Dal pettegolezzo al romanzo

Dal pettegolezzo al romanzo

Livio Scorolli

Riflessioni sul pettegolezzo: l'embrione del romanzo


1. Il pettegolezzo 1.1. Verso una rivalutazione 1.2. Sulla funzione evolutiva 2. Il piacere dell'immaginazione 2.1. Il vaso, il dolce e la pistola 2.2. Distorsioni della realtà 3. Gli intrecci 3.1. I protagonisti, agenti intenzionali 3.2. Quattro casi 4. Pettegolezzi o storie? 5. Uno schema evolutivo 6. Una storia, un modello 6.1. La storia documentata 6.2. Applicazione del modello 6.3. Esplicitazione dell'ipotesi 7. L' informazione e i pettegolezzi 8. Il male del pettegolezzo


1. Il pettegolezzo

1.1. Verso una rivalutazione

Conosciamo bene il significato della parola per esperienza diretta – per aver fatto pettegolezzi, per essere stati oggetto di pettegolezzi – e quasi superflue sono le due seguenti definizioni:

"Discorso malizioso e indiscreto su qualcuno, specialmente sulla sua condotta" (Zingarelli).

"Chiacchiera inopportuna o indiscreta o malevola" (Devolto–Oli).

Indubbiamente è una comunicazione linguistica disdicevole e tendente a travisamenti del vero: una comunicazione che non produce cultura, anzi si direbbe che ne deteriori i valori positivi. E sempre più spesso il termine pettegolezzo è sostituito dall'inglese gossip, come se si volesse sterilizzarne il significato, mondarlo dell'accezione negativa.

Poiché l'intento di questo lavoro è la rivalutazione del pettegolezzo come peculiare forma di discorso, si eviterà di usare il termine gossip che funzionerebbe come un'anonima etichetta su una sorta di vaso di Pandora. Il termine italiano è sicuramente più pregnante, contornato dai cosiddetti sinonimi: chiacchiera, diceria e, ancora, calunnia, voce, maldicenza, malignità, mormorazione, ciarla, indiscrezione, insinuazione.

Non essendo mai stato capace, chi scrive, di provare il piacere del pettegolezzo, la lettura di "La scienza del piacere" di Paul Bloom (2010) è stata illuminante.

L'autore in una capitolo si occupa dei piaceri dell'immaginazione

"che si sono impossessati dei sistemi mentali adibiti ai piaceri del mondo reale" (Bloom, p.152)

e particolare rilevanza attribuisce alle storie, intese come narrazioni di contenuto realistico o fantastico, più o meno brevi, condivise con altri individui nella comunicazione sociale, o privatamente elaborate, intime e segrete. Esse esercitano un indubbio fascino su noi tutti e hanno una funzione fondamentale nello sviluppo delle facoltà di rappresentazione del mondo. Il passaggio dalle storie ai pettegolezzi è già nel testo di Bloom che riconosce a Robin Dunbar, antropologo evolutivo, di aver attribuito al pettegolezzo una essenziale funzione sociocomunicativa (Bloom, p. 165).

1.2. Sulla funzione evolutiva

Infatti Robin Dunbar in Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue (1998) fa risalire alle origini del linguaggio una modalità comunicativa che la cultura alta tiene in dispregio.

Sicuramente originale è la sua ipotesi che il linguaggio nella specie umana si sia evoluto in sostituzione della pulizia sociale, impraticabile per gruppi troppo numerosi, che possono estendersi fino a un massimo di 150 individui. Tra i primati non–umani la pulizia del pelo serve a mantenere unito il gruppo favorendo le relazioni sociali; allo stesso modo il linguaggio assolverebbe la funzione di coesione e di controllo. Infatti mediante il linguaggio la specie umana si scambia informazioni utili e mantiene saldi i legami familiari e affettivi. E ciò che qui assume rilevanza è che, per Dunbar, il pettegolezzo avrebbe la essenziale funzione di scambio comunicativo, in quanto consente di sapere chi agisce, con chi interagisce e per fare cosa.

