LA LETTERATURA D'OC E D'OIL

LA LETTERATURA D'OC E D'OIL

Inquadramento storico


Tutto l'alto Medioevo, nella parte occidentale dell'Europa, è stato un periodo di analfabetismo: l'unica cultura esistente era quella ecclesiastica, che si esprimeva in latino (diverso da quello classico, sia nella sintassi che nel vocabolario). Le uniche, significative, figure d'intellettuali, in occidente, furono quelle di Cassiodoro, Boezio, Paolo Diacono e Liutprando di Pavia; tutti gli altri scrittori vanno considerati teologi in senso stretto e non arrivarono mai ai livelli dei teologi bizantini.

Il latino veniva usato come strumento di discriminazione sociale, sicché la cultura restava sostanzialmente orale, espressa in una lingua assai diversa dal latino classico; al massimo la si sviluppava per immagini (l'iconografia, i mosaici e gli affreschi nelle chiese), che andavano comunque spiegate.

La cultura greco-latina generalmente veniva conservata nelle biblioteche dei monasteri ed era letta da pochi intellettuali, prevalentemente chierici (peraltro quella in lingua greca risultava in stato di abbandono, poiché la chiesa romana aveva preso a concepirsi, già sotto i Longobardi, come una struttura politica e non voleva avere rapporti di sudditanza col basileus bizantino, per cui avvertiva la chiesa greco-ortodossa come una rivale).

Quando in Francia, subito dopo il Mille, nasce la letteratura volgare (scritta cioè non in latino), la motivazione fondamentale era quella di fare un favore alla nobiltà di corte, onde dimostrare ch'essa non era un ceto dedito esclusivamente alle conquiste territoriali, per pura sete di potere. Era anche un ceto dotato di sentimenti, di generosità, di valori umani e cristiani, e quando conquistava qualcosa, lo faceva solo per difendere la fede religiosa, la chiesa, che, a sua volta, tutelava le classi più umili o più deboli. Anzi, le conquiste non erano più l'attività principale, in quanto l'aristocrazia poteva semplicemente dedicarsi all'amore cortese, quello per una donna, da amare o da liberare da chi la teneva prigioniera o la insidiava.

La letteratura cortese nasce appunto con lo scopo di dimostrare che i costumi di una classe rozza, nata per guerreggiare e per campare di rendita sfruttando il lavoro dei servi della gleba, s'erano ingentiliti. Questo il mito che gli scrittori (generalmente chierici) vollero diffondere nella Francia basso-medievale. L'aristocrazia, la cui attività era già largamente screditata agli occhi della nascente borghesia e che ovviamente non trovava alcun consenso presso i lavoratori della terra, pensava di riconquistare credibilità attraverso una finzione letteraria, che trovava assai pochi riscontri nella realtà.

Il fine ultimo, infatti, restava sempre quello: conquistare territori altrui; cosa resa possibile, a quel tempo, sia con le crociate contro i musulmani della Terra Santa (ma anche contro i pagani del Nord, come attestano le crociate nei Paesi Baltici), sia con le persecuzioni antiereticali, interne alla stessa Europa.

La letteratura cortese esprime, in forma edulcorata, le esigenze di conquista soprattutto di quella parte di nobiltà rimasta esclusa dalla spartizione delle terre avvenuta a partire dalle invasioni barbariche e che si era consolidata con due fondamentali trattati: il Capitolare di Quierzy, dell'877 (che sanciva l'ereditarietà dei grandi feudi) e la Constitutio de feudis, del 1037 (che sanciva l'ereditarietà dei feudi minori).

