GIACOMO LEOPARDI: PESSIMISMO E TENSIONE VERSO L’INFINITO

Il pessimismo leopardiano deriva da una concezione meccanicistica della natura nella quale l’esistenza non è altro che un perenne ciclo di produzione e distruzione della materia dominato dalla cieca forza del caso. Tappa finale diventa quindi la morte, che incombe sulla vita privandola di ogni senso e significato. Risulta quindi vana la ricerca di ideali trascendenti e di fughe evasive dalla realtà, perché non esiste nulla oltre alla vita terrena. Tuttavia Leopardi si rende conto che l’aspirazione alla felicità risulta essere il più grande ed insopprimibile desiderio dell’uomo. Quindi egli analizza l’evoluzione dell’uomo e la sua capacità di giungere alla felicità e si accorge che la stagione più felice della vita umana è quella dell’infanzia in cui il fanciullo, privo di razionalità, è convinto che la natura lo abbia messo al mondo per dominare tutto quello che lo circonda. 


Dallo studio di Giacomo si poteva vedere l'edificio dove lavorava Silvia.

Questa convinzione, fondata sulla forza della fantasia e dell’immaginazione, proietta il ragazzo in un’attesa febbrile dell’età adulta, nella convinzione che essa coinciderà con la realizzazione definitiva della felicità. Questa si rivelerà con l’avvento della ragione, vero ed unico mezzo per conoscere le cose, e con essa il crollo degli “ameni inganni” e la rivelazione dell’”orrido vero” e l’approdo alla certezza che non esiste la felicità. Sembrerebbe quindi che la ragione sia l’unica responsabile della scoperta dell’infelicità e della caduta delle illusioni; invece Leopardi, dopo aver accusato la ragione, ribadisce la condanna della natura, unica responsabile dei mali dell’uomo, non madre benigna, ma crudele ed interessata solo alla propria sopravvivenza.

Nel “Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez” Leopardi mostra una situazione in cui ogni ideale ed ogni spinta a proseguire sembra essere fallace, però anche se la navigazione è dominata dalla noia e dal dolore nei due personaggi vive ancora un anelito di felicità ed un’illusoria ed insopprimibile speranza di raggiungere un giorno la terraferma.

Nella consapevolezza dell’assoluta vanità della vita Leopardi afferma e ribadisce il suo rifiuto totale del suicidio, per esempio nel “Dialogo di Plotino e di Porfirio” nel quale Plotino, un grande filosofo dell’antica Grecia, cerca di dissuadere il discepolo Porfirio dall’intenzione di uccidersi. Plotino (e con lui Leopardi stesso) è consenziente con le disperate conclusioni di Porfirio, tuttavia lo esorta a vivere, in nome di una saggezza più vera, più profonda, non fondata sulla ragione, ma su un senso dell’animo, che ci fa sentire uniti agli altri uomini, nostri compagni di pena, da un fraterno legame d’amore e di reciproca pietà. Il suicidio appare dunque al poeta, nonostante il suo pessimismo radicale, come un atto disumano, contrastante con la vita degli affetti in cui consiste la vera umanità.

Nello “Zibaldone” egli esprime il concetto di “infinito” come termine spiritualistico, rimesso in voga, anche sul piano della letteratura e dell’immaginario, dal Romanticismo. Egli lo paragona ad un’ansia, una tensione, uno “spasimo” che coincide con lo slancio vitale dell’individuo, lo identifica col principio del piacere e la brama assoluta di felicità che nell’uomo è fondamentale, illimitata e che urta contro ogni insormontabile ostacolo della vita e che spinge l’immaginazione a concepire un’idea di piacere infinito.

E’ quindi la mente che crea l’infinito che di per sé è privo di consistenza oggettiva, però l’intelletto, il sentimento e la fantasia concepiscono un’idea di infinito relativo, che Leopardi chiama “indefinito”, in quanto dà all’anima un’idea approssimativa ed inadeguata di infinito. Tuttavia questo indefinito lascia insoddisfatta l’anima, che si pente di non aver cercato l’assoluto e si trova in questa situazione di inappagamento, simile alla nostalgia romantica.

Caratteristica principale dell’indefinito risulta quindi essere il “perdersi”, l’”estasi”, alludendo così ad una dimensione diversa dal reale; di conseguenza l’infinito è immagine del “diverso”, del “vago”, dell’”incompleto” ed è lo spazio assoluto della poesia. Dunque l’infinito diviene una nuova dimensione della realtà, assurda, inconcepibile, eppure vera ma modificata e distorta dall’enorme potere dell’immaginazione.

Dopo la scoperta dell’”orribile mistero dell’esistenza” l’infinito e la sua inconsistenza si trovano a fare i conti con la gelida furia demistificatoria del “nulla” che rappresenta l’insanabile contraddizione tra la realtà limitata e l’aspirazione verso un’idea, un sogno, forse impossibile a raggiungersi.

Da questo scontro nasce la consapevolezza che l’infinito non è altro che il prototipo della nostra superbia che considera infinito tutto ciò che non riusciamo a raggiungere, quando in realtà nulla lo è davvero. Per questo il canto leopardiano diventa “poesia delle assenze”: la felicità inattingibile, la giovinezza perduta, la vita come angoscia del morire, l’amore sognato, la bellezza di una natura matrigna, le illusioni perdute, l’infinito come puro e vano slancio verso la felicità. E queste mancanze diventano vive e presenti nel rimpianto e nella poesia che le scopre come unica dimensione reale del cuore.