Che alle origini del linguaggio vi siano i pettegolezzi che gli individui si scambiavano (informazioni, impressioni sul mondo circostante, motivate da timori, suggestioni, lepidezze, dicerie ecc. ) attribuisce sicuramente maggiore dignità a un tipo di comunicazione da sempre svalutata.

Ma per accomunare i pettegolezzi e le storie è opportuna qualche ulteriore considerazione. È il pettegolezzo una narrazione? Sicuramente lo è, anche se sui generis; ed eccone un esempio.

– Sai che Evaristo ha vinto una bella somma?
– Mai abbastanza per compensare le perdite. Tina è esasperata.
– Tu dici? Carmelo la consola.

Prende così forma una storia maliziosa e indiscreta, condita con falsità e malanimo, ma pur sempre una storia, breve o brevissima, perché non ha bisogno di spiegazioni, dimostrazioni e prove, e lascia immaginare all'interlocutore ciò che più gli piace. È una storia aperta socialmente condivisa, dove l'autore, come nell'esempio, può essere un collettivo.

È ovvio che storie non sono solo i pettegolezzi, ma i pettegolezzi sono storie. Estendere a tutte le storie le peculiarità del pettegolezzo non è corretto. Infatti nel pettegolezzo vi sono uno o più soggetti reali implicati nelle vicende narrate e chi le narra bersaglia con giudizi di valore, impliciti o espliciti, il protagonista o i protagonisti. Si ritiene però essenziale puntualizzare che la connotazione negativa del pettegolezzo non deriva esclusivamente dalla natura dei giudizi (ostili, avversi, inopportuni): già essere sulla bocca di altri, e fuori da ogni possibilità di controllo del discorso, crea nell'essere umano ansie e angosce. Vale a dire che nella sua accezione il termine pettegolezzo accoglie le ansie e le angosce relative a una condizione esistenziale: ognuno può essere oggetto di una comunicazione in cui non può interferire.

Senza fare di tutta l'erba un fascio, non potendosi estendere alle storie le peculiarità dei pettegolezzi, si dovrà comunque riconoscere che i pettegolezzi svolgono le stesse funzioni culturali e adattive che Bloom attribuisce alle storie.

L'essere umano ha la capacità di trarre piacere dal raccontare/ascoltare storie, quindi esse acquisiscono valore e possono svolgere le loro funzioni sociali (Bloom, p. 166). Specificamente:

a) consentire l'evoluzione del linguaggio e il perfezionamento delle competenze linguistiche,

b) comunicare informazioni,

c) esercitare l'individuo a pensare cosa accade nella mente degli altri,

d) far acquisire competenze sociali,

e) inculcare valori ed esercitare il controllo sociale,

f) aiutare a trovare amici o attirare partner,

g) preparare mentalmente ad affrontare situazioni spiacevoli.

2. Il piacere dell'immaginazione

2.1. Il vaso, il dolce e la pistola

Se il lettore sta dubitando che il metodo di analisi tenda ad uscire dal seminato, si fa notare che gli argomenti di questo paragrafo e del prossimo non sono divagazioni: sono chiavi indispensabili per comprendere aspetti comuni al pettegolezzo e al romanzo.

E ora per chi, confidando nella mente razionale, attribuisce all'immaginazione un carattere epifenomenico, inessenziale nell'esperienza, si ritiene utile citare lo stesso Bloom che riferisce studi di Paul Rozin:

"... le persone spesso si rifiutano di bere il brodo da un vaso da notte nuovo di zecca, di mangiare un dolce a forma di feci, o di puntarsi una pistola scarica alla tempia e premere il grilletto" (Bloom, p. 166).

e commenta che questo accade perché

"... la nostra mente è parzialmente indifferente alla distinzione tra quello che riteniamo reale e quello che sembra reale o immaginiamo sia tale" (Bloom, p. 166).

Parzialmente indifferente: infatti proviamo piacere ad assistere ad una rappresentazione teatrale o godiamo di surrogati di esperienze reali.

