Henrik Ibsen

Henrik Ibsen

Henrik Ibsen

Dario Lodi


L’umanità (l’“humanitas”), di Henrik Ibsen (1828-1906) è fra le più notevoli dell’Ottocento.

Il Romanticismo la condiziona certamente, ma senza prevalere e così il materialismo imperante, in realtà autentica forza propulsiva nel secolo. Per la verità, e in buona sostanza, Ibsen ammira lo sprone romantico, mentre sul materialismo si concentra per finire con il criticarlo anche aspramente. I suoi drammi borghesi, soprattutto ”Spettri” lo dimostrano ampiamente. Gli è che la forza propulsiva in questione è praticamente una novità affascinante e insieme problematica, nelle menti più acute e responsabili. Il fascino è quello determinato da uno sviluppo impensabile delle possibilità umane, il problema sta nella direzione che prende questo sviluppo, e cioè una direzione ossessivamente lanciata verso un profitto costi quel che costi. Il drammaturgo non esita a mettere in scena menzogne e ipocrisie della classe borghese, il cui successo nasconde vergogne comportamentali al calor bianco.

Intorno alla critica sociale, per via della costituzione di una società quanto mai sbilanciata e quanto mai prigioniera dell’interesse volgare, si sviluppano il pensiero e l’impegno di Ibsen: egli intende richiamare l’attenzione dell’uomo su ciò che sta facendo l’uomo nuovo, quello intraprendente come mai nella storia, finalmente emancipato, e in modo serio ed efficace, dal conservatorismo feudale e dalla sottomissione religiosa.

Quest’ultima è strettamente legata al sistema, è temporale più che spirituale, e di fatto paralizza le capacità umane, costringendole ad una estaticità da imbambolamento.

Oltre la fede dogmatica

Ibsen è norvegese, viene da una terra protestante: i Protestanti sentono la presenza divina più dei Cattolici perché sono a tu per tu con il totem mentre i Cattolici godono dell’intermediazione ecclesiastica. La confidenza forzata non è vissuta come una fortuna, ma come un impegno non facile da onorare. Il Protestante di allora si trascina un timore di inadeguatezza sin dai tempi della Riforma, sentendosi in qualche modo orfano di Roma. D’altro canto, la lunga tutela romana non poteva essere cancellata con un semplice tratto di penna. Per chi non è religioso, come Ibsen, si tratta di sostituire due cose: quel famoso senso di inadeguatezza nei confronti della divinità e la conseguenza relativa consistente nella elevazione del freddo materialismo a fenomeno pari a quello religioso. Ibsen non condanna il materialismo, condanna il tipo di materialismo che ha sotto gli occhi. Che sia semplicistico è infatti evidente, che sia impreparato a creare progresso culturale e civile è altrettanto evidente. Che le sue energie si rivolgano a soluzioni effimere, elementari, è lampante. Che determini individualismo sfrenato è sicuro.

Ci si aspetta ben altro da un uomo uscito dall’Illuminismo: la delusione, in animi superiori è cocente. Si parlava di “Spettri”: sui quali si può aggiungere l’osservazione spietata del grande drammaturgo sulla pochezza degli individui intenti a salvare ed accrescere la proprietà, come se essa fosse la cura ideale per guarire da tutti i mali. Questa pochezza si rifrange sul problema esistenziale, allorché l’uomo si arma della sola volontà per liberarsi del passato di costrizione all’imponderabile. Ibsen con il suo dramma “Brand” mette in scena un personaggio che in buona fede crede di avere ragione del tutto adoperando la volontà a piene mani: ma la sola volontà assume il carattere di presunzione e quindi il personaggio perde, sentendosi costretto di rivolgersi a Dio per placare i propri problemi interiori. Ibsen non tifa per Dio, tifa per l’uomo che si ribella all’inconoscibile, ma nel contempo avverte quest’ultimo che occorre sacrificio ed impegno psicologico, oltre alla volontà, per svincolarsi dagli antichi, classici abbracci religiosi e regali, abbracci soffocanti, paralizzanti.

Il drammaturgo fa la stessa cosa, con altre articolazioni concettuali, con patos e ricchezza di sentimenti di stampo borghese, ma sublimati intelligentemente e responsabilmente, appassionatamente, nei drammi, sfioranti il melodramma, “Casa di bambola” ed “Edda Gabler”.

Entrambi si presentano come manifesto della liberazione femminile, ma il femminismo appare, poi, come un pretesto per la liberazione dell’umanità borghese dalle algide pratiche di vita che ha eletto a sistema(un po’ come nel caso di “Madame Bovary” di Flaubert).

Il secolo XIX è attraversato interamente da un perbenismo pruriginoso di chiara intonazione vittoriana. Si dice che la regina Vittoria avesse fatto ricoprire persino le gambe di alcune poltrone perché ricordavano troppo le gambe femminili.

Questo perbenismo era una parodia dei modi affettati della vecchia nobiltà e doveva indurre alla valorizzazione delle virtù primarie, ideali, della nuova umanità. Doveva, insomma, ammaestrarla.

