La catarsi di Tommaso Landolfi

La catarsi di Tommaso Landolfi

Dario Lodi


Il racconto “La mattinata dello scrittore” di Tommaso Landolfi (1908-1979), contenuto nella raccolta “In società”, editore Adelphi, racchiude in pochissime pagine, l’universo di un letterato singolare, davvero insolito nel panorama italiano. Lo scrittore di Landolfi, quello contenuto nel racconto, passa da una noia apparente ad una decisione improvvisa ed inaspettata come se non ci fosse cesura fra le due posizioni, benché la seconda sia particolarmente drammatica. L’autore ha il pregio di non farla pesare, ha il merito di non enfatizzarla.

Si entra così, nel mondo landolfiano fatto di brevi ed incredule partecipazioni agli eventi, di qualunque natura essi siano, cavandone moderate impressioni di approvazione o disapprovazione: ma sono atteggiamenti più che comportamenti e rispondono ad una precisa, quanto remota, sensazione di inadeguatezza nei confronti della vita. I valori della stessa, umanizzati, sembrano, agli occhi di Landolfi, una sovraesposizione di deduzioni in fondo elementari, di bassa praticità. La sovraesposizione garantirebbe l’affido agli eventi di un’importanza che in qualche buona misura sostiene la figura umana, caricando la personalità dell’uomo di virtù assolute. Landolfi non si lascia prendere dall’illusione, dall’inganno (dall’autoinganno), ma in definitiva non si arrende a certa evidenza dei fatti, assumendo una posizione di osservatore e di critico, non precisamente bonario, sul fenomeno “uomo”. Le sue considerazioni sono sospese in una sorta di limbo, non è dato conoscerle in maniera esatta.

Di certo non si tratta di eventi né di personaggi messi in burla né di pretesti per mettere insieme una teoria spocchiosa sulle cose della vita e sulla possibilità moralistica di averne altre. Non si tratta neppure di nichilismo, sebbene qualche sospetto possa sorgere sulla tendenza ad accettarlo come unica, autentica possibilità espressiva: perché se c’è nichilismo, ebbene c’è qualcuno che lo prospetta ed allora addio allo spirito ultimo di questo atteggiamento tipico di certo esistenzialismo.

Landolfi, fosse stato convinto di una negatività in tutto ciò che si fa e si pensa, non avrebbe usato della finissima ironia per imbastire le regole di un gioco che solo apparentemente gli sfugge di mano. E’ lui stesso che se lo fa sfuggire, assistendo impavido all’effetto che fa, prima di tutto su se stesso. Non è preventivato, è un fatto che si verifica nello sviluppo della storia. Lo scrittore cui si riferisce nella storia è se stesso che vive con esteriore noncuranza e con interiore tormento cui non sa dare nome, ma che intuisce come estremo censore di un comportamento che non getta radici.

La scena è quella di un teatrino messo su alla bell’è meglio dove i burattini sono fatti di carne ed ossa e si muovono muovendo da sé i fili che in qualche modo li tengono legati al mondo. La regia vorrebbe incitarli ad una recitazione migliore, ma infine si arrende ad una sceneggiata con tanto capo, presunto, e poca coda, applaudendo svogliatamente e in modo rassegnato alla fine, che forse meglio sarebbe fosse stata anticipata in modo autarchico e drastico. Giù la tenda e tutti a casa, anche se la casa e la rappresentazione della fine vera e propria, cioè di nessun inizio.

Il fatto di non dare troppa importanza ad una sorta di reprimenda intellettuale sul fare e disfare la propria esistenza, ammesso ne esista una commendevole secondo principi superiori, che francamente appaiono inafferrabili (ma che si potrebbero, chissà, acchiappare), consente a Landolfi di pacificare la propria pretesa speculativa e di lasciarsi andare a ghirigori narrativi, dentro e fuori la consistenza dei personaggi, che ingentiliscono gli interventi e li distraggono da un rigore legato alla significazione di ciò che si dice e si fa, introducendo una capacità compassionevole di notevole portata per tutto quanto.

Landolfi sta molto attento alla coerenza espressiva che mette in atto quasi con naturalezza ed evita qualsivoglia ridondanza: è essenziale, sintetico e allo stesso tempo non sbaglia un colpo. Tutti vanno a bersaglio come se fosse inevitabile e giusto. Lo scrittore, ovvero lui che si trasfigura nel personaggio narrato, lavora per sottrazione, raggiunge l’anima delle cose. Non insegue conclusioni, sebbene concluda: lo fa con una leggerezza dentro la quale è condensata un’amarezza cosmica, tenuta a bada con lucida ed intelligente, sensibile, fatica, nella speranza, non dichiarata, di una qualche catarsi.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019