La nostalgia di Salvatore Quasimodo

La nostalgia di Salvatore Quasimodo

I - II

Dario Lodi


Caratteristica della poetica di Salvatore Quasimodo (1901-1968) è il rispetto formale della classicità. L’impianto compositivo del poeta siciliano è estremamente ed elegantemente ordinato, anche alla presenza dell’ermetismo. Quest’ultimo, si sa, è un fenomeno costituito da una scelta espressiva esoterica il più possibile aggraziata. La scelta ha due scopi, il secondo conseguente al primo: dimostrare l’ampiezza del sentire e solennizzare il sentire con scopi quasi sciamanici. La solennizzazione è un esercizio che troverà il nostro poeta molto d’accordo.

Quasimodo non è un poeta istintivo che diventa razionale con l’uso della parola. E’ invece un poeta razionale che doma l’istinto con buon fiuto organizzativo. Il fiuto comprende l’accettazione di spunti espressivi nobili che s’inframmezzano nel comporre. Nella realtà, questi spunti non sono casuali, non vengono da fuori, ma sono frutto di elaborazioni personali. Di sicuro, Quasimodo si fida soltanto di se stesso, non si piega a un metodo generale, imprigiona l’ermetismo nei suoi concetti semplici, eterni, opportunamente enfatizzati.

L’ermetismo è una forma espressiva che gli si addice in pieno. S’immagina Quasimodo come un personaggio della Magna Grecia che declama versi apollinei e dionisiaci in un anfiteatro vuoto. La sua voce, i suoi versi, risuonano nell’aere e giungono sino al Continente, ammaestrandolo. Non per niente, il poeta siciliano si cimentò nella traduzione dei poeti greci, ottenendo risultati stupendi, pari e forse superiori a quelli di Ettore Romagnoli. Fra due c’è la differenza poetica, in quanto l’uno è autenticamente poeta, l’altro un prosatore prestato alla poesia. Affascinanti entrambi, Quasimodo anche onirico, felicemente, e dotato di una cetra sopraffina.

Le sue poesie “normali” sembrano andare di qua e di là, secondo certi canoni propri dell’ermetismo, canoni che premiano lo stato d’animo del momento, il sentimento, l’emozione, facendo poi convergere gli uni e gli altri entro una sorta d’involucro fatto di antica sapienza reale e scenica. Il simbolismo francese pesò sull’ermetismo italiano, ma il secondo alla fine, nei casi migliori, ed anche in parecchie poesie di Quasimodo, mostra una concentrazione maggiore ed anche una dignità espressiva più rigorosa, meno “lasciata a sé” e per nulla contratta (sempre nei casi migliori).

Dall’ermetismo e dal dannunzianesimo, tentarono di uscire solo futuristi e seguaci del Gruppo 63, con esiti ridicoli nel primo caso (per quanto lo svecchiamento operato da Marinetti e soci fece bene all’arte in genere) e disinvolti nel secondo, sino a creare una contromossa stilistica di fragile sussistenza e di presunzione tattica. Quasimodo, coerente con se stesso e devoto alla propria immagine di aedo, non perseguì alcun cambiamento dalla linea classica, tentando, semmai, di arricchirla con una sontuosa espressività, di fornirle nuovi accenti, soprattutto nuove esclamazioni e sottolineature.

Veramente ammirevole è la tenuta del suo comporre, come se egli fosse un comandante in mezzo a qualche maroso che fa e strafa per tenere dritta la barra, certo di ottenere ammirazione dai suoi movimenti. Il primo ammiratore è proprio lui, anche se si ammira con discrezione e pudore. Tutto questo non gli impedisce di comporre cose concettualmente non eccelse (quasi dei luoghi comuni) ma di comporle con grande senso del ritmo e dell’eleganza comunicativa. Così esse sembrano nuove o molto ben lucidate. A differenza di Ungaretti e del primo Montale, gli manca forse lo slancio, l’entusiasmo, l’ispirazione profonda.

Come tanti altri intellettuali del Ventennio fascista, Quasimodo chiese un vitalizio a Mussolini per poter vivere di poesia, ma poi divenne partigiano e comunista. Compose, durante la Seconda guerra mondiale, delle poesie d’occasione che, in generale, hanno il difetto di tutte le poesie d’occasione: suonano forzate, nel caso (la raccolta è Giorno dopo giorno del 1947) sono particolarmente meste, recitano uno stoicismo di maniera, per quanto con eleganza e proprietà. Contribuirono comunque a portarlo al Nobel del 1959 per la fiera malinconia delle liriche ispirate alla tragedia della guerra.

Nel 1966 Quasimodo diede alle stampe Dare e avere con l’intento di fare un consuntivo della propria esistenza, ovvero delle esperienze intellettuali intervenute nel corso della vita: nella realtà il solito, e si direbbe inevitabile, riassunto della decadenza del proprio corpo e dello stupore per questa consapevolezza. A due passi dalla morte è comunque più forte quest’ultima: l’espressione del poeta siciliano non è soggetta al solito, scintillante, ordine, ma si ferma sulle note più dolenti delle considerazioni e lascia che le sfuggano un po’ di mano.

E’ quel poco (molto) che dà alla poesia senile di Quasimodo una spaurita sincerità e una profondità di pensiero che fa veramente riflettere. Che fa apprezzare l’intensità del suo sentire e del suo soffrire. Il tutto entro l’alveo della liricità greca classica ma questa volta con consapevolezza piena di quel valore e con riconoscenza assoluta verso quella forza speculativa di cui era per lui un grandissimo onore sentirsi il legittimo erede.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019