La ferma asserzione del nulla come unica finalità inesplicabile della vita, diviene una sorta di protesta totale, che si riscatta nella poesia come creazione e mezzo per far sussistere le esigenze profonde dell'animo, le illusioni, la vita sognata, tuttavia reale in quanto unico modo per l’uomo di attingere, in parte, l’impossibile felicità. Il nulla e l’assenza diventano anch’essi presenza viva nello “spasimo d’infinito” della mente e del cuore.

Il testo più noto nel quale le tematiche della vanità dell’esistenza e della limitatezza dei sensi sono più marcate è sicuramente L’infinito.

In questo componimento, che in parte si lega al sensismo settecentesco, il Leopardi sfrutta immagini naturali come pretesto per riflessioni personali, abbandonandosi alle sensazioni e alla contemplazione solitaria, descrivendo perfettamente ciò che si definisce “poetica del piacere”. Lo scatto immaginativo deriva dal confronto tra il limite naturale e concreto della siepe, vista anche come simbolo della vita circoscritta nel tempo e nello spazio finito, e lo scavalcamento di questo, quindi dal concreto si passa all’ultrasensibile.

Il limite-siepe diventa quindi il trampolino per il tuffo dello spirito nel mare dell’immaginazione, che così diventa la vera protagonista della poesia, come si capisce dal verso “io nel pensier mi fingo”: tutto il percorso è immaginato all’interno della fantasia dell’autore che lascia fluire liberi i propri pensieri, in pratica non c’è nulla di concreto e tangibile oltre la siepe.

L’Io al primo contatto con l’infinito si trova in difficoltà e sgomento, infatti “per poco il cor non si spaura”, poi però si annega nell’infinità dell’immaginazione fino a perdere la sua identità ed è così felice e soddisfatto, quindi la coscienza provoca infelicità mentre la totale perdita di identità permette all’uomo di fondersi totalmente con la natura e di provare sensazioni che vanno oltre il sensibile. Nell’ultimo verso le facoltà immaginative prevalgono su quelle razionali, ma questo non rappresenta un totale abbandono mistico, bensì il raggiungimento di un piacere autentico.

Il Canto notturno di un pastore errante rappresenta invece una visione più matura del rapporto uomo – natura, nel quale manca l’esperienza autobiografica ed il discorso si fa più universale. Qui l’uomo si trova in posizione negativa nel mondo a causa della presenza della natura, non cerca sublimazioni o idealizzazioni, ma parte dalle esperienze di vita quotidiana per porsi domande filosofiche. Il protagonista è un pastore nel quale il Leopardi vede l’ingenuità primitivo-filosofica che lo rende capace di sentire l’infelicità dell’esistenza senza i limiti e le barriere della società, inoltre il pastore si trova in stretto contatto con la natura e le sue più svariate manifestazioni.

Vengono analizzate le tematiche del rapporto tra vita e morte con la consapevolezza dell’inevitabilità del dolore umano ed è presente una critica alle religioni che professano una vita di speranza dopo una vita di dolori, alle quali il Leopardi contrappone la beffa del destino: una vita di sofferenze ed una morte senza redenzione. Il pastore cerca risposte alla proprie domande e un’alternativa all’insensatezza della sofferenza umana nella totale ignoranza delle pecore delle quali invidia la monotonia dell’esistenza e la mancanza di noia (Schopenhauer).

Trovando questa via insoddisfacente e inadeguata, intraprende la via del perfetto sapere della Luna, che rappresenta l’unico tentativo di aspirazione ultrasensibile ed ultraterrena presente in questo componimento, ma che risulta essere una vana ricerca, perché sempre ed in ogni luogo l’esperienza vince su tutto. Il pastore quindi ipotizza un giudizio universale nel quale indica la nascita stessa come condanna alla sofferenza, all’insoddisfazione e al dolore. Inoltre egli vede nella ragione l’unico mezzo per comprendere il disagio dell’uomo e grazie a questa egli contempla lo spazio sconfinato del mondo reale, rifiutando l’infinito creato dall’immaginazione ed il riscatto del “dolce naufragio” come nell’Infinito, ma prendendo coscienza della percezione costante di sofferenza.

“La Ginestra”, scritta nel ’36, rappresenta la fase conclusiva del pensiero leopardiano nel quale neppure l’immaginazione dell’infinito trasmette felicità e conforto al travagliato animo umano, ed esprime le tematiche definitive della sua concezione dell’uomo e della natura. Egli si rende conto che la battaglia contro la natura è già persa in partenza e quindi concepisce la poesia come mezzo di denuncia della condizione dell’uomo.

Di conseguenza addita il cattolicesimo e la fiducia nel progresso come vie errate per combattere la natura e vede come unico mezzo per opporsi all’insostenibile insensatezza dell’esistenza umana la solidarietà (versi 111 e seguenti). Quest’ultima, secondo l’autore, deve nascere dall’onestà di ogni individuo di confessare il male che regna nell’universo, senza incolpare i propri simili, ma unendosi agli altri contro la Natura “madre di parto e di voler matrigna”, chiamando a sé tutti gli uomini e costruendo un mondo fondato sull’amore fraterno da opporre al gretto materialismo e meccanicismo della natura.


http://www.vittorini.mi.it/tesine/Legnani/Leopardi.htm