Verso la fine del 1800, una serie di romanzi indica con chiarezza la crisi
della filosofia positivista e della narrativa naturalista in Italia:
1889:
Il piacere di Gabriele D'Annunzio
1890:
Profumo di Luigi Capuana
1892:
Una vita di Italo Svevo
1893:
L'esclusa di Luigi Pirandello
1894:
I Viceré di Federico De Roberto.
Queste opere formano ciò che, con Maria Corti (1), può essere considerato come un
"campo di tensioni" (2).
Per comprendere le 'tensioni' che caratterizzano il 'campo' costituito dai
romanzi citati conviene accennare alla vicenda del positivismo italiano e ai
suoi riflessi letterari.
Il positivismo ha molto influenzato la cultura in Italia a partire dal 1870 e
in particolare dopo la caduta della Destra storica (1876) (3). "Sulla base delle
teorie positiviste gli intellettuali accolsero una concezione della storia e
dell'evoluzione sociale che prospettava il progresso come un processo naturale
verso una perfettibilità indefinita: era una concezione che permetteva alla
borghesia ormai al potere di giustificare il proprio dominio e di guardare con
ottimismo al processo storico in atto."(4).
Sul piano culturale e letterario, accanto all'affermazione della Scuola
storica (5), si impose la ricezione del naturalismo francese, che si chiamò
verismo. Il verismo riprende dal naturalismo il canone poetico della
impersonalità, cioè della imparzialità dello scrittore, il quale con metodo
scientifico investiga la realtà, giacché vero significa oggettivo, e questo vuol
dire che l'investigazione della realtà non deve essere influenzata dal punto di
vista dello scrittore.
In effetti, l'esigenza del vero si richiama ad un filone basilare del
romanticismo italiano, un filone rappresentato da Alessandro Manzoni (6) e poi
da vari narratori tardoromantici, tra i quali Emilio De Marchi (1851-1901) (7).
Ma, soprattutto, il modo in cui i veristi recepirono le teorie del naturalismo
va inquadrato nella specifica situazione storica, sociale ed economica italiana.
Lo sviluppo industriale in Italia, in particolare a partire dal 1874, fu
caratterizzato dal così detto "germanesimo economico" o "via
prussiana" (8): si
trattava di riformare l'economia "dall'alto e con il concorso determinante dello
Stato, all'insegna del protezionismo e del rafforzamento del prestigio
internazionale del paese" (Procacci [op. cit. 1975: p. 417]).
Ne scaturì un doppio fenomeno.
-
Da una parte, la formazione di quello che Antonio Gramsci chiamò il blocco agrario-industriale delle classi dominanti italiane (cfr. ivi:
p. 419): vale a
dire, si stabilì un modus vivendi "tra i ceti sociali di maggiore prestigio e
influenza, la borghesia manifatturiera del Nord e gli agrari meridionali", un
modus vivendi "che aveva sensibile analogia con quanto accadeva nella Germania bismarckiana, con i suoi Junker e con i suoi industriali liberali" (ivi:
p. 417).
-
Dall'altra parte, un tale sviluppo industriale non solo creò scompensi
economici, povertà nello stesso nord e centro-nord della penisola, e dunque i
fermenti dei primi nuclei della classe operaia, ma anche e soprattutto creò una
situazione nazionale del tutto anomala: lo sviluppo era concentrato nel nord,
mentre il sud veniva trattato come una sorta di colonia, "inchiodato ancora più
saldamente alla sua arretratezza e alla sua condizione di subordinazione" (ivi:
p. 420), non fu attuata alcuna riforma agraria, e così il sistema feudale,
l'ignoranza e la miseria furono le caratteristiche di fondo dell'Italia
meridionale. Sicché giustamente scrive Procacci (ivi: p. 420):
Ne risultava un tessuto sociale in cui il nuovo e il vecchio si
giustapponevano e si intrecciavano, in cui un capitalismo con tutti i tratti
dell'analisi leniniana dell'imperialismo - alto grado di concentrazione
monopolistica, compenetrazione tra banca e industria, protezione statale -
conviveva con un'agricoltura che, in certe regioni, si trovava ancora ad uno
stadio semifeudale e con un artigianato onnipresente e a livello familiare.