"L'immaginazione è come un reality, un comodo sostituto quando il vero piacere è inaccessibile, troppo rischioso o faticoso da ottenere" (Bloom, p. 164).

Il successo – l'affermazione di sé – dà sicuramente piacere, ma per raggiungerlo bisogna progettarlo, goderne nell'immaginario, assaporarlo, altrimenti è improbabile che ci si impegni per raggiungerlo. E se poi non lo si raggiunge resta il deludente piacere di averlo immaginato. O anche, immaginandosi la realtà diversa da come effettivamente è, ci si può persuadere di averlo raggiunto. Si sa che i meccanismi mentali possono raggiungere un elevato grado di finezza mediante complicate razionalizzazioni . Cosa non può l'immaginazione!

Si potrebbe approfondire il discorso con ciò che accade in amore o nel sesso, dove gli inganni dell'immaginazione concedono piaceri altrimenti impossibili. O anche nell'universo della religione: i piaceri del paradiso appartengono all'immaginario religioso e determinano intense emozioni, anche se sono piaceri che nessuno ha mai esperito. Se l'individuo non fosse capace di immaginare il paradiso (e l'inferno) cosa ne sarebbe delle religioni?

Torniamo ai pettegolezzi e alle storie.

Ci piace immaginare, fantasticare, sognare, non solo in attività individuali e solitarie, anche nelle relazioni sociali. Sappiamo distinguere l'immaginario dal reale e tuttavia ci abbandoniamo alle nostre rappresentazioni, individuali o collettive, consapevolmente.

O meglio parzialmente consapevoli perché, se l'immaginazione fosse inessenziale e epifenomenica, anche il piacere che procura sarebbe una finzione, quando invece le emozioni, dati i riscontri fisiologici, sono assolutamente reali. E ciò che immaginiamo ci suscita emozioni simili a quelle che proveremmo in situazioni reali, anche se in una scala ad un livello inferiore (ad es. un evento tragico raccontato e lo stesso evento vissuto nella realtà).

2.2. Distorsioni della realtà

Vi è una folto pubblico che trascorre il proprio tempo davanti allo schermo ad ascoltare i pettegolezzi di trasmissioni innominabili, invece di curare i propri rapporti con amici reali. È una modalità di procurarsi piacere troppo spesso stigmatizzata senza riflettere con spirito critico su altre trasmissioni, seguite da un pubblico definito colto e impegnato, ma che sono anch'esse pettegolezzi. Gli effetti, ad esempio di dibattiti politici, nella vita quotidiana sono più immaginari che reali; valutare con cognizione gli argomenti trattati (economia, finanza, amministrazione pubblica) richiede elevate competenze che solo una minima percentuale degli spettatori possiede; non raramente vengono bersagliati personaggi pubblici, derisi, criticati sbeffeggiati con argomenti di basso profilo. Con piacere guardiamo tali trasmissioni impegnate e poi con altrettanto piacere ne parliamo in una comunicazione sociale reputata competente e informata. Quanto spesso tale comunicazione è pettegolezzo camuffato? Si dice, si dice e nulla accade di ciò che si dice: accade altro. E, ciò che più conta, invece di agire come cittadini impegnati e responsabili, si vive del perverso compiacimento di raccontare e amplificare le malefatte, gli errori e l'ipocrisia di chi ha una visione del mondo diversa dalla propria.

Il piacere delle storie sta deformando il senso della realtà. Le chiamiamo storie, o discussioni di politica, e spesso sono solo pettegolezzi.

3. Gli intrecci

3.1. I protagonisti, agenti intenzionali

Bloom, nel saggio citato, dà notevole rilievo agli intrecci, come se da soli riuscissero a dare una struttura narrativa ai pettegolezzi e alle storie, in cui i vari personaggi svolgerebbero il ruolo di attori. Per una spiegazione più soddisfacente sarebbe stata necessaria un'approfondita ricerca, di fatto iniziata senza sapere bene cosa cercare. Casualmente, tra i pochi documenti consultati, ci si è imbattuti in un'intervista a Michael Tomasello, direttore del Max Planck Institute per l'antropologia evolutiva. Tomasello sostiene che il linguaggio è una forma di intenzionalità condivisa e per noi esseri umani gli altri sono agenti intenzionali che perseguono degli scopi (http://www.filosofia.it/multimedia/ intervista–a–michael–tomasello).

