Il moralismo di Trilussa

Il moralismo di Trilussa

Dario Lodi


La statistica
Sai ched'è la statistica? È 'na cosa / che serve pe fà un conto in generale / de la gente che nasce, che sta male, / che more, che va in carcere e che spósa. / Ma pè me la statistica curiosa / è dove c'entra la percentuale, / pè via che, lì, la media è sempre eguale / puro co' la persona bisognosa. / Me spiego: da li conti che se fanno / seconno le statistiche d'adesso / risurta che te tocca un pollo all'anno: / e, se nun entra nelle spese tue, / t'entra ne la statistica lo stesso / perch'è c'è un antro che ne magna due.
 

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La consacrazione nazionale di Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri, 1871-1950) avvenne nel 1922 con la pubblicazione delle sue opere presso Mondadori. Egli aveva esordito nel 1887 a soli sedici anni scrivendo per il “Rugantino”. Nel 1889 pubblicò “Le stelle de Roma” dedicato alle belle ragazze romane. Poi collaborò con varie testate dell’epoca (“La frusta”, il “Cicerone” ecc.) per approdare a un quotidiano nazionale, il “Don Chisciotte della Mancia”, poi “Don Chisciotte di Roma”. Satireggiava sulla politica crispina, soprattutto. Era una politica provinciale con mire imperiali, assurda e disastrosa.

Trilussa era romano, figlio di povera gente. Non amava la scuola, preferì istruirsi da solo. Quest’omone di quasi due metri, era dotato di notevole sensibilità e aveva un grande cuore, come si vede e si sente nei suoi innumerevoli sonetti e poesie (raccolti e pubblicati nel 1951, con trentadue suoi disegni e tre facsimili, nel volume di oltre mille pagine, “Tutte le poesie”, a cura Pietro Pancrazi, note di Luigi Huetter, Mondadori editore, che poi trasporterà nei Meridiani). È il “si sente” a rendere le sue composizioni poesie a tutti gli effetti. Egli lima il verso, lo riduce all’essenzialità. Risparmiando le parole, evidenzia il concetto. La sua preoccupazione è la chiarezza del fine.

Trilussa ha un imperativo categorico: la realizzazione di un codice morale elementare, ovvero comprensibile a tutti. In effetti, egli si mette nella posizione di un buon padre di famiglia che insegna pazientemente al mondo intero. Più che insegnare fa ricordare, con ironia e arguzia, con bonomia (ma con determinazione) quali sono le ingiustizie sociali. Porta alla luce il concetto di decoro umano.

La posizione assunta da Trilussa può disturbare. Non si ama chi si permette di riprenderti, anche se lo fa indirettamente. Ma il nostro poeta è attento, non intende prevalere né turbare in alcun modo. É invece concentrato sulla composizione, sulla sua estetica in rapporto all’incisività del discorso. Perché, alla fine, Trilussa mette in versi dei discorsi, anche quando lavora alle favole. Modernizza Esopo, nel senso che adorna la narrazione con la piena coscienza della morale da suggerire/imporre, non per il bene di se stesso, per l’esaltazione della propria figura, ma per quello di tutti.

La scelta del dialetto romanesco è dovuta alle possibilità relative di affermazioni esplicite e di allusioni altrettanto esplicite, senza giri di parole. Una parlata franca e diretta tratta dal basso. La provenienza volgare non inganni: il cosiddetto popolino era abituato da secoli all’arguzia, alla presa in giro e conosceva ogni sfumatura dello sfottò, della rivalsa. Così come conosceva l’amarezza fondamentale per l’emarginazione. Trilussa voleva dare voce alle profonde intuizioni della società minuta, esaltandole e chiarendone maggiormente le finalità, togliendo i lamenti, sia espliciti sia impliciti.

L’operazione del chiarimento andava, però, a toccare la genuinità del dialetto, con intrusioni in lingua. Lo stesso modo di pensare in maniera originale, con le intrusioni in lingua subiva qualche mutamento: era un risultato che ai puristi non piaceva. Trilussa fu contestato. Ma non era la purezza dialettale che stava a cuore al nostro poeta, quanto la schiettezza del romanesco e la semplicità della sua filosofia. Una semplicità che andava diritta verso il senso di certe cose, quale la solita, annosa, ingiustizia sociale che la parlata rendeva continuamente attuale, viva e pungente. Il grande poeta romano la rese ancora più pungente, pur togliendole le spine.

A certi livelli, i dialetti erano contaminati da forme espressive nazionali. L’italiano, allora per lo più cancelleresco, con l’unità della Penisola, diventava, per una necessità più ampia e più fitta di comunicazione, il linguaggio primario. Il cambiamento avveniva a livello di formulazione del pensiero, con inevitabile deformazione delle parole dialettali. Il dialetto originale rimaneva di proprietà del popolo, alla cui parlata, per salvare quel mondo storico, era indispensabile rifarsi. Lo fece per primo, intendendo il recupero e il mantenimento di un modo d’essere, Carlo Porta con il milanese.

Chi diede il via in modo veramente artistico a quest’operazione fu Giuseppe Gioachino Belli. Siamo a metà dell’Ottocento. Il poeta romano raggiunge importanti vette espressive dando voce al popolo, facendo una specie di notaio di quei concetti storici. Belli sembra un assemblatore, in realtà è il traduttore ideale di essi. Ne migliora l’esposizione senza intervenire nel meccanismo verbale e intellettuale.

Altro grande poeta romanesco fu Cesare Pascarella, quasi coetaneo di Trilussa. Operò intorno alla parlata tipica romana, ricavandone suggestioni e icasticità non facili da rendere nella lingua nazionale. Cercò di adeguare il dialetto all’italiano.

Trilussa fece l’opposto di Pascarella. Prese l’italiano e lo tradusse in romanesco, elevando quest’ultimo a linguaggio di punta, riconoscendo a esso una capacità di sintesi straordinaria e virtù espressive del tutto uniche. Trilussa fu un moralista convinto. Certo scetticismo gli fu utile come contrasto. In fondo egli credeva a una migliore vita sociale, alla possibilità di questo evento. Per questo si permise di forzare la morale popolare. Gli venne d’istinto, fu una forzatura che sposò con naturalezza, regalandoci così momenti di sana, intelligente e incisiva ilarità.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019