La situazione fin qui tratteggiata si acuì quando nel 1887, alla morte di
Depretis, divenne presidente del Consiglio Francesco Crispi. Questi impresse una
svolta autoritaria in politica interna, e imperialistica in politica
estera (9):
già nel 1889 Crispi stipulò una convenzione militare con la Germania e riprese
la politica coloniale in Africa, con la occupazione di Asmara e la proclamazione
dell'Eritrea come colonia italiana. Ma proprio la politica coloniale segnò la
fine del presidente del Consiglio: il 1. marzo 1896, dopo la sconfitta di Adua
(15.000 soldati italiani furono annientati), Crispi si dimise definitivamente.
(10)
Seguirono quattro anni convulsi. Il nuovo presidente del Consiglio fu il
marchese di Rudinì. Egli emanò un'amnistia a favore dei protagonisti del moto
dei "Fasci siciliani" (cfr. 10), istituì un commissario civile per la Sicilia,
"primo esperimento di decentramento regionale" (Ragionieri [op. cit. 1976:
p. 1835]), e
chiuse l'avventura coloniale voluta da Crispi.
D'altra parte, il 1897 fu un anno
di carestia e per di più gli Stati Uniti, impegnati nella guerra di Cuba,
ridussero le esportazioni di grano. Fu necessario alzare il prezzo del pane, e
ne seguirono tumulti popolari, non solo nelle campagne ma anche in città come
Firenze, Napoli, Bari, ed infine, maggio 1898, a Milano, dove il generale Bava-Beccaris fece sparare con i cannoni sulla folla, causando a detta del
governo 80 morti, secondo i giornali parecchie centinaia. Furono arrestati gli
esponenti del Partito socialista, che aveva cominciato a riprendersi dopo le
persecuzioni di Crispi, e furono soppressi non solo i giornali socialisti ma
anche quelli cattolici.
Il governo cercava di presentarsi come garante contro
gli estremismi, socialisti e cattolici, mentre gli elementi conservatori
cominciavano a provare nostalgia se non per Crispi, certo per un governo forte.
Gradatamente vanno prendendo forma due schieramenti politici, "i fautori del
governo forte" e i "difensori della libertà" (Procacci [op. cit. 1975:
p. 449]).
Fu
l'intervento del re, Umberto I, a causare la caduta del governo e la formazione
di un nuovo ministero: quello del generale Pelloux. La linea politica non
cambiò: nel febbraio del 1899 Pelloux "presentò alla Camera un complesso di
provvedimenti intesi a proibire lo sciopero nei servizi pubblici, a limitare la
libertà di stampa e il diritto di riunione e di associazione, che, se approvati,
avrebbero praticamente segnato la fine dello Stato liberale. La battaglia
condotta dall'estrema sinistra, alla quale si aggiunse in un secondo tempo anche
la sinistra costituzionale di Giolitti e di Zanardelli, fu memorabile" (ivi:
p. 447) e determinò la caduta di Pelloux e la nascita del governo Saracco.
Il 29
luglio 1900 in seguito ad un attentato anarchico perse la vita Umberto I al
quale successe Vittorio Emanuele III. Seguì un periodo estremamente incerto, e
quando, nel dicembre dello stesso anno, Saracco prima avallò lo scioglimento
della Camera del lavoro di Genova e poi, dinanzi allo sciopero generale, senza
incidenti e tumulti ma deciso e maturo, degli operai genovesi, fu costretto a
revocare lo scioglimento della Camera del lavoro, fu chiara la necessità di una
svolta. Il re diede l'incarico di formare un nuovo governo alla sinistra
costituzionale. Cominciava nel 1901 l'età giolittiana.
Questo profilo, pur molto sommario, può aiutare a spiegare quel 'campo di
tensioni' di cui si diceva in apertura del presente paragrafo. Ma prima di tutto
aiuta a spiegare le differenze fra verismo e naturalismo. La delusione e la
sfiducia nei confronti dello stato unitario, la situazione delle classi povere
ed emarginate dell'Italia meridionale, escluse dal 'benessere', il pessimismo e
il fatalismo: tutto ciò caratterizza l'opera e l'ideologia del più grande
scrittore verista, Giovanni Verga (1840-1922).