I protagonisti dei pettegolezzi e delle storie sarebbero allora agenti intenzionali e non semplici attanti, agenti di azioni indicate dal verbo. Vale a dire che consideriamo l'agire dei protagonisti motivato da fini, palesi o reconditi. Ecco che gli intrecci delle storie non scaturirebbero dall'immaginazione di chi le racconta: gli intrecci sono possibili perché i personaggi vivono dell'intenzionalità che loro attribuiamo in quanto rappresentano esseri umani che vivono in una data cultura.

Nel pettegolezzo su Evaristo proposto come esempio, il protagonista ha il vizio del gioco e gli vengono attribuite le intenzioni e i comportamenti di chi ha il vizio del gioco; a sua moglie le intenzioni e i comportamenti della moglie delusa e stanca dei deprecabili comportamenti del marito. Un soggetto di una cultura in cui non si pratica il gioco d'azzardo, probabilmente, avrebbe difficoltà a comprendere il dialogo e il senso della storia, pur conoscendo la lingua dei parlanti: avrebbe difficoltà a rappresentarsi le intenzioni dei personaggi del pettegolezzo.

Gli intrecci sono strutture narrative in cui i protagonisti esprimono un agire intenzionale; sono strutture che si ripetono sui modelli dei comportamenti umani ricorrenti.

Si direbbe che tutto ciò che nell'esperienza dell'essere umano suscita emozioni e sentimenti può costituire e generare storie; ma così non è, perché l'interesse scema rapidamente se un intreccio non rende la storia meritevole di essere raccontata e non solo comunicata come semplice informazione: meritevole di essere raccontata in quanto vi si attuano intenzioni, espresse o supposte, di esseri umani che interagiscono.

È essenziale chiarire il concetto. Un decesso, una vincita al lotto, ma anche un matrimonio, non diventano storie per il fatto di essere eventi di rilevanza sociale: senza un intreccio saranno non più che informazioni.

3.2. Quattro casi

Gli intrecci sono semplici strutture narrative che corrispondono a rappresentazioni psichiche collegate a specifiche emozioni (vergogna, ansia, gelosia, invidia, paura, preoccupazioni e ossessioni, ecc.), ma richiedono particolari condizioni.

Caso 1 – Un decesso per cause naturali evoca la paura della morte, ma non diventa una storia; a meno che il coraggio o la disperazione in cui familiari e amici vengono coinvolti non generino una rappresentazione meritevole di essere narrata. Se invece il decesso è per avvelenamento indotto, la minaccia che l'altro può essere per l'io sollecita storie con intrecci più o meno complessi.

Caso 2 – Una vincita al lotto da parte di un conoscente può suscitare invidia e, per ciò che vi è di casuale, finisce lì. Diventerà una storia se il vincitore smarrisce – ancora un evento casuale – il biglietto. Se invece il biglietto viene rubato le intenzioni dei protagonisti generano un intreccio e la storia è sicura.

Caso 3 – Un matrimonio non è un evento casuale; tuttavia in quanto rituale convenzionale può non suscitare interesse. Ecco però che una qualsiasi circostanza interferisca con la rappresentazione convenzionale genera un intreccio e la storia diventa meritevole di essere raccontata.

Caso 4 – Nel tradimento di un amico (che ad esempio supponiamo ci abbia messo nei pasticci per togliersi lui dai guai) non vi è nulla di casuale o convenzionale e diventerà sicuramente una storia.

Altre ipotesi di intrecci: alleanze, complotti, successi e insuccessi, vendette corteggiamenti riusciti o falliti, sotterfugi sessuali, preoccupazione per i figli, occultamenti e rivelazioni, peregrinazioni e, attingendo all'esperienza, l'elenco può essere da ciascuno a piacere esteso.