Quindi, quando si parla di "letteratura cortese", ci si deve soprattutto riferire alla piccola nobiltà, a un'aristocrazia di nome più che di sostanza, di diritto più che di fatto, cioè in sostanza i cadetti, i cavalieri al servizio di qualche potente, gli avventurieri in cerca di fortuna, i mercenari, i nobili decaduti o quelli che hanno accettato la carriera ecclesiastica senza avere alcuna vera fede, e che ora scrivono testi che per quel tempo erano sicuramente licenziosi, ma anche quelli che hanno assunto, al servizio di qualche signore o sovrano, un ruolo amministrativo inferiore alle loro aspettative.

Questo ceto ha bisogno di riscattarsi anche agli occhi della stessa nobiltà d'alto rango, chiusa nella propria torre d'avorio, e lo fa, unendo alle motivazioni d'ordine economico-politico, quelle, del tutto formali, di natura etico-religiosa e persino sentimentale, attraverso un nuovo strumento comunicativo: la letteratura nella lingua romanza francese, che quella volta era detta d'OC (nel sud della Francia) e d'OIL (nel nord). Tale letteratura, in questo regno, ha come target prevalente la nobiltà di corte, maschile e femminile, residente nei grandi castelli dei contadi rurali, ma tende a diffondersi anche presso le città.

Dopo il Mille esisteva solo un modo per arricchirsi, restando nobili, in una società che si stava progressivamente imborghesendo e i cui valori religiosi erano entrati profondamente in crisi: combattere qualunque forma di eresia anti-cattolica. Di qui le crociate contro i movimenti pauperistici interni alla società feudale (quella contro gli Albigesi porrà addirittura fine alla letteratura provenzale e alla lingua d'OC!), e contro i cristiani ortodossi dell'impero bizantino, contro gli islamici, i pagani e naturalmente gli ebrei, cioè contro tutti quanti non volevano sottostare alla volontà del papato. Le crociate servono alla piccola nobiltà (ma verranno sfruttate anche dalla grande, che cercherà di dirigerle) per espropriare beni altrui sotto il pretesto della fede religiosa, con l'obiettivo finale di poter condurre una vita parassitaria, basata sulla rendita, terriera e non, in competizione con quella più produttiva della borghesia commerciale e artigianale, che investiva anche in attività manifatturiere e bancarie.

Le crociate della nobiltà cattolica iniziano nell'XI sec. e, in un certo senso, non avranno mai fine, salvo il fatto che a condurle sarà la stessa borghesia (specie a partire dalla scoperta dell'America), animata anch'essa da ideali religiosi (protestantizzati), ma per metterli più che altro al servizio di uno sfruttamento produttivo di risorse economiche altrui. La stessa conquista del Nuovo Mondo, compiuta da una Spagna tutta feudale, sarà il canto del cigno di un'epoca che aveva fatto il suo tempo e che doveva lasciare il testimone a protagonisti più scaltri e spregiudicati, il cui colonialismo non doveva affatto limitarsi a garantire una vita lussuosa e dispendiosa, ma doveva piuttosto porre le fondamenta di un inedito sviluppo capitalistico dell'Europa.

L'ipocrisia manifestata sul piano politico-militare, allorquando si tende a giustificare l'eccidio di massa di civiltà o semplicemente di comunità difformi dall'istituzione cattolico-romana e latina, si manifesta anche sul piano culturale, quando in letteratura si fa di una donna astratta e idealizzata, inevitabilmente posta al di fuori di un regolare rapporto coniugale, un ideale irraggiungibile, nei cui confronti si è persino disposti a sacrificare la propria vita. Il cavaliere combatte per due cause nobili (o meglio, fatte credere tali dalla fiction letteraria): l'idea religiosa di un impero universale in cui tutti debbano riconoscere la funzione del papato; l'idea di un angelo del focolare domestico, cioè di colei che, non avendo a che fare con la brutalità delle azioni armate, conserva intatta la propria purezza. Il cavaliere è, in tal senso, un uomo sfortunato, privo di una regolare famiglia e non amato da chi vorrebbe amare.