Ciò che i veristi (11) recepiscono
dal naturalismo non è tanto una visione del mondo caratterizzata dall' impegno
sociale e dalla fiducia nella possibilità di aderire alla realtà per cambiarla,
ma piuttosto un metodo di rappresentazione, neutrale, oggettiva, impersonale,
della realtà. Tale realtà è considerata - nell'opera di Verga in modo esemplare
- come immobile ed immutabile, e proprio tale immutabilità, fatta di rassegnato
fatalismo, svolge certo una funzione critica nei confronti dello sviluppo
industriale, ma senza che ciò significhi la proposta di un società alternativa,
progressiva. Conviene leggere per intero una limpida pagina (Tateo/Valerio/Pappalardo
[op. cit. 1985, vol. 3, tomo I: p. 696]) che sintetizza in modo preciso tale questione:
L'ambizione del positivismo, anche nel suo versante letterario del
naturalismo, per il quale Verga comincia a simpatizzare, era l'emancipazione
sociale, un'emancipazione però basata non sulla esemplarità di una tipologia di
esistenza già costituita, sul riferimento cioè a un'ottimale condizione di vita
già storicamente esperita, bensì su un modello in fieri, quale la scienza veniva
configurando, estrapolandolo dalle leggi strutturali della natura. Quando Zola
descrive un ambiente sociale, con preferenza quello dei diseredati, non intende
darci il quadro di una realtà auspicabile, ma si tratta, al contrario, di un
quadro clinico, diagnosi di una malattia che bisognerebbe debellare. Non sono i
naturalisti alla ricerca di un roussoviano paradiso del "buon selvaggio": non è,
il loro, un recupero storico, memoriale e lirico dell'infanzia felice. Il loro
ideale si proietta tutto nel futuro, un futuro nuovo, edificato sulla fredda e
distaccata ragione scientifica. La fiducia nella scienza è la vera anima del
naturalismo. "Natura" è il complesso delle leggi scientifiche, applicando le
quali l'uomo è messo in grado di inserirsi in un processo reale che la storia, i
suoi istituti e il pensiero codificato in un apparato irreale, antinaturalistico
e perciò illusorio, hanno fatto deviare, donde i mali che affliggono l'umanità.
Verga, per quanto ne sia sensibilizzato sotto certi aspetti, in sostanza resterà
estraneo al programma dei naturalisti: gli manca la fiducia nella scienza e
perciò nel progresso. Anzi - e qui è la sua originalità e l'acutezza delle sue
previsioni - egli avverte, ancor prima della crisi ufficiale del naturalismo e
dello stesso positivismo, che la scienza e la tecnica vanno ormai ponendosi al
servizio dell'ideologia egemone, la quale avvia in tutt'altro senso il cammino
dell'umanità. Il "progresso", quale i positivisti perseguono, non gli sembra un
progredire né verso la felicità né verso l'interiore sicurezza esistenziale e
quindi sociale. La civiltà delle Banche e delle Imprese industriali appare ormai
sostenuta proprio dal programma dei positivisti nella creazione di quell'atmosfera
artificiosa, effimera ed illusoria, in cui l'uomo crede di poter esprimere la
propria esuberanza di vita.
La tensione appare già qui, ed è - paradossalmente - la radice della
grandezza dell'arte verghiana (12).
Ed ecco che possiamo considerare il 'campo di tensioni' indicato all'inizio
del nostro discorso. Non sorprende la presenza di due scrittori veristi, Luigi
Capuana e Federico De Roberto.
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Luigi Capuana (1839-1915) è il teorico del
verismo e l'autore del primo romanzo naturalista italiano, Giacinta, uscito nel
1879, dedicato a Zola. Capuana lavorerà ancora al romanzo fino all'edizione del
1889, e questo lavoro "fa quasi toccar con mano l'elaborazione del nuovo modo di
narrare" (13): appunto il modo scientifico, sperimentale ed
impersonale applicato ad un caso patologico.
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Ebbene, l'anno successivo
all'ultima redazione di Giacinta, Capuana pubblica il romanzo Profumo.
L'interesse del romanzo, e la tensione che esso crea con la narrativa verista,
stanno nel fatto che il ruolo del metodo scientifico è marginale.
Al centro
della storia è ancora una volta un caso clinico, costituito dalla malattia
nervosa di una donna, ma non è il metodo scientifico che permette un approccio
al caso patologico, bensì l'attenzione ai fattori spirituali che 'spiegano' il
caso. Sicché: "l'apparato scientifico, con le sue aride annotazioni, appare del
tutto pleonastico rispetto all'idea conduttrice, riposta tutta nella soluzione
spirituale del ‘caso clinico’" (Tateo/Valerio/Pappalardo [op. cit. 1985, vol. 3, tomo I:
p. 707]).
