La sensibilità di Isaac Bashevis Singer

La sensibilità di Isaac Bashevis Singer

Isaac Bashevis Singer

Dario Lodi


Per il pensiero di Isaac Bashevis Singer (1904-1991, ebreo polacco naturalizzato statunitense nel 1943), è determinante il romanzo “Satana a Goray”. Lo scritto narra le peripezie del falso messia Sabbatai Zevi nel XVII secolo e le conseguenze generali per lo smacco del suo smascheramento e del suo passaggio al “nemico” (Allah). Gli ebrei dell’est vissero molto amaramente la vicenda e ciò spiega le difficoltà della ripresa religiosa ebraica, avvenuta finalmente nel secolo successivo con il movimento chassidico di Israel ben Eliezer, meglio conosciuto con il nome di Baal Shem Tov. Nomi complicati a parte, lo chassidismo, concepito per tenere insieme la cultura ebraica nell’Est Europa, fu per il massimo rigore dottrinario e per l’accentuazione della spiritualità, da celebrare con musiche e danze appropriate in apposite feste pubbliche. Singer scrisse anche molto altro, ovviamente: 18 romanzi, più 10 per ragazzi, più innumerevoli articoli su riviste e giornali, più 184 racconti accreditati (ma sicuramente molti di più).

E’ nei racconti brevi che lo scrittore dà il meglio di sé. Esemplare è la raccolta intitolata “Gimpel l’idiota”. Nel racconto principale, Singer tratteggia con pietas la figura di un semplice che subisce la vita, addebitando la sua dabbenaggine ad una visione delle cose subordinata a pretese dogmatiche.

La religione è un rifugio, ma è anche una prigione. Singer lo sa bene: suo padre era rabbino e lui stesso fu sul punto di diventarlo. L’applicazione religiosa nel comportamento normale si manifesta con atteggiamenti legati a certi riti e a certe convinzioni, ed entra anche nelle cose minime annebbiando la vista. Gimpel subisce e non se ne cura, la sua mente è proiettata ingenuamente altrove. Ma la sua ingenuità nasconde qualcosa di costruttivo che di fatto porta il personaggio altrove, dandogli altre visioni della vita: è una libertà per così dire vigilata, ma è anche il seme di una prospettiva diversa. Non si tratta di negare i valori emanati dalla religione, ma di non rimanere inchiodati ad essi.

La razionalità porta ad approfondimenti e quindi ad una dialettica, anche involontaria, che ne deriva. Nascono nuovi interrogativi e sorgono nuove esigenze interpretative. Si presenta, soprattutto, la necessità d’intervenire direttamente nel mistero dell’essere e del vivere. In Singer tutto questo viene chiarito da stupori per la scoperta di un’alternativa intellettuale al diktat religioso e in dichiarazioni sottotraccia di carattere libertario a tutto tondo. La riverenza verso la sacralità della religione è un ostacolo storico e psicologico, entrambi comprensibili e a loro modo efficaci nel senso della tenuta sociale, con il quale si devono fare i conti.

Singer non prende di petto la cosa per umiltà e modestia. Lo scrittore preferisce aggirare gli ostacoli sposando una sontuosa affabulazione, dove realtà e fantasia si mescolano e costruiscono un mondo composito e indulgente. Singer non propone cambiamenti repentini, bensì invita alla riflessione. La sua prosa, fluidissima, si sofferma con malinconia sul passaggio degli avvenimenti, indugia su di essi, sugli individui, fissandoli sentimentalmente nell’universo.

Lo scrittore tiene conto di ogni cosa, a tutte dà dignità e consistenza. E’ bonario con i personaggi, ma sicuro nel tratteggiarli e nel corredarli di osservazioni pertinenti, utili ai fini di una tesi per così dire mobile, convinta di adeguarsi sempre e comunque alla realtà: è la ragione a guidarlo, sono le considerazioni intelligenti e di fondo ad impedirgli sbandamenti.

Singer osserva con fine attenzione, non analizza. Constata e suggerisce miglioramenti attraverso allusioni educate quanto ferme. Egli vuole essere testimone di un lungo fenomeno storico, quello degli ebrei nell’Europa dell’Est (lì per essere stati cacciati dalla Spagna fra il XV e il XVI secolo), cercando di esaltarne le tradizioni, lo spirito, per amore filiale, nella certezza, e perché no, speranza (remota) di un cambiamento significativo. Lo chassidismo per lui va bene come momento di aggregazione in un momento sociale difficile e va bene come invito alla spiritualità, va meno bene nella imposizione di un sistema di tipo rigidamente conservatore che costringe alla eterna subordinazione.

Singer, che scrisse sempre in yiddish (una lingua formata da vocaboli ebraici e tedeschi) per rispetto della propria cultura, parla di vicende ebraiche ma è per un discorso generale che riguarda l’uomo e un certo suo lasciarsi vivere: le invenzioni esterne, come la religione, o più tardi la scienza, per quanto accattivanti, vengono troppo facilmente accreditate di risoluzioni taumaturgiche, a scapito della speculazione umana più ampia, più rigorosa e responsabile. La paura di risposte sgradite non fa affrontare le domande essenziali. Si lascia a qualcosa  astratto il compito di risolvere il tutto. E così si vive a metà.

Singer non privilegia il popolo ebraico: racconta quello che sa e quello che sa avviene sotto i suoi occhi di ebreo. Ma in definitiva è un sapere umano, non è qualcosa di appartato. Lo scrittore non vuole affatto elevare la propria cultura a maestra di vita, elevando l’ebreo e l’ebraismo. Singer non è saccente. E’ saggio e sensibile. E’ dialettico e aperto al valore razionale, non a quello metafisico, pur rispettandolo, specie se spirituale davvero e non dogmatico.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019