4. Pettegolezzi o storie?

Riepiloghiamo i punti trattati:

1) i pettegolezzi sono storie in cui i personaggi appartengono alla realtà e, come tutte le storie, sono evolutivamente funzionali;

2) i pettegolezzi, come le storie, stimolano i piaceri dell'immaginazione;

3) nei pettegolezzi, come nelle storie, si realizzano intrecci che sollecitano l'immaginazione.

Come nelle storie. Allora perché nell'ipotesi che si sta elaborando si dà rilevanza al pettegolezzo? Perché il pettegolezzo non è una storia già confezionata, che chi ascolta apprezza come prodotto della propria cultura. Il pettegolezzo è una storia partecipata, vissuta direttamente e in cui, sia chi narra che chi ascolta, investono la loro immaginazione e rivelano la loro visione del mondo.

Nei pettegolezzi, più che nelle storie confezionate, i valori soggettivamente riconosciuti e personalmente vissuti si esprimono con le sfumature che ciascuno individualmente si concede. Nelle storie confezionate non sono ammessi quegli adattamenti rivelatori invece consentiti dai pettegolezzi: adattamenti che si manifestano come approvazione, disapprovazione o condivisione, che si evincono dalle specifiche forme linguistiche che l'io narrante adotta e da come intesse le vicende.

Come esempio si pensi a un pettegolezzo in cui siano coinvolti due amanti: una persona che definiamo bigotta tenderà a raccontare e adattare la storia in modo diverso - con diversi valori di riferimento - rispetto a un'altra che definiamo libertina e un eventuale tradimento sarà narrato in modo diverso dal bigotto e dal libertino.

Nei pettegolezzi i valori vivono e si diffondono forse in modo più efficace e istruttivo che nei comportamenti.

5. Uno schema evolutivo

Con i prospetti che seguono si cercherà di tracciare per grandi linee uno schema evolutivo che vada dai pettegolezzi delle società illetterate fino al romanzo.

Sarebbe forse più corretto parlare di modelli, invece che di schema evolutivo, perché nulla esclude che il modello peculiare di società con elevato grado di civilizzazione possa convivere con modelli propri di società con un più basso grado di civilizzazione. Chiariamo il concetto.

Nelle quotidiane relazioni informali l'esperienza comunicativa nelle società più evolute presenterà una più vasta la gamma di temi trattati, ma le leve della comunicazione (trasferimento di informazioni, affetto, gelosia, curiosità, sicurezza, sessualità, stima e rispetto, invidia, risentimento, ecc.) non saranno molto diverse rispetto alle società illetterate. L'uomo civilizzato vive rapporti comunicativi che possono essere molto simili a quelli vissuti in primitive forme di società, soprattutto se si considerano 1) i fondamentali bisogni, 2) le universali emozioni e passioni, 3) l'assenza di pensiero scientifico (quando non necessario o ignorato).

Illetterate 1A Illetterate 1B

Con la SCRITTURA le storie hanno
strutture narrative pių complesse e organiche
forme estetiche pių fascinose e coinvolgenti

Letterate 1A Letterate 1B

6. Una storia, un modello

6.1. La storia documentata

Per mettere a fuoco l'ipotesi in discussione utilizzeremo come modello la storia della monaca di Monza: anche se tutti la conoscono, diamo alcune essenziali informazioni storiche.

La giovane nobile Marianna de Leyva (1575–1650) entra in convento e, dopo regolare noviziato, nel 1591 compie la professione, divenendo suor Virginia. Che fosse destinata ad esser monaca fin dalla nascita non è confermato dai documenti, mentre è certa la volontà del padre di sottrarle l'eredità materna. Affabile, istruita, lodata da tutti, le viene conferito l'incarico di maestra delle educande.

Suor Virginia cede al corteggiamento di Gian Paolo Osio, giovane nobile monzese; dalla relazione, di cui sono complici altre suore, nascono due figli. Una giovane conversa scopre la relazione e minaccia di renderla pubblica; lo scellerato Osio uccide la conversa e altre testimoni. Della tresca vengono a conoscenza le autorità politiche e religiose (card. Federico Borromeo); si cerca inutilmente di soffocare lo scandalo.