In effetti Profumo assume una posizione centrale nella produzione di Capuana: realizza artisticamente le istanze spiritualistiche che già in saggi
come Spiritismo (1884) e Mondo occulto (1896), dello stesso autore, subentrano
alle teorie naturalistiche, e annuncia quello che è considerato il capolavoro di Capuana,
Il Marchese di Roccaverdina (1901), in cui "le sottili e compiaciute
analisi psicologiche, di vago sapore scientifico, [..] finiscono con
l'appesantire l'opera la quale però trova un motivo di riscattarsi nel clima
quasi fiabesco, allucinato e di grande suggestione che avvolge la vicenda e i
personaggi." (ivi)
In conclusione: Profumo lascia intravedere la tensione fra la
visione del mondo del positivismo e le nuove istanze spiritualistiche che
cominciano a comparire nella cultura italiana del fine secolo.
L'opera fondamentale di un altro autore verista di grande interesse, Federico
De Roberto (1861-1927), è il romanzo I Vicerè (1894). I Vicerè non è solo il
capolavoro di De Roberto, è anche uno dei romanzi più interessanti della
letteratura italiana moderna (14).
Si tratta di un romanzo storico ("che riduce
al minimo, anzi quasi annulla l'effetto consueto di distanziamento prospettico
dall'epoca in cui è situata la vicenda", Spinazzola [op. cit. 1990: p. 5]) in cui vengono
narrate le vicende di una nobile famiglia siciliana (la famiglia degli Uzeda,
principi di Francalanza, soprannominati appunto "Vicerè") dal periodo
risorgimentale al periodo immediatamente successivo all'Unità.
L'impianto
narrativo è naturalistico (De Roberto fu amico e seguace di Capuana e di Verga),
ma oggetto della rappresentazione scientifica è il mondo dei nobili, e non
quello dei diseredati; inoltre il metodo scientifico viene applicato allo studio
dell'evoluzione storica.
L'interesse del romanzo sta nel fatto che ad esso, come
ha notato molto bene Spinazzola, sono da affiancarsi I vecchi e i giovani (1913)
di Pirandello e Il Gattopardo (1957) di Tomasi di Lampedusa: i tre romanzi
offrono "una rappresentazione narrativa e una interpretazione saggistica di
eventi connessi al passaggio della Sicilia dal regime assolutista al liberalismo
borghese, per effetto dell'unificazione nazionale italiana" (Spinazzola [op.
cit. 1990:
p. 4]), ma tale rappresentazione - in varie maniere nelle tre opere - è
caratterizzata dalla negatività, dalla sfiducia nel cambiamento storico e nel
progresso.
Consalvo, personaggio de I Vicerè, afferma alla fine del romanzo: "La
storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre
gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del
Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d'oggi pare ci sia un abisso; ma la
differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio universale non è né
un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo
principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere
spento [...]. Il nostro dovere, invece di spezzare le nuove leggi, mi pare
quello di servircene!" (15)
E proprio questo succede: la famiglia degli Uzeda si
adatta al nuovo corso storico, e così facendo mantiene la propria egemonia, si
serve delle nuove leggi. Proprio qui la 'tensione' che caratterizza il romanzo
di De Roberto: il metodo storico per realizzare un romanzo 'antistorico', il
metodo scientifico per negare il positivismo. "Il teleologismo positivista, con
la sua persuasione che la razionalità scientifica avrebbe potuto grado a grado
sanare tare e squilibri dell'esistenza consociata, non offre più alcun paradigma
di certezze a De Roberto." (Spinazzola [op. cit. 1990: p. 13])
Profumo e I Vicerè rappresentano in modi diversi la crisi del positivismo,
proprio in ambiente verista, e portano in piena luce quella contraddizione fra
metodo scientifico 'positivo' e visione del mondo 'negativa' già presente in
Verga.
(1) Corti, Maria, in La semiotica letteraria italiana,
Interviste con D'A. S. Avalle, M. Corti, C. Segre, U. Eco, E. Garroni, S.
Agosti, M. Pagnini, A. Serpieri, A. Rossi, G. L. Beccaria, A. Buttitta, G. P.