L'erotismo trattato in maniera poetica è assolutamente un'invenzione maschile e nell'Europa feudale si deve farlo risalire alla poesia lirica dei trovatori provenzali del XII secolo. La letteratura volgare viene considerata "profana" (licenziosa) proprio per questa sua carica sensuale, benché l'aspetto platonizzante sia molto evidente. Questa è una contraddizione di non poco conto, che va ad aggiungersi a quella vista sopra, secondo cui da un lato si propaganda l'immagine di un nobile dall'animo buono e generoso, mentre dall'altro lo si vede artefice di sanguinose campagne militari contro nemici cercati a forza. Ora invece si afferma che il cavaliere vuole difendere delle convinzioni religiose tradizionali nell'Europa cattolica, ma nel contempo lo si presenta in una veste quasi libertina, accecato dalla passione amorosa. Il nobile appare come un personaggio interiormente lacerato, la cui fede cristiana è solo un guscio vuoto di contenuto.

La stessa idea di amore sembra destinata all'insuccesso. L'amore è più che altro una forma di desiderio inconscio, è la fantasia erotica di un intellettuale frustrato, anche perché la donna ch'egli sogna non ha riscontri reali. Ciò forse si spiega pensando che gran parte di tale letteratura venne prodotta da chierici di scarsa fede religiosa, detti "vaganti", privi di una vera sede e di sostentamento stabile, a volte fuggiaschi dai conventi originari e bisognosi di protezione da parte delle corti. Vi sono anche "studenti goliardi", falliti negli studi universitari, che esaltano uno stile di vita basato sul piacere, sulla irriverenza verso le istituzioni e che propongono una letteratura d'evasione, rivolta anche a un pubblico femminile e che andava a sostituire i miti classici dei poemi omerici. D'altra parte il fatto che in questa letteratura si esalti l'amore extra-coniugale non deve farci pensare che nella realtà non si fossero effettivamente allentati i vincoli coniugali, i quali, peraltro, presso i ceti magnatizi, erano quasi sempre frutto di intese patrimoniali.

Il chierico che nel basso Medioevo usa il volgare scritto non ha certo la stessa fede del chierico che nell'alto Medioevo usava il latino. Questa nuova lingua (che nel parlato era detta "romanza") propone, in forme letterarie evolute, taluni argomenti che la chiesa istituzionale non avrebbe avuto difficoltà a definire "volgari" nel senso in cui noi oggi intendiamo questa parola. Indubbiamente tale letteratura rappresentava una forma di laicizzazione della concezione religiosa della classe nobiliare, pur nella difesa ad oltranza della fede cattolica. Gli scrittori dovevano essere, necessariamente, dei chierici non accademici, non allineati in tutto e per tutto con l'etica e la prassi ecclesiastica, anche se si guardavano bene, per non incorrere nell'accusa di eresia, dall'usare i propri poemi per contestare i dogmi della chiesa o per criticare l'operato degli alti prelati. La loro operazione culturale piaceva alla nobiltà, che si vedeva per così dire rinverdita attraverso il mito e l'esaltazione di virtù che probabilmente - essendo una classe parassitaria - non aveva mai avuto.

In Italia questa operazione avviene con un certo ritardo, perché le città erano già ampiamente dominate dalla borghesia, la quale aveva valori molto diversi da quelli della nobiltà. Queste città erano nate col consenso della chiesa, che aveva cercato di servirsene contro gli interessi degli imperatori e dei grandi feudatari. La borghesia, per questa ragione, non aveva bisogno di produrre una letteratura anticlericale, a meno che essa stessa non assumesse valori anti-borghesi, come appunto nel caso dei movimenti pauperistici, in cui confluiscono piccoli nobili indebitati o diseredati, operai salariati, chierici contestatori e, appunto, borghesi pentiti.

