POESIE IN LIBERTA'


FABIA GHENZOVICH

Fabia Ghenzovich è nata a Venezia dove vive.
Ha ricevuto riconoscimenti e premi ed è presente in numerose antologie nazionali.
Suoi testi si trovano nella rivista “Le voci della luna”, nella rivista “Poesia” per competenza di Roberto Carifi , nella rivista “Il Segnale”, “Inverso”rivista padovana e”Il tetto”.
Nel marzo 2007 ha pubblicato per la Joker edizioni il libro “Giro di boa”, presentato alla Mondadori a Venezia.
Ha partecipato alla prima Biennale di poesia “Officina della percezione” premio Lorenzo Montano–2004 a Verona, e nel 2005 al Festival-Verona poesia.
E’ interessata alla poesia e alle sue possibili interazioni e contaminazioni tra i linguaggi dell’arte e in particolare con quello musicale, come nel caso di “Metropoli”, testi e performance musicata in stile rap, con più rappresentazioni a Venezia, Mestre, Padova e Milano.
A Venezia, per la giornata mondiale della Poesia 2007, al teatrino Groggia, è stata curatrice di un evento di poesia, performance e installazioni, cui hanno partecipato le poetesse: Fabia Ghenzovich, Laura Guadagnin, Cristiana Moldi Ravenna, Grazia Sterlocchi, Silvia Zoico.

Ghenzovich Fabia, Giro di boa, 2007, Joker

Contatto

Tratte da “Giro di boa” ed. Joker

Solstizio d’estate

La luce svettante delinea sui muri
un film d’ombre vaganti
di chiari e di scuri sorprende a nudo l’opporsi
incontrastata dilata i confini di un campo
lusinga diritta negli occhi umilia
non fa sconti né a vinti né a vincitori
guizzanti raggi d’oro riluce nei sogni dei poeti
ovunque sosta ovunque precipita
in coni d’ombra soffocata fino al prossimo richiamo
spiraglio d’allegria
ad aprire un mondo basta una stilla di luce
una vaga sponda.

Metropoli

Da fondali di asfalto
corpo elettrico
su picchi di cemento
sale stride
scatta in avanti
sferraglia muscoli d’acciaio
nervi tesi
su dorso sotterraneo
acquattato per il salto
sbuffando monossido
approda all’aria
interseca geometrie
linee diritte croci
dove batte ruggendo
il cuore di meccano.

Vita in transito

Sono dalla parte dell’ombra
l’indefinibile ombra
del senso che sfugge e nel perdersi cede
alla certezza vera quanto inattesa del nostro destino di passaggio
come dire – vita in transito –
solo sfiorata appena presentita
senza mai veramente toccarla
questa stessa vita che pulsa
nell’urgenza del mio sangue.

La parola

Vista dall’alto s’impenna
nell’etere moltiplica
elude per sovraesposizione
uguali/discordanti cloache d’illusione
forma/pensiero/parabola inversa
allo zenit flottiglia dispersa
in caduta libera
la parola.

Giro di boa

Mi chiedo se sempre sia l’estrema resa
(dei conti) alla rinuncia un giro di boa
quando tutto è uguale
eppure niente è più come prima nemmeno punto(,)virgola o rima
aprendo e chiudendo parentesi
di riflesso incontrando te stesso
sfiorando melodie di un duetto
di amanti mai conosciuti
ricominciando dall’ABC
scacciando i demoni di ieri
col gioco del
CUCU’

La prima volta

Qualcosa finisce qualcos’altro inizia.
Segue la notte il nuovo giorno
attraverso il respiro dell’universo.
Ti sei sentita sola e dall’ombra
il tuo profondo chiaro fondo è emerso.
Concepirlo a mente fredda, come un cammello
per la cruna o la rosa del Cairo sulla luna
ben altro toccare il miele con la punta delle dita
ben altra meraviglia nasce dagli occhi
di un bambino. E’ inscritto nella cellula un destino?
Guasto nasce il Millennio e su gambe storte
cerca il sopravvento. Ti sei guardata dentro.
Tu e il tuo corpo, via vita maestra
potresti scoprirti diversa.

Vita e morte

Campo di battaglia è il mio corpo
fazioni opposte in lotta ne fanno scempio
ne fanno bello e brutto tempo
in aperta contesa vita e morte
si sfidano a duello con inevitabile resa
finale e morte non ha uguale
nell’opera demolitrice dell’equilibrio
imperfetto o per somma o per difetto
di sinapsi di neuroni vasi sanguigni globuli e ormoni
flussi riflussi piastrine filamenti e budelli
cellule staminali e altri potenziali
lavorii di invisibili abili mani.
Restasse almeno una traccia un indizio
che non sia carne soltanto centro motore del domani.