Caprettini, a cura di Marin Mincu, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 29-30; Corti,
Maria, Principi della comunicazione letteraria, Bompiani, Milano 1976,
pp. 19-22; Corti, Maria, Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture
semiotiche, Einaudi, Torino 1978, pp. 22-23 (torna su)
(2) "[...] una società crea in determinati momenti una nuova
ideologia, da cui nascono dei modelli sociali e di lettura del mondo; tali
modelli, che sono delle strutture semiotiche, possono persistere più a lungo
dell'ideologia che li ha creati e scontrarsi con una nuova ideologia nascente;
si crea allora un processo semiotico conflittuale dentro la società e, di
conseguenza, dentro la letteratura: conflitto fra il presente, che abbisogna di
nuovi modelli strutturanti, e il passato che sovrasta coi suoi. Da questa non
coincidenza temporale fra ideologie e modelli può nascere, anzi nasce un campo
di tensioni, cioè la coesistenza di "diversi" in forte contrasto e il
particolare e specifico modo di reagirvi di gruppi e movimenti letterari." (Maria
Corti, in: La semiotica letteraria italiana. Interviste con D'A. S.
Avalle, M. Corti, C. Segre, U. Eco, E. Garroni, S. Agosti, M. Pagnini, A.
Serpieri, A. Rossi, G. L. Beccaria, A. Buttitta, G. P. Caprettini, a cura di
Marin Mincu, Feltrinelli, Milano 1982, pp.29-30. (torna su)
(3) Per "Destra storica" si intende la tendenza moderata del
movimento liberale: si tratta dei continuatori della politica di Camillo Benso,
conte di Cavour. Cavour, moderato, sostenitore della libertà imprenditoriale, e
al tempo stesso convinto democratico, morì nel giugno del 1861, pochi mesi dopo
la proclamazione del Regno d'Italia. I governi successivi ereditarono appunto le
idee di Cavour (ma non ne furono per nulla all'altezza, soprattutto perché non
furono capaci di affrontare i problemi sociali, in particolare nel sud del
paese), e rimasero al potere fino al 1876. Infatti, "con la presa di Roma il
ciclo eroico del Risorgimento si chiudeva definitivamente e l'attenzione
dell'opinione pubblica veniva ora naturalmente indotta a concentrarsi sui
problemi interni e della vita economica." (Procacci, Giuliano, Storia degli
italiani, Laterza, Roma-Bari (prima edizione: 1968).[1975: p. 404]).
A partire dal 1874 varie inchieste e vari saggi determinarono la nascita della
saggistica politico-sociale, in particolare la nascita della "letteratura
meridionalistica", e rivelarono che il 78 per cento della popolazione era
analfabeta, che le condizioni di vita nel Meridione erano arretratissime. Così
nel 1876 la Sinistra vinse le elezioni in modo trionfale. E tuttavia: tanto i
deputati della Destra quanto quelli della Sinistra erano a favore del
Risorgimento (nel parlamento non c'era posto per gli avversari dell'unità della
nazione), ed entrambi gli schieramenti rappresentavano solo la borghesia,
l'unica classe che avesse diritti politici.