Il processo contro Osio e i suoi complici si conclude con condanne a morte. La sentenza, nel processo contro suor Virginia e le sue complici, come normali prassi sottoposte a torture nel corso degli interrogatori, condanna le monache ad essere murate vive (1609).

Il cardinale Borromeo definirà suor Virginia uno "specchio di penitenza"

6.2. Applicazione del modello

Ora riesaminiamo la storia applicando lo schema, in particolare i modelli 1/B e 2/B.

1 – Storie raccontate per la strada (1/B).

Sono storie passate di bocca in bocca: pettegolezzi in cui, chi li ascolta e chi li diffonde, realizza le forme di piacere di cui si è detto.

I monzesi, e non solo, si sono raccontati nel loro dialetto storie, cominciando con: "Ho sentito dire che in quel convento...", "Anche a me hanno detto che..." , "Dicono che la Signora...", "È un nobile di Monza, è lui che...", "Al processo la strega...".

Ovviamente non è possibile documentare queste storie perché appartengono – nel senso di narrate e vissute – alla cultura orale.

2 – Storie raccontate da amici, parenti, conoscenti (1/B).

Sono storie raccontate da chi è informato su fatti e protagonisti: anche se più complete e strutturate non corrispondono alla verità storica perché chi racconta conosce solo alcuni aspetti e nelle vicende è personalmente coinvolto. Rispetto al punto 1, va aggiunto che il ruolo svolto nella vicenda induce a orientare le storie in base al personale interesse.

Non è possibile documentare nemmeno queste storie perché anch'esse appartengono alla cultura orale.

L'uso della scrittura determina notevoli cambiamenti.

3 – Atti processuali e ricerche storiche

Le vicende della nobile Marianna de Leyva sono state ricostruite da storici (il primo Giuseppe Ripamonti nel 1643) studiando documenti e atti processuali.

Il fine di queste ricerche è la verità storica, accertata con i metodi delle discipline storiche. Non sono storie, nel senso di cui qui ci stiamo occupando: le emozioni e le passioni dei personaggi non interessano lo storico, se non per ciò che si riflette sui fatti documentati.

4 – La storia narrata dal Manzoni (2/B).

Il Manzoni, nella vicenda della monaca di Monza non tiene conto dei documenti storici, anzi deliberatamente travisa la verità su persone e fatti. Impiegando in modo eccelso l'arte della scrittura, si pone come fine il piacere estetico, il coinvolgimento del lettore in intrecci narrativi elaborati e verosimili, dando vita a personaggi dalla personalità complessa, come complessa è la natura umana.

Altre storie della Monaca di Monza sono state scritte (anche opere teatrali e cinematografiche): per tutte valgono le seguenti riflessioni.

6.3. Esplicitazione dell'ipotesi

Sembrerà insensato confrontare il pettegolezzo con la pregevole narrazione del Manzoni. Tuttavia, se si riflette senza pregiudizi, si vedrà che il piacere che la storia del Manzoni induce nel lettore è affine al piacere del pettegolezzo, perché condividono:

A – il piacere di usare la lingua (la parola) per comunicare;

B – il piacere dell'immaginazione; cioè della simulazione mentale di situazioni che generano emozioni anche profonde;

C – il piacere dell'intreccio; cioè di strutture narrative che corrispondono a rappresentazioni psichiche collegate a specifiche emozioni;

D – l'effetto liberatorio; non certo nel senso dell'effetto catartico che Aristotele attribuisce alla tragedia o che Freud attribuisce alla rievocazione delle esperienze traumatiche, ma nel senso che, mediante la parola, si rappresentano le umane passioni liberandole dal loro essere originariamente espressioni biochimiche del corpo. È evidente tuttavia che, mentre nel romanzo la narrazione, grazie alla mediazione della scrittura, rimanda all'immaginario dell'autore, nel pettegolezzo vi è un coinvolgimento diretto e personale di chi racconta e di chi ascolta.

In assenza dei suddetti elementi nessuna storia avrebbe senso.

