L’impeto di Indro Montanelli

L’impeto di Indro Montanelli

Dario Lodi


Giornalista e scrittore sono due cose diverse. Il primo diffonde le notizie, il secondo le interpreta. La stessa differenza esiste fra cronista e storico. La maggior parte dei secondi fa in realtà parte dei primi. Colpa anche della scuola, del nozionismo. D’altro canto, la scuola ha un compito d’istruzione primario, dà indirizzi culturali. Buoni docenti riescono a trasmettere questo principio, esortando all’approfondimento.

Il nostro mondo, in genere, non è fatto per promozioni culturali serie. Il pragmatismo, esaltato dalla macchina industriale, ostacola lo sviluppo della conoscenza più ampia: è la concretezza a dominare e dunque solo ciò che è pratico, che è usabile, si direbbe con le sole mani, gode di attenzioni. Queste attenzioni inducono ad una conoscenza approssimativa, esclusivamente utilitaristica. La conoscenza superiore si riduce ad un addobbo, un ornamento. Ricorda certe posizioni aristocratiche, di cui la piccola borghesia coglie lo stemma. Ovviamente tutto questo produce stagnazione intellettuale, impedendo l’evoluzione di almeno tre quarti del cervello.

Indro Montanelli (1909-2001) non apparteneva alla piccola borghesia, ma a quella medio-alta che ha contribuito a fare l’Italia. Parliamo di un ceto sociale legato ai forti poteri, ad un certo punto deciso, al pari di altri nelle stesse condizioni di promuovere una società migliore. Che vuol dire società migliore? Dovrebbe voler dire una società di pari, di gente cioè con gli stessi diritti e gli stesi doveri, ma soprattutto con le stesse possibilità di emergere, non per comandare, bensì per porre le proprie doti al servizio della civiltà. Si ricorre, generalmente, a spiegazioni frettolose per ammettere che il significato di società migliore è proprio quello: ma un conto è l’ideale, un conto è la realtà. Le condizioni popolari, storicizzate, “obbligavano” quei signori a rimandare il programma perfetto per adottarne, però, uno “in progress”.

Ma la storica ignoranza del popolo, con il conseguente comportamento para-umano, non era molto diversa dalla storica protervia dei potenti, causa, naturalmente, della medesima conseguenza comportamentale. Cambiando il mondo con la rivoluzione industriale, questa para-umanità umanità dirigenziale non poteva che trasformarsi in un comodo paternalismo, ammantato di opportuna preoccupazione sociale (per mondare la coscienza) quanto di severo impegno nell’esortare maturità intellettuale, magari con un aiuto disinteressato (?).

Montanelli prestò la sua penna di giornalista, eccezionalmente limpida, a questa promozione culturale. Pensiamo ai suoi numerosi libri di storia, realizzati con qualche aiuto (Mario Cervi, Roberto Gervaso, Marco Nozza). Sono libri di grande successo, per quanto poco amati dagli storici di professione. Questo scarsissimo amore non è dovuto al metodo seguito anche dal Nostro, un metodo di basso profilo che si riassume nella formula “guarda adesso come ti educo il pupo”, bensì dall’indebita invasione di campo. Montanelli è da elogiare perché ha usato semplicità laddove – negli scritti tradizionali di storia – trionfano pedanteria e retorica.

D’altro canto, il giornalista fiorentino non ha contribuito a far amare la conoscenza, ma ha fornito delle sentenze, così come del resto fanno i suoi molti detrattori. La differenza fra le due posizioni sta nel fatto che Montanelli rende gradevoli le descrizioni e accattivanti i personaggi, quasi sia, il suo fare, un balletto molto ben condotto e assai intonato. Chi legge Montanelli e non ha dimestichezza con altre letture (esistono ottimi libri di storia, privi di pedanteria e di retorica) è portato tuttavia a ritenere che la storia sia proprio come la descrive lui. In realtà, la sua trattazione storica è priva di spessore ed è animata da caricature di personaggi. Tutto questo è dovuto al problema della diffusione: un libro agile, di un autore conosciuto come ottimo giornalista (e quindi teoricamente vicino alla gente), sarà facilmente accettato dalla gente comune. In più la svezzerà, seppure con discrezione. Per non farla pensare troppo (perché, sia detto fra noi, sarebbe inutile, in quanto la gente comune è dotata di una mente inferiore). Per dilettarla impartendole una lezione utile. Utile, prima di tutto, all’operazione commerciale.

Lui però era in buona fede. Va detto. Lo dimostrano la sua irrequietezza e la sua impetuosità, nel nome di un’autonomia sganciata da ogni compromesso. Nato relativamente benestante, divenne relativamente ricco per proprie capacità, sgomitando al momento opportuno. Memorabili i suoi articoli sulla guerra civile di Spagna, quelli sul fronte albanese e greco (manipolati per far piacere al regime), i resoconti dalla Finlandia invasa dalla Russia. Di colpo, Montanelli fu nemico di ogni dittatura, lui che era stato un fascista convinto (era stato volontario nella vergognosa guerra d’Africa voluta da Mussolini dove aveva fornito prova di razzismo – molto bonario, ma certo non lo giustifica – trattando la sua amante minorenne come merce). Per il suo improvviso spirito libertario rischiò la fucilazione.

La casa di Montanelli fu il “Corriere della Sera”, salvo un’interruzione dovuta all’incompatibilità con il direttore Piero Ottone. L’interruzione comportò la nascita del “Giornale Nuovo” (poi solo “Giornale”) e, dopo il litigio con Silvio Berlusconi (nuovo editore della testata), la nascita di un altro quotidiano, “La voce” (in onore di Prezzolini), dalla vita effimera. Il giornalista confermò quanto detto più volte in precedenza e cioè che non era nato per possedere o dirigere un giornale. Non si capisce perché arrivò a fondarne addirittura due e a dirigerli entrambi.

Da un punto di vista politico, Montanelli è stato un disastro, proprio grazie alla sua impetuosità e al suo desiderio, quasi infantile, di giustizia e di equità (cose scritte sulla carta: pratica alla quale lui, salvaguardando la propria posizione privilegiata, non si sottrasse per niente). Fu fascista, liberale, monarchico, democristiano, socialdemocratico. Si oppose ferocemente al comunismo (in realtà allo stalinismo) e non si stancò di dispensare pillole di saggezza, quasi fosse uno sciamano.

Cose intollerabili nel suo modo di fare, la non accettazione del dialogo, la pretesa della ragione assoluta, il disprezzo (quanto si voglia velato) per l’opinione altrui, la superficialità. Cose accettabili, l’impegno incessante, per quanto solitario, la sincerità, il decoro intellettuale. Cosa entusiasmante: la prosa imbattibile, chiave per un’emancipazione espressiva da affidare al futuro.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019