Ciò favorì quel fenomeno che fu chiamato trasformismo e che caratterizzò il
governo di Depretis (cfr. 4): la formazione, cioè, di
maggioranze differenti, a seconda delle necessità. La Sinistra mostrò una certa
attenzione ai problemi sociali e ai diritti civili e democratici: abolì la così
detta "imposta sul macinato", cioè una tassa speciale sui cereali macinati che
penalizzava i ceti poveri (tale tassa esisteva nell'Italia meridionale già prima
dell'unificazione, fu abolita da Giuseppe Garibaldi, quando egli sbarcò in
Sicilia nel 1860, fu ripristinata dalla Destra nel 1868, per far fronte alle
difficoltà economiche); inoltre, la Sinistra allargò il diritto di voto (dal 2
al 7 per cento dei cittadini) e rese obbligatori i primi due anni di istruzione
elementare. E tuttavia un'autentica sinistra entra nel parlamento italiano solo
nel 1882, quando fu eletto Andrea Costa, deputato di idee socialiste. Dieci anni
dopo nasceva il Partito socialista italiano: allora la sinistra si distinse in
"sinistra costituzionale", cioè la sinistra borghese, e "estrema sinistra",
quella socialista. (torna su)
(4) Pirodda, Giovanni, Lineamenti di letteratura
italiana. Storia - Correnti - Generi, Paravia, Torino 1982, p. 164. La
vittoria prussiana nella battaglia di Sedan (1870), che aveva consentito al
governo italiano di conquistare Roma (nel 1864 il governo italiano si era
impegnato con la Francia di Napoleone III a garantire la integrità del
territorio pontificio e aveva scelto Firenze quale capitale d'Italia, appunto
come segno di rinuncia a Roma; dopo la sconfitta francese del 1870, l'Italia si
sentì libera da tale accordo), favorì la penetrazione in Italia delle idee
positiviste. Quando nel 1876 la direzione politica passò a Agostino Depretis e
alla Sinistra storica, le idee positiviste accentuarono la reazione alla
chiusura della chiesa cattolica che, fin dal 1864, con il Síllabo, aveva
condannato il socialismo, le teorie liberali e ogni manifestazione del mondo
moderno. (torna su)
(5) Il "manifesto" del positivismo italiano è il saggio
La filosofia positiva e il metodo storico (1866) di Pasquale Villari. Il
"metodo sperimentale" nelle scienze naturali corrispondeva, secondo Villari, al
"metodo storico" nelle scienze umane. Si trattava cioè di impostare lo studio di
tali scienze in modo rigorosamente storico, cercando di mettere in luce i fatti,
e cioè le reali condizioni storiche nelle quali concetti, idee, teorie delle
scienze umane e morali erano apparsi e si erano sviluppati. Tutto ciò costituiva
in effetti lo sviluppo rigoroso del metodo di Francesco De Sanctis, e per
cinquanta anni sarà questo metodo a caratterizzare non solo gli studi letterari,
ma anche quelli strettamente filologici: opera esemplare è Virgilio nel
Medioevo (1872) di Domenico Comparetti. Inoltre, l'interesse per le
"origini", in particolare le origini medievali, già proprio del romanticismo, dà
luogo alla nascita in Italia della filologia romanza: "Il panorama affascinante
intravisto dai Romantici è diventato un territorio così vasto che nessuno può
percorrerlo individualmente. Positivisticamente, esso diventa dominio della
"Scienza", un'entità che supera ogni singolo studioso. Per la prima volta si
stabilisce il criterio della 'competenza', che possiamo intendere nel doppio
significato di conoscenza precisa e di confine. La filologia romanza riceve un
limite non solo dalla sua definitiva separazione dalla indoeuropeistica, dalla
germanistica ecc., ma dalla sua polarizzazione sul Medioevo. Questa limitazione,
è vero, si realizza in modo chiaro soprattutto in Italia: ed è comunque servita
fino ad oggi a salvare i rapporti orizzontali tra le diverse lingue e
letterature romanze." (Renzi, Lorenzo, Introduzione alla filologia romanza,
Il Mulino, Bologna 1976, p. 74]) Né vanno dimenticati gli studi linguistici di
Graziadio Isaia Ascoli, iniziatore della dialettologia italiana, del metodo
storico-comparativo, e soprattutto lucido studioso della "questione della
lingua": "Il punto di forza dell'Ascoli è nell'approfondimento della situazione
sociolinguistica dell'Italia, perseguito su un terreno di concretezza e di
scientifico rigore al fine d'intervenire sull'evoluzione totale della società.