Il sistema era abbastanza conscio della bassezza civile e culturale della classe borghese ed era intenzionato ad elevarla in modo adeguato, dato il compito cui essa era ora chiamata.

Il “motore” doveva essere presentabile, essere degno di rispetto e considerazione superiori al proprio “rumore”. Ci sarebbe dovuta essere anche della consistenza in tutto questo, ma questa consistenza non poteva essere raggiunta così come si schiacciava un bottone quando si produceva. E’ quello che Ibsen sottintende nei suoi drammi. Egli sente la scarsa consistenza del mondo nuovo, ma sente soprattutto la non volontà di colmare la lacuna se non incrementando le apparenze (ad esempio, l’arte del tempo si perde in produzioni seriali, imitanti il tardo neoclassicismo: sono gli oggetti “Biedermeier”).

Paradigmi ibseniani

Così, le donne che animano “Casa di Bambola” ed “Edda Gabler” sono esseri impreparati che si battono con coraggio ed incoscienza, in un mondo vile ed ambiguo, per raggiungere un risultato impeccabile. La delusione sta già nelle premesse, ma non viene presa in considerazione. La realtà porta queste eroine ad una disperazione palpabile (ecco l’elemento umano assoluto) e melodrammatica (la superfetazione degli effetti sgradevoli delle azioni compiute): una dicotomia dovuta allo sbilanciamento fra decisione di agire, come se si avessero le armi adatte, e possibilità del gesto, negato, in verità, da un coacervo di viltà e di ambiguità dettate da interesse, anche turpe, e puntellato artificiosamente con la speranza di una solidità purché sia.

Non facile e grandiosa l’iniziativa ibseniana di gettare il sasso in quello stagno non certo limpido, per farne affiorare il fetore (un fetore fatto anche di latitanza delle iniziative progressiste, di promozione dei concetti che sostengono adeguatamente la personalità umana: specialmente ora, che s’è promossa laica e comandante).

Ibsen va comunque oltre componendo il poema drammatico “Peer Gynt”, tratto da un’antica fiaba popolare, molto conosciuta in Norvegia. Questo andare oltre consiste nel tentativo ibseniano di analizzare sino in fondo la personalità umana.

Il tentativo è completo, in quanto l’analisi include tutti gli aspetti ponderabili e imponderabili degli eventi umani. Ma quelli imponderabili non contemplano affatto la necessità di una presenza trascendentale, per quanto nel poema faccia capolino la figura divina (ma è vista come una morale superiore da raggiungere con le sole forze umane), bensì sono concepiti come esiti di una fantasia tesa a colmare il tuttora inconoscibile. Ibsen tratta la materia del “Peer Gynt” quasi fosse un sogno ed è indulgente nei confronti dell’uomo, da lui valutato come ancora immaturo e nel contempo esigente come mai grazie al successo dell’intelligenza “fisica”, al muscolo “intelligente”. Nella disamina entra in gioco la considerazione della natura umana: Ibsen ha la tentazione di limitarla, come nella visione kantiana, ma ha anche quella di superarla (medesimo desiderio di Kant, più indiretto che diretto, però, nel filosofo), riconoscendo all’uomo potenzialità inespresse ben superiori al potere espresso. Non sapendo come esprimere ed anzi esaltare queste potenzialità, forse spaventato dall’osare apparentemente eccessivo, il drammaturgo norvegese dà al tutto la maschera di una narrazione trasognata, dove vari elementi possono convivere assieme e dove le allusioni hanno mano libera. Dove l’intero apparato conoscitivo e immaginativo dell’uomo, dove le sue paure ancestrali, i mostri del pensiero zoppicante e le speranze radiose, le reazioni istintive e quelle ragionate, hanno modo di manifestarsi liberamente, di sovrapporsi senza problemi, cercando una unità espressiva convincente per tutti.

Si tratta di un’impresa forse sovrumana e certo sovrumana in questa fase pionieristica dell’emancipazione dell’uomo: Ibsen ha il grandissimo merito di iniziarla, tracciando un segno indelebile verso il cammino dell’emancipazione vera, e quindi gli va perdonata la soluzione delle vicende del suo Peer Gynt, soluzione che vede l’eroe del poema domato dall’amore, cioè da qualcosa, alla fin fine, di irrazionale, di non gestibile in proprio.

Il poema è comunque splendido perché attraversato interamente da una passione sincera e serena, da un crescendo inarrestabile fatto di rispetto e di considerazione per la figura umana e da un incantamento, accettato e non subito, verso ogni cosa: per amore dell’esistenza. Il “Peer Gynt”, musicato stupendamente da Edvard Grieg, è una pietra miliare del teatro moderno, dell’arte moderna: è un importante passo in avanti della laicità, intesa come assunzione di coscienza dei problemi della vita, del mondo, da parte dell’uomo.

Ibsen crede alla laicità e combatte, vincendo, contro il tradizionale disagio dei protestanti verso l’allontanamento dalla protezione religiosa istituzionalizzata. Va oltre, tutto sommato con una fiducia che sarà contagiosa, come testimoniano le cinque opere accennate, forse le più suggestive (di certo le più popolari) fra le molte che realizzò il grande drammaturgo norvegese.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019