In Italia (ma anche nelle Fiandre), dove la stessa nobiltà, andando a vivere nelle città, si stava progressivamente imborghesendo, la letteratura che la borghesia apprezzava di più era soprattutto quella sui lunghi viaggi commerciali (specie quando questi comportavano significative scoperte geografiche); interessava anche tutta la letteratura avente un fine pratico: la navigazione, gli usi e i costumi delle popolazioni straniere, le lingue diverse dal latino e dal greco, l'astronomia, la medicina, il diritto, ecc.

In Francia (ma anche in Germania, in Inghilterra, in Spagna e in Russia) era invece la nobiltà, residente nei contadi rurali, che cercava di laicizzare le proprie concezioni di vita e che guardava con sufficienza e distacco le operazioni commerciali, imprenditoriali e finanziarie della borghesia.

Gli inizi della letteratura francese

Le due branche principali della lingua romana parlata in Francia, mescolatasi con quella franca dei barbari, erano il romano vallone o lingua d'Oïl, delle province a nord della Loira, e il romano provenzale o lingua d'Oc, delle province meridionali. Accanto a questi due idiomi vi erano altri dialetti minori (picard, normand, français, bourguignon). Fu solo dopo il trionfo della dinastia capetingia che cominciò a dominare il francese, l'idioma dell'Ile-de-France, prevalendo anche sui dialetti meridionali (languedocien, gascon, limousin, provençal).

Alla lingua d'Oïl si deve, tra la fine dell'XI e il XIII secolo, l'affermazione della letteratura epico-cavalleresca francese che, diffusasi nelle corti nobiliari, si divideva in tre grandi cicli di chansons e di romans, di circa un'ottantina di componimenti, quasi tutti anonimi:

  1. il ciclo francese, con le imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini;
  2. il ciclo brettone, che ha per protagonisti il re Artù e i cavalieri della Tavola rotonda (in Bretagna);
  3. il ciclo classico, ove vengono raccolte le leggende greco-romane e orientali.

Dei poemi del ciclo francese, scritti in versi raggruppati in strofe che venivano recitati o declamati o addirittura cantati, il migliore è la Canzone di Orlando (Chanson de Roland), che narra la morte del paladino carolingio a Roncisvalle. Qui i valori fondamentali sono l'entusiasmo religioso, l'amor patrio, la fedeltà cavalleresca, l'eroismo e il sacrificio di sé, il senso dell'onore, la lealtà e la generosità, anche nei confronti dei vinti. Il testo autentico fu trovato solo nel 1837 e se ne è attribuita la paternità, senza molte certezze, a Turoldo, un cantore normanno dell'XI secolo. Nel ciclo francese sono state collocate anche le Canzoni di Garin de Montglane e quelle di Doon de Mayence.

Il ciclo brettone è invece a carattere eroico e insieme amoroso, in cui l'analisi dell'animo degli innamorati svolge un ruolo fondamentale; sicuramente la leggenda più famosa è quella di Tristano e Isotta, ma vanno ricordati altri poemi di re Arturo (Lancillotto, Ivano, Perceval o il racconto del Graal, il mago Merlino, Galvano...). Al paladino che muore combattendo contro gli infedeli subentra il bel cavaliere che compie grandi imprese per conquistare il cuore della donna amata. La leggendaria figura di re Artù, un capo del Galles, visse nel VI secolo e lottò contro gli invasori Sassoni: i cavalieri li riuniva attorno a una tavola rotonda perché fra loro vigesse l'eguaglianza. Da quella corte partivano in cerca di avventure, per tornarvi poi a raccontarle. Il più importante autore di questi romanzi resta Chrétien de Troyes.

Furono opere così significative che, ad un certo punto, la lingua d'Oïl venne adoperata in ogni genere letterario. Ovviamente il pubblico che più amava questi racconti era quello colto femminile, che poteva anche leggerli privatamente.