Sostituendo alla teoria astratta il concreto storico, l'Ascoli rompe
risolutamente il primato del modello (un mito che pur in accezione democratica
il Manzoni aveva conservato) e, con una dialettica appropriata alla problematica
del momento, imposta in termini metalinguistici il secolare discorso sulla
questione della lingua." (Dardano, Maurizio, G. I. Ascoli e la questione
della lingua, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1974, pp. 100-101],
cfr. anche Migliorini, Bruno, Storia della lingua italiana, Sansoni,
Firenze 1960) (torna su)
(6) Nella lettera Sul Romanticismo, indirizzata a
Cesare Taparelli d'Azeglio, scritta nel 1823, pubblicata contro la volontà
dell'autore nel 1846, ripubblicata dall'autore in una redazione diversa nel
1870, Manzoni polemizzava contro l'uso classicista della mitologia in nome del
"vero storico" e del "vero morale", "non solo come fine, ma come più ampia e
perpetua sorgente del bello: giacché e nell'uno e nell'altro ordine di cose, il
falso può bensì dilettare, ma questo diletto, questo interesse è distrutto dalla
cognizione del vero; è quindi temporario e accidentale." (cfr. Baldi, Guido (a
cura di), Manzoni. Cattolicesimo e ragione borghese, Paravia, Torino
1975, pp. 108-113) (torna su)
(7) Né va dimenticato il movimento chiamato "Scapigliatura",
dal titolo di un romanzo di Cletto Arrighi (vero nome: Carlo Righetti,
1828-1906), La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862). Gli 'scapigliati'
reagiscono contro alcuni aspetti deteriori del tardo romanticismo appunto in
nome di esigenze realistiche. Giustamente è stato detto che "la Scapigliatura
preannuncia, senza tuttavia assimilarvisi né anticiparli programmaticamente,
movimenti come il Verismo e il Decadentismo." (Tateo, Francesco / Valerio,
Nicola / Pappalardo, Ferdinando, La letteratura nella storia d'Italia,
volume terzo, Il Tripode, Napoli 1985, vol. 3, tomo I: p. 686]) (torna
su)
(8) Cfr. Procacci, Giuliano, Storia degli italiani,
cit., pp. 416-421: "Attorno al 1874 [...] si era cominciato in Italia a
discorrere di ‘germanesimo economico’ e un gruppo di economisti, tra i quali fa
spicco il nome di Luigi Luzzati, aveva fondato una nuova rivista, il "Giornale
degli Economisti", per propugnare appunto la necessità di rivedere il
tradizionale indirizzo liberistico della politica economica italiana." (ivi: p.
416).
A ciò corrisponde sul piano della politica estera l'avvicinamento alla Germania
e all'Austria, che culmina con la stipulazione di un trattato (la Triplice
alleanza, maggio 1882). Nota Guglielmino, Salvatore, Guida al Novecento,
Principato, Milano 1971: 1/8, che questo trattato "favorì la penetrazione, in
alcuni settori della classe dirigente, di suggestioni antidemocratiche ed
autoritarie e fece sì che il pugno di ferro di Bismarck apparisse come il
modello ideale di governo. Inoltre esso fu un incentivo verso atteggiamenti
militaristici che significavano: spese militari eccessive per la fragile
economia dello Stato, pressioni per una politica estera ‘di prestigio’ [...]."
Come osserva Procacci [op. cit. 1975: p. 423], il trattato "contribuì
notevolmente a rendere consapevoli e a far coagulare quei motivi e quelle
tendenze nazionalistiche che fermentavano entro il paese. La lotta fra le
nazioni - insegnava la filosofia positivista di moda - era altrettanto
ineliminabile quanto la lotta per l'esistenza e la selezione naturale
nell'evoluzione degli esseri. Avrebbe una nazione come l'Italia potuto sottrarsi
a questa ferrea necessità?" E infatti comincia qui l'infelice ambizione
coloniale italiana che alcuni anni dopo precipita nel disastro di Adua, cfr.
infra in questo paragrafo. (torna su)
(9) "Il filogermanesimo trionfante in Italia negli anni
ottanta, l'improvvisata e velleitaria vocazione colonialista, la
spregiudicatezza e lo spirito di iniziativa dei nuovi capitani d'industria, il
tradizionale livore degli agrari siciliani contro i contadini insorti, tutti
insomma gli ingredienti costitutivi del nascente blocco agrario-industriale
erano presenti in lui [in Crispi] in forma accentuata e a volte parossistica.
Non a caso e non a torto il fascismo ne ha fatto un suo precursore." (Procacci
[op. cit. 1975: pp. 431-432]) (torna su)
(10) Il governo di Crispi cadde una prima volta il 31
gennaio 1891, quando la maggioranza della Camera votò contro di lui a causa
delle eccessive spese militari. Seguirono due governi, quello retto da Antonio
Starabba di Rudinì, fino al maggio del 1892, e quello retto da Antonio Giolitti,
che durò solo diciotto mesi. Nell'agosto del '92 nasceva a Genova il Partito
socialista (su questo partito, sui suoi rapporti con il movimento anarchico, e
sui primi passi dei movimenti politici cattolici, cfr. Ragionieri, Ernesto,
La storia politica e sociale, in Storia d'Italia, volume quarto, tomo
terzo, Einaudi, Torino 1976, pp. 1774-1795] e Procacci [op. cit. 1975: pp.