Rispetto ai pettegolezzi dei contemporanei di suor Virginia nel testo del Manzoni in più si hanno:

E – una struttura narrativa complessa che richiede un maggiore impegno delle facoltà psichiche (intelligenza e memoria);

F – personaggi curati nella personalità e nei comportamenti in modo tale da rivelare la poliedrica natura umana;

G – sentimenti ed emozioni più profondi, esteticamente più elaborati e coinvolgenti;

H – un uso raffinato della lingua che consente piacevoli rappresentazioni mentali (da un punto di vista estetico anche ciò che è tragico è piacevole).

Schema riassuntivo

Ovviamente non si vuole dimostrare che il romanzo nasca come evoluzione narrativa del pettegolezzo. L'esempio fatto lo evidenzia, data la distanza tra il tempo degli eventi storici e il tempo della stesura de "I promessi sposi".

La storia del Manzoni – è l'ipotesi che si desidera sostenere – scaturisce dagli archetipi narrativi del pettegolezzo e il piacere che la lettura provoca ha la stessa natura del piacere che si prova nel fare pettegolezzi.

Quindi rispetto alla psiche dell'individuo il pettegolezzo costituisce l'embrione che può evolvere – grazie all'intelligenza e all'affinamento estetico – nel complesso immaginario del romanzo.

7. L' informazione e i pettegolezzi

Prima di concludere sembra interessante estendere il discorso alle informazioni e alle notizie giornalistiche.

C'è poco da dire sull'informazione giornalistica che decade in pettegolezzo. Quando l'esposizione dei fatti non è utile al lettore per comprendere l'attualità politica, economica e sociale, e è solo gossip, l'informazione è una forma apocrifa di romanzo.

Sembra invece utile distinguere l'autentica informazione giornalistica che è il risultato di ricerche e indagini. L'intenzione del giornalista è di raccontare fatti di cronaca attenendosi alle verità che ha personalmente accertato. Ebbene, indipendentemente dalle intenzioni di chi fa informazione, chi legge può trattare la notizia come una storia che non contribuirà a comporre un'opinione informata sui fatti se manca quella elaborazione dell'intelligenza che porta alla integrazione delle conoscenze. Anche in questo caso il lettore consuma l'informazione che, non per volontà del giornalista, sarà vissuta come una forma apocrifa di letteratura. E si pensi a quanti lettori vivono fatti di cronaca, come affascinanti romanzi, brevi e di modesto impegno intellettivo.

8. Il male del pettegolezzo

Il male non è nel pettegolezzo, anche se può fare del male.

Rappresentarsi la realtà in cui si vive è un processo spontaneo del pensiero che, quando non ha strumenti concettuali per rielaborare le proprie ipotesi sul mondo, inevitabilmente annaspa nell'errore e asseconda il pregiudizio; e diffonde l'errore e il pregiudizio.

Le storie che l'uomo racconta sono pregne di errori, pregiudizi e fantasie, di cui non è responsabile se inconsapevole; ma sarà in ogni caso responsabile del malanimo con cui si rappresenta e diffonde pettegolezzi.

Il male è nell'animo di chi racconta o ascolta pettegolezzi e storie.

Il male – il marcio – è nella cultura che non educa al pensiero scientifico e non si cura del senso etico ed estetico dell'individuo, cioè nella cultura che lascia che si raccontino storie e pettegolezzi senza preoccuparsi di correggere l'errore e il pregiudizio.

Ed è così che anche la nostra storia – il nostro vissuto – si disgrega nel pettegolezzo e su noi stessi ci inventiamo storie e pettegolezzi.


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Bibliografia essenziale

– Bloom Paul, La scienza del piacere, Il Saggiatore, Milano 2010.

– Dunbar Robin J.M., Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue, Longanesi, Milano 1998.

– http://www.filosofia.it/multimedia/intervista–a–michael–tomasello


L'articolo in PDF č disponibile nel sito dell'autore, alla sezione Testi.

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Registrato il: 13/03/2012 – Pubblicato il: 14/03/2012


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