Il dolore di Cesare Pavese

Il dolore di Cesare Pavese

Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.

I - II - III

Dario Lodi


Questo scriveva nel suo diario Cesare Pavese (1908-1950) pochi giorni prima di suicidarsi. Causa scatenante del suicidio fu la rottura del rapporto con Constance Dowling, attrice di seconda fila di alcuni film italiani fra il 1947 e il 1950 (poi tornò in America in cerca di fortuna sempre nel mondo del cinema, inutilmente, è cercò, ancora inutilmente, di legarsi a Elia Kazan, che era già sposato; morirà a quarantanove anni nel 1969 forse anche lei suicida). Pavese aveva lasciato delle poesie in un cassetto, fra cui Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, dedicata alla donna e uno scritto con cui chiedeva perdono e pregava di non fare pettegolezzi.

Il provinciale Cesare Pavese (era nato a S. Stefano Belbo, nel cuneese) formò il proprio carattere andando a vivere in città, Torino, dove studiò nel mitico liceo D’Azeglio e all’università del luogo, dove fece amicizia con Leone Ginzburg, Giulio Einaudi, Norberto Bobbio e altri. Ebbe quindi guai con il fascismo, dopo averne presa per forza la tessera (cosa di cui si pentì sempre), e finì per un anno al confino in Calabria. Tornato a Torino, riprese il suo lavoro di traduttore. Scoprì la letteratura americana.

Il nostro scrittore non era insensibile al fascino femminile. Al confino c’era finito per una donna, Tina Pizzardo, con cui aveva amoreggiato e che poi l’aveva respinto. Nel 1940 ebbe invece una storia con Fernanda Pivano, che alla fine pure lo respinse. (La Pivano farà conoscere la letteratura americana al pigro mondo letterario italiano: questo mondo ne resterà sconvolto. Pavese, come abbiamo visto, viene prima della Pivano nella nuova impresa letteraria e fu forse il primo ad adeguarsi alle suggestioni americane.)

L’espressione dello scrittore piemontese è complessa perché la sua opera è corposa. Si vuole dire che i molti titoli rispecchiano una sorta di tentativo isolato, unico, di cogliere il concetto perfetto. Questo tentativo è caratterizzato da una prosa molto elaborata e molto concreta, dove ogni pensiero ha il compito di trasformarsi in qualcosa di granitico, d’incorruttibile, come fosse la testimonianza di una dichiarazione inoppugnabile, di una costatazione fatta ad opera d’arte.

La dicitura “ad opera d’arte” ha qualcosa di artigianale, di manuale, che ben si addice alla prosa e alla poesia di Pavese. E’ come se lo scrittore componesse dei graffiti con le unghie e pretendesse da se la bravura di incidere la realtà, di marchiarla a fuoco. Quindi, e qui viene la difficoltà più vera, chiedere a tutti di apprezzare il buon lavoro fatto.

Il buon lavoro fatto è spesso fatto bene davvero, nel senso che la frase proposta possiede l’interezza del concetto, del sentimento: essa contiene un’opera di scavo molto attenta, per quanto appassionata e quindi tendente, per sua natura, all’enfasi, molto attenta, dunque, e perfettamente in linea con i canoni espressivi più avanzati: un dipanarsi ordinato del pensiero e del sentimento fra mille inganni, fra mille sirene che tirano da una parte o dall’altra: più razionalità, più spiritualità e magari il nulla come compenso.

Pavese non si fece incantare dal dannunzianesimo ed è un decadentista pentito quanto pronto al riscatto: è la letteratura americana a fornirgli lo strumento del riscatto. Cos’è la letteratura americana del tempo? E’ una cosa senza fronzoli, una letteratura che va al sodo. Espressioni dirette, pochi aggettivi, niente giri di parole, ovvero la rivalutazione dell’idea, dell’emozione personale contro le frasi fatte. Ma è anche fonte di una grossa responsabilità espressiva che le tradizioni accademiche del Bel Paese faticano ad accettare. E’ una questione psicologica. L’escamotage, infine, è dato dall’assunzione estetica del nuovo modo di scrivere, di essere.

E’ un’assunzione che Pavese non può concepire. Se ne serve, ma sino ad un certo punto. Sino a che non si rende conto della superficialità con cui si scrive all’americana, non certo per colpa degli americani, ma per colpa, grave, della modestia intellettuale di cui si è in possesso: per lo più, nell’espressione, dei copioni da seguire, delle indicazioni, dei precetti, delle rassicurazioni sclerotizzate prive di sangue, per quanto virili (insomma, muscolari).

Pavese, a un certo punto, si ritrovò con uno strumento di cui non riusciva a fidarsi, per quanto predicasse chiarezza (ma erano, quelli, nuovi snodi letterari più che nuovi procedimenti concettuali), rispetto al molto che aveva nell’animo: infine, qualcosa di magmatico che non aveva possibilità di svolgimento per carenza esplicativa essenziale. Forse, ed ecco la reazione, un rifiuto dell’ignoranza avrebbe causato il riottenimento del proprio valore intellettuale. Il rifiuto come distacco dal mondo e assunzione in cielo. O il nulla come sberleffo accettato. O il dolore, lenito dalla morte, per l’impossibilità di gridare la propria inadeguatezza assoluta. Oppure ancora il dolore estremo per qualsiasi mancanza di aiuto.

Dello stesso autore:

Testi di Cesare Pavese


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10-02-2019