434-439]), e nell'autunno del 1893 esplodeva la ribellione dei "Fasci dei
lavoratori" siciliani (associazioni di contadini, anche donne e ragazzi, nate in
modo spontaneo per protestare contro le condizioni di vita soprattutto degli
operai addetti alle miniere di zolfo): "Il governo Giolitti, conformemente alla
prassi liberale [...] che partiva da una distinzione fra socialismo e
anarchismo, aveva tenuto anche nei confronti del movimento dei Fasci siciliani
un atteggiamento sostanzialmente benevolo in cui aveva una certa parte anche la
volontà di farsi in Sicilia una base e un punto di appoggio contro Crispi."
(Ragionieri [op. cit. 1976: p. 1807]).
Ma da una parte le pressioni delle classi dominanti siciliane, che chiedevano di
reprimere il movimento, dall'altra parte la crisi delle banche in seguito allo
scandalo della Banca romana (che aveva fatto emettere banconote false), nel
quale peraltro era implicato anche Crispi, indussero Giolitti a rassegnare le
dimissioni nel novembre del 1893. Tornò al potere, a dicembre, Crispi. Questi
represse duramente il movimento dei Fasci siciliani, sciolse il Partito
socialista (1894), ottenne l'appoggio del mondo finanziario, costituì in
collaborazione con il governo tedesco la Banca commerciale, ridusse le sedute
della Camera fino al maggio del 1895, quando ebbero luogo le elezioni i cui
risultati diedero al suo governo una sicura maggioranza. Proprio questo
risultato elettorale positivo diede a Crispi la sicurezza per riprendere la
politica coloniale: "Egli era [...] convinto che un successo in Africa avrebbe
enormemente rafforzato il suo prestigio e la sua leadership. L'optimum era
perciò per lui una vittoria militare ottenuta senza grandi spese, a buon
prezzo." (Procacci [op. cit. 1975: p. 442]).
Ma larghi strati della borghesia ritenevano che una tale impresa fosse uno
spreco di denaro, e neppure i militari condividevano il progetto di Crispi: "di
qui gli attriti tra esercito e governo che furono causa non ultima della
disastrosa conclusione della campagna africana." (ivi) (torna
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(11) E' possibile distinguere schematicamente tre filoni
del verismo: il primo è costituito da un gruppo di scrittori napoletani, tra gli
altri: Matilde Serao, Ferdinando Russo, Giovanni Capurno; il secondo da un
gruppo di scrittori siciliani: Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De
Roberto; il terzo da un gruppo di scrittori toscani, tra gli altri: Mario
Pratesi e Renato Fucini (cfr. Asor Rosa, Alberto, Scrittori e popolo. Il
populismo nella letteratura italiana contemporanea, Samonà e Savelli, Roma
1965; seconda edizione: 1966; terza edizione: Einaudi, Torino 1988, p. 57). (torna
su)
(12) "Il rifiuto di un'ideologia progressista costituisce
la fonte, non il limite della riuscita verghiana." (Asor Rosa [op. cit.
1965/1988: p. 56]) (torna su)
(13) De Meijer, Pieter, La prosa narrativa moderna,
in Letteratura Italiana, volume terzo, tomo secondo, La prosa,
Einaudi, Torino 1984, p. 803. (torna su)
(14) Grande attenzione ha prestato a questa opera Gianni
Grana, il quale ha definito I Vicerè un romanzo miliare della narrativa
italiana dell'Ottocento (Grana, Gianni, I Vicerè e la patologia del reale.
Discussione e analisi storica del romanzo, Marzorati, Milano 1982, p. 7]).
Si veda anche il capitolo dedicato al romanzo da Spinazzola, Vittorio, Il
romanzo antistorico, Editori Riuniti, Roma 1990, su cui avremo modo di
tornare. (torna su)
(15) Sarà appunto la tesi di Tancredi, nipote del principe
di Salina (nipote del Gattopardo) nel romanzo di Tomasi di Lampedusa, il quale
si unisce agli uomini di Giuseppe Garibaldi sbarcati in Sicilia (1860) affinché
tutto rimanga come è: "Se non ci siamo anche noi quelli ti combinano la
repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi
sono spiegato?" (torna su)
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