I ghirigori di Giovanni Papini

I ghirigori di Giovanni Papini

Giovanni Papini

Dario Lodi


Personaggio discutibile e discusso, Giovanni Papini (1881-1956) mette tutti d’accordo (o giù di lì) sulla qualità della sua scrittura. Si tratta di una capacità letteraria acquisita, molto più che innata. Papini conquista ogni parola e ogni concetto: la fatica è sospettata, non è avvertita. Lo scrittore maschera abilmente le difficoltà, dovute ad incertezze di fondo: si è al cospetto di uno scrupolo per nulla comune. Papini teme di non essere all’altezza dell’impresa culturale che sta compiendo. Tutto questo specialmente nei suoi libri forse migliori, fra i numerosissimi titoli, e cioè Stroncature, Strane storie, Figure umane, Racconti di gioventù, Il diavolo, Il libro nero. Non è dello stesso tenore la Storia di Cristo in quanto scritto in punta di penna.

La lettura dei libri citati come esemplificativi  la personalità di Papini, consentono di apprezzare un autore concentrato, riflessivo, e ostinato nel trasmettere il meglio dei propri pensieri, delle proprie sensazioni, attraverso la parola scritta, recepita come il mezzo per eccellenza per trasmettere il significato delle cose.

Lo scrittore privilegia nettamente questo concetto, anche a sfavore di una trattazione profonda del tema.

Papini scrive come dipingesse. Per lui conta la forma, una forma che non deve essere tuttavia decorazione, sfondo. Le sue pagine si fanno nervose, ma poi sono controllate da un rispetto per la speculazione intellettuale che è assoluto.

Altro discorso è il suo comportamento quotidiano, improntato a grande fisicità, molto più che ad impegno mentale. Papini litiga con Prezzolini, polemizza con Croce e Gentile, è guerrafondaio; Papini briga con i nazionalisti di Enrico Corradini, Papini si dà alla teosofia con Giorgio Amendola (fondano la rivista Anima, chiusa un anno dopo). Poi si professa nichilista, scrive un pamphlet, Le memorie d’Iddio, pieno di livore per la tolleranza religiosa nei confronti del male nel mondo. Lo scrittore, più tardi, incaricherà la figlia Viola di reperire le copie rimaste per distruggerle. Riprende e rafforza la sua adesione al confronto armato, pensando ad un malthusianesimo da dilettante, sul livello del peggiore D’Annunzio.

A sprazzi sanguigni (magari troppo numerosi), Papini si fa religioso, si spreta e ritorna alla religione. Intanto se la prende con Sem Benelli (definendolo la ciabatta smessa di D’Annunzio), un mediocre romanziere, e mette alla berlina l’ex amico Emilio Cecchi, un elzevirista raffinato, anche se molto accademico e sostanzialmente incapace di grandi suggestioni (però gradevole da leggere e gloria nazionale del tempo). Fa qualcosa di più grave nel 1938, firmando il manifesto della razza, come fosse stato un Telesio Interlandi qualsiasi.

Mussolini, con la promulgazione di questo manifesto, colse di sorpresa gli stessi nazisti, imbastendo, per farli felici, un obbrobrio civile agghiacciante, e imponendolo (fortunatamente con scarso successo) ad un’Italia maestra di umanità da secoli. Negli stessi anni, Einstein, ad una domanda circa la razza di appartenenza, domanda obbligatoria alla quale rispondere per l’eventuale accoglimento del soggetto negli Stati Uniti,  rispose: “razza umana”. Dunque, il razzismo non era una esclusiva europea, ma gli americani dimostrarono ben altra tempra e ben altra intelligenza nel trattare l’assurdo argomento. Mussolini, invece, non ebbe né l’una né l’altra: e così il nostro povero Papini.

Lo si definisce povero perché sicuramente lo scrittore non era per niente collegato mentalmente con le iniziative che prendeva. Le sue uscite erano istintive. Poi, quasi regolarmente, si pentiva della decisione presa. Il suo anticlericalismo, infatti, si sciolse come neve al sole nel 1943, allorché si fece terziario francescano nel convento della Verna, di francescana memoria.

Sopportò con coraggio una fine ingloriosa (era stato colpito da una terribile malattia). La sua personalità, davvero spiccata (e potenzialmente addirittura ben altro di quella che fu) non s’indebolì un istante.

Va ricordata e apprezzata la sua prosa ottenuta con applicazione e con fiducia: Papini brilla in parecchie sue pagine per originalità e per determinazione. Sarebbe potuto diventare un gigante delle lettere, ma di sicuro non è un nano. L’istintività, non bene modulata, in generale, l’ha un po’ tradito. Il personaggio Papini non ha funzionato come avrebbe dovuto e potuto. Il sostanziale suo disinteresse per le questioni sociali e umane lo hanno spesso indotto a strategie superficiali, sbrigative e banalmente, vergognosamente, machiste. Ma qui si può affermare che probabilmente Papini non si rendeva conto delle sue sparate. Gli interessava emergere, non affermare un principio. Ci riuscì poco perché gli eventi lo superarono. Ma la sua penna rimane incisiva e sotto molti aspetti istruttiva. Il Papini autentico sta in questa realtà letteraria e insieme espressiva in maniera intrigante, fondamentalmente intelligente e stimolante novità, sia estetiche sia contenutistiche. Non di più: ma è molto, anzi moltissimo.

Dello stesso autore:

Testi di Giovanni Papini


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10-02-2019