Primiera bugia

Mal si addice a noi una vita limitata
un’altra piuttosto più immediata
più sincera e dilla pure
pugno di mosche o vanne fiera
fanne tuo vessillo chiamala chimera
nello slancio e nel limite amala comunque
amala per nulla com’era vera
prima che fosse e che sia
come fu primiera bugia.

Immagine

La mia immagine riflessa
è lo specchio dei pensieri
dei miei moti interiori
tanto evidenti sono chiari e scuri!

Il cielo aperto del corpo di Fabia

RECENSIONE

Anzitutto il CORPO, presentato come referens icastico di un malessere oceanico. "Campo di battaglia è il mio corpo / fazioni opposte in lotta ne fanno scempio".

E' cioè evidente, da subito, il tentativo di trarre una qualche spiritualità, un qualche senso dell'esistenza dalle caratteristiche della propria fisicità. Il livello macro, del cosmo, spiegato con quello micro, del soma. Non quindi psicologia introspettiva o intimista, ma fisiologia psichica, esistenziale, che guarda in alto partendo dal basso e che ritorna al sé, a quel che si è. Niente misticismo quindi.

La poesia come lavoro su di sé, dove il sé è una ricerca di identità somatica che abbia valenza esistenziale e, indirettamente, cosmica. E' una riflessione tipicamente femminile? con cui si cerca di reagire all'idea (interna a tutte le civiltà) di ridurre il corpo della donna a mero oggetto di consumo? Difficile dirlo, ma è certamente una bella riflessione, una cosa controcorrente.

Il corpo della donna visto come luogo di battaglia di tanti corpi sociali, che fanno e disfanno la società. Un corpo che si offre come un sacro totem e che in cambio non vuole prezzo ma valore, non vuole mercificazione ma senso, ben oltre il valore d'uso e di scambio, ben oltre il senso orgasmico. Valore ontologico, senso esistenziale, spirituale: "Vita che pulsa / nell'urgenza del mio sangue".

Fabia si serve dell'anatomia umana come realtà concreta, inequivoca, su cui non si può discutere, anche perché il corpo è modello da imitare: se la metropoli è un "corpo elettrico" è perché ha un "cuore di meccano". L'analisi patologica delle frustrazioni deve servire non per avere un referto autoptico ma per stimolare un'opera d'arte.

Quando poetizza Fabia non ride mai, è seria: chi avrebbe il coraggio di scherzare mentre con un bisturi sezioni un cadavere? Non è neppure permalosa quando le dicono che rischia d'essere fredda come i suoi pazienti: il fatto è che lei non vuole mai apparire banale. Anche perché è chiaramente ricettiva, come una spugna, di quanto accade nel mondo (parla di Kabul, della Jugoslavia, dello tsunami...). La vita le pesa, la vede in salita, ma non la nega, neanche un po'. Ai suoi cadaveri vuol dare linfa vitale, come Frankenstein.

Niente piagnistei quindi, niente liriche de doléances, niente sospiri religiosi di creatura oppressa, benché a volte, nei momenti di sconforto, vada a cercare "angeli consolatori", che sono però sperduti, sospesi tra cielo e terra e senz'ali. Fabia evita con cura i tentativi d'impietosire il lettore, cercando la sua comprensione patetica.

"Il messaggio che trovi in questa bottiglia - è come se dicesse -, è ridotto appositamente all'osso: chiede aiuto a chi, leggendolo, deve sapere che anzitutto egli darà aiuto a se stesso, proprio perché il mare è solcato da una medesima imbarcazione". "Io sono l'ombra / che ti guarda alle spalle". Come quando gli assistenti sociali dicono, alle prese col disabile: "sono io che imparo da lui", "star con lui fa star bene anzitutto me".

Fabia ha la scorza dura di un Clint Eastwood attore, ma se diventasse regista avrebbe una grande carica di umanità. La sua non è una poesia pedagogica, che ama farsi capire, ma di tipo psico-filosofico, nel senso che quando rischia di rivelarsi troppo, di mettersi troppo a nudo, esce dal campo naturista e preferisce armarsi di scudo e corazza intellettuali per combattere - direbbe Saulo di Tarso - "le potenze dell'aria".

