente amareggiato della vita. Lo splendido combattente contro il comunismo (ovvero quello pseudo-tale di Stalin) all’epoca delle elezioni per la ricostruzione del Paese, era ora un uomo rassegnato, disincantato, vinto. Era un nonno spaesato, chiuso sempre più in se stesso. Subì degli attacchi cardiaci ed uno di questi lo uccise a soli 60 anni nel 1968 nella sua casa di Cervia. Guareschi è stato un personaggio davvero singolare: schietto, semplice, sincero; un inguaribile sognatore di campagna, una mente pronta, una sensibilità non comune; una cultura essenziale, e l’ingenuo sognatore di una società sana, leale, rispettosa, solidale, fraterna, senza imposizioni di sorta.

La sua prosa è ammantata di tutto questo ed è arricchita da grande calore umano. La semplicità caratterizza gli scritti di Guareschi, sino a far sorgere il sospetto di un semplicismo dovuto ad una qualche carenza speculativa, che però non si sa se e sa quanto perseguita volontariamente. Lo scrittore emiliano dimostra di diffidare degli intellettualismi, si allontana dal cerebralismo, sposa il sodo delle situazioni, lo fa con una bonomia dietro la quale si cela un notevole affetto per l’essere umano, ma anche una scarsa fiducia per la sua bontà. Con “Don Camillo” si prende una specie di vacanza, durante la quale sognare una favola fatta di buone intenzioni sociali, persino solidaristiche. Guareschi sapeva che tutto ciò è (quasi) impossibile e mostra una sottile amarezza collocata sopra un buonismo appassionato e intelligente, d’una intelligenza naturale che induce il nostro scrittore a cullarsi in una remota speranza di autentica civiltà.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019