Nella letteratura cortese l'amore è considerato come una passione travolgente, sensuale, profana, estranea alla logica del matrimonio, ma senza essere volgare, triviale. D'altra parte gli autori (spesso chierici) sono convinti che l'amore vero non possa che essere al di fuori o al di sopra del rapporto coniugale, non avendo a che fare con interessi materiali. Il vero "nobile" è quello d'animo, che in questo caso coincide col perfetto amante, il quale però si strugge per il fatto di non poter realizzare appieno il proprio desiderio (in quanto la donna ama un altro o deve sposare una persona facoltosa, oppure vi sono impedimenti di natura militare). Di qui l'atteggiamento ambivalente nei confronti dell'oggetto del proprio desiderio, insieme amato e odiato.

Canzoni di gesta di questo genere si possono incontrare anche in Spagna (p.es. Cantare del Cid campeador, in cui si parla di Rodrigo Diaz, intento a combattere i saraceni nel proprio paese), in Germania (p.es. Canzone dei Nibelunghi, in cui si parla di Sigfrido, un personaggio del tutto mitologico), in Russia (Canto della schiera di Igor, il più importante monumento della letteratura russa del XII sec.).

Ognuna di queste Canzoni ha una salda coerenza tra le varie parti, per cui si pensa non siano frutto di più autori o che non siano state scritte in momenti diversi. In esse non si parla mai della vita in generale ma di grandi guerrieri o di principi, di corti fastose, di costumi di gente colta. Gli intellettuali erano della stessa corte di cui dovevano esaltare i valori, ricorrendo alla finzione.

Tali Canzoni vennero diffuse da giullari in tutta Europa, non solo presso le corti e lungo le vie che portavano a santuari famosi, ma anche nelle piazze, in cui ci si poteva esibire cantando e poetando, ballando e componendo musica, scrivendo e recitando, facendo acrobazie e giochi di prestigio.

Non minor fortuna ebbe, nei secoli XI-XIII, in lingua d'Oc, la poesia trovadorica, detta anche "gaia scienza", dedicata esclusivamente all'amore, nelle forme espressive più varie: canzone, ballata, tenzone, pastorella... Poeti raffinati furono Guillaume de Poitiers, Jaufré Rudel, Bernard de Ventadorn, Bertrand de Born. Fu la crociata contro gli Albigesi (catari) che disperse gli ultimi rappresentanti dell'arte trobadorica.

Man mano che la borghesia si emancipa dalla sudditanza ai valori aristocratici, sorge, nei secoli XIII-XIV, una letteratura che si oppone alla poesia cavalleresca: dai fabliaux (favolette satiriche improntate a un realismo spesso sfacciato) ai poemi allegorico-didattici, come p.es. il Romanzo della Volpe, i cui personaggi sono animali: la volpe (eroina dell'inganno e dell'ipocrisia), il lupo (simbolo della violenza e della frode) ecc.

Decisamente importante è anche il Romanzo della Rosa, diviso in due parti, di cui la prima è stata scritta da Guillaume de Lorris, mentre la seconda, di quarant'anni dopo, è di Jean de Meung. E' un'opera allegorica dedicata all'arte amatoria, con la differenza che il de Meung si rivolge alla grande borghesia commerciale e manifatturiera, nemica dell'amore cortese aristocratico e favorevole a una filosofia di vita realistica e materialistica, a un diritto basato sull'uguaglianza, all'amore come potenza generatrice di vita, alle forze della natura.

In Italia si recepì soprattutto la letteratura provenzale e, in parte, quella del ciclo bretone, più adatta alle nostre corti signorili, che, essendo sempre divise tra loro, non erano in grado di poter aspirare ad avere degli eroi militari che, con le loro gesta, avessero saputo imporsi sui propri nemici. Nessuna grande realtà signorile in Italia fu mai in grado di prevalere sulle altre, almeno sino all'unificazione nazionale, in cui ebbe la meglio la dinastia sabauda, di origine francese. L'abilità dei nostri principi locali veniva esercitata soprattutto sul piano diplomatico.

Vedi anche Letteratura epico-cavalleresca

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019