Del corpo infatti predilige il cuore ma come muscolo controllato dal cervello. Il sé è sì cercato nell'istinto primordiale, ma senza concessioni all'irrazionale. Fabia non è seguace di Rimbaud o di Baudelaire, non si lascia distruggere dalla realtà prima di poterla trasfigurare in se stessa. Non ama le esperienze allucinatorie o egocentriche. E poi sente di avere delle responsabilità aggiuntive anche in quanto donna.

Insomma il corpo sa di essere oppresso, ma siccome può essere usato come terminus a quo e ad quem di ogni conflitto meta-fisico, non ha voglia di star lì a crogiolarsi coi propri acciacchi, né si autoerotizza per sfuggire alla realtà, per evaderla dal suo peso. Il corpo è un faro la cui luce, anche se fioca, è comunque un orientamento per barche che altrimenti andrebbero alla deriva.

Un corpo come ultima spiaggia di libertà, da non violare in alcun modo, da non martoriare più di quanto esso non sopporti quotidianamente. Un corpo "fatto" da altri non può essere "disfatto", perché alla fine non esisterebbe più nulla per nessuno.

In secondo luogo il SUONO, ma un sound tutto particolare, al punto che prima di parlarne bisogna premettere altre cose.

Fabia non ha interesse alla sintassi, ma non è una professionista del lessico come il Pascoli. E' ermetica come Ungaretti, ma senza l'entusiasmo d'aver scoperto un modo nuovo di poetare.

C'è troppa riflessione nelle sue liriche, che le rendono a volte come il diamante, fredde e cristalline. Questo perché rinunciando a qualunque forma di misticismo, è difficile non rendere amaro il realismo. Fabia si sforza di non apparire cinica, di non approfittare della negatività del non-io per mettere sale sulle ferite o per giocare, come certi registi superficiali, a rendere il mondo ancora più horror.

Però è consapevole che "viviamo alla soglia dell'assenza / senza margine di bagliore / là viviamo dove non siamo / al bordo della luce". La materia che trattiamo è "sterco del demonio", ma da questo lezzo possono nascere fiori profumati, frutti prelibati, se solo si sa come fare. Peccato che Fabia non abbia la terra sotto le unghie; con meno sforzo intellettuale avrebbe cercato di far battere il suo cuore spossato: le sarebbe bastato il sudore della sua pelle.

A volte supplisce alla freddezza accostando tra loro parole inconsuete, mimando la tecnica dei poeti sperimentali più moderni (quelli p.es. che gravitano attorno alla rivista "Anterem", per intenderci). Di qui il lato intellettualistico, a tratti involuto, difficile da assimilare, di queste liriche, che non sono certo un budino da gustare a fine pasto, ma semmai un database di ricette che si offrono al lettore perché questi possa fare il budino migliore. Richiedono uno sforzo applicativo, non basta aprire il palato e far lavorare le papille gustative.

Sono liriche quasi senza punteggiatura, con parole scritte, di tanto in tanto, in maiuscolo, spesso con asterischi in luogo dei titoli, con l'uso frequentissimo dell'enjambement e tutte rigorosamente in formato centrato, come fossero un epitaffio ultimativo, di quelli che scrivevano i romani sulle loro tombe e che si concludevano con frasi del tipo: "Ti ringrazio d'esserti fermato a leggere queste parole, ora puoi andare".

Son poesie come un imbuto, dove all'inizio sembra entrarci di tutto, ma alla fine solo poche cose escono, quelle essenziali. Fabia non vuole spiegarsi tutta; non si farà mai stappare come una bottiglia di champagne; chi la vuol bere deve usare la cannuccia e sorseggiarla a piccole dosi, come per la granita. Fabia si dà a spizzichi e bocconi, perché sembra non fidarsi dei propri sentimenti, ha paura che la portino troppo lontano, impedendole di poter tornare indietro.

Ecco perché ama le parole singole e non discorsive, il lessico e non la sintassi e nel lessico i predicati verbali son ridotti al minimo, perché come nell'Ermetismo ma anche nel Futurismo, poche cose devono dire quel che basta: il surplus è abolito.

I versi sono a telegramma, senza enfasi, senza retorica, senza eloquenza, non servono per comunicare ma per riflettere. Se Fabia fosse stata eloquente avrebbe scritto saggi critici, spietati, amari, e se avesse scritto romanzi avremmo letto racconti alla Bukowski. Ma un saggio critico sarebbe stato troppo impegnativo, perché un saggio non può soltanto criticare, deve anche saper proporre.

Con la poesia invece si è più liberi. Non ci si vincola all'interpretazione altrui, almeno non oggi. Il lettore la può leggere come vuole: la poesia non ha una funzione sociale, come nel mondo greco. Se il lettore prova qualcosa, buon per lui, altrimenti pazienza. Se a un saggio critico non gli si crede, e ha ragione, son dolori per tutti.

Queste poesie invece non hanno neppure una data. Come Nostradamus Fabia ha rimescolato le carte in modo che solo una persona a lei molto vicina o uno specialista del settore è in grado di ricostruire il puzzle. Fabia ha preferito raggrupparle per categorie ma senza dirci quali.

Dunque non le piacciono i verbi che spiegano né i connettivi che legano. Fabia è una intellettuale e se anche si sente passionale, non lo lascia trapelare. Ci vogliono mani da pranoterapista per sentire pulsare il sangue nelle sue liriche, benché l'uso continuo di metafore somatiche offra a prima vista una percezione diversa. Qui in realtà non s'intravvedono messaggi chiari e distinti né lasciti testamentari. Fabia fotografa, non gira scene con la videocamera. E le scene sono stilizzate, ambigue, come i dipinti di De Chirico. Se avesse dovuto scegliere tra la pittografia e l'ideografia, Fabia avrebbe scelto il complicato cuneiforme.

Ma che c'entra questa lunga premessa col sound? C'entra molto, proprio perché il ritmo viene usato per ovviare a tutti questi limiti, che in alcun modo potrebbero esserlo con una scelta meramente razionale. Il sound è il lato estetico, onirico, leggero, emotivo, giocoso, quello che rende poetiche delle parole che altrimenti rischierebbero d'apparire come scelte a caso dalle migliaia di un puzzle che non vuol rappresentare alcuna immagine definita ma semplicemente, si fa per dire, la vita.

S'è detto ormai mille volte che Fabia vuole essere essenziale, antiretorica, ma sino a che punto? Sino al punto in cui la sola assonanza possibile è quella dentro un medesimo verso. Le assonanze a volte sembrano essere cercate ad ogni costo, per dare un senso a una vita senza senso, per rendere più sopportabile l'amarezza. Più che dei sentimenti Fabia vuol far provare delle sensazioni, il gusto per il ritmo di un jingle.

Vuol davvero farsi capire o vuole soltanto comunicare, dirsi, esaminarsi dicendosi? Fabia cerca una rima inconsueta, anarchica, ma voluta, come fosse un'esigenza musicale. Non le interessa una rima in cui si contano le sillabe, ma una rima in cui si senta un qualche suono, un verso libero dotato di ritmo, la cui armonia però non è melodiosa, alla Chopin, ma dodecafonica, alla Schoenberg.

Quando all'inizio si diceva che i mutamenti del corpo vogliono essere un riflesso di quelli dell'anima, si voleva appunto dire questo, che nelle poesie di Fabia ciò si percepisce solo a livello di suono: è la musica, non le parole in sé (anche se con la magia delle parole viene ottenuta), che dà calore alle lacrime di ghiaccio che pendono dalla grotta della vita.

Le tecniche ritmiche ricercate non sono quelle classiche delle rime (e come potrebbero per una che dice di essere "dalla parte dell'ombra"?), ma sono quelle che i critici chiamano "rime imperfette", come appunto le assonanze, ma anche le consonanze, le allitterazioni, non però le onomatopee, poiché Fabia avrebbe timore di cadere nel minimalismo.

Lei quando scrive sembra seduta su un trono e dice delle parole che, siccome devono far riflettere, non sono per tutti ma solo per chi ha orecchi da intenderle. C'è indubbiamente dell'aristocraticismo nel modo in cui si esprime, ma stemperato dalle esigenze della esistenzialità della vita. L'aristocraticismo alla Montale, alla Luzi non potrebbe esserci non solo perché Fabia non ha mai vissuto al cento per cento per la letteratura ma anche perché le mancano gli strumenti classici con cui esprimerlo. Tuttavia c'è, ed è nell'atteggiamento di chi pone un certo distacco tra sé e la realtà.

N.B.

Sette poesie della raccolta "Il cielo aperto del corpo" sono state premiate (secondo premio) al "Guido Gozzano" per la silloge inedita. Ho lavorato ancora un po' sulla forma.

Credo che questo incarnarsi nel corpo sia uno sviluppo del tema del confine, già presente nel mio precedente libro. Ora il confine è il derma, permeabile al mondo, aperto all'altro, e forse anche la parola si avvicina a quella parola vera, innocente o consapevole di cui parlava Ungaretti.

Questo almeno è quello che vorrei, prima di tutto per me stessa e poi per chi ama la scrittura.

Siti che parlano di lei


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Aggiornamento: 27/11/2012