Oscar Wilde: il Principe Felice

IL PRINCIPE FELICE DI OSCAR WILDE

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La fiaba Il Principe Felice, che lo scrittore Oscar Wilde volle dedicare ai suoi due figli, scrivendola intorno al 1888, mentre era alle prese con continue relazioni omosessuali che l'aiutassero a sopportare meglio un matrimonio impostogli da un'Inghilterra puritana perché salvasse almeno le apparenze, e mentre non riusciva né a limitare le spese per la bella vita che amava condurre, né a trovare un lavoro stabile a motivo del suo incostante umore, rendendosi così del tutto dipendente dalla situazione finanziaria della moglie, questa fiaba, più che ai suoi figli, sembra essere dedicata a se stesso e, in parte, alla sua Irlanda.

Infatti i due principali protagonisti: la statua del cosiddetto "Principe Felice" e la piccola rondine, non sono che due varianti del carattere di Wilde: mondano e gaudente dell'una, malinconico e compassionevole dell'altro. Di quest'ultimo, in particolare, la storia sembra ricordare da vicino quella di Buddha, che cominciò a capire la sofferenza solo dopo essere uscito dal suo palazzo.

L'inizio e la fine della fiaba vogliono essere una dura critica alla società vittoriana inglese - vista come cinica e formalista - e quindi indicano il vero scopo della narrazione. I personaggi messi alla berlina sono i politici, rappresentati dal Sindaco e dai consiglieri comunali, che considerano la statua bella ma inutile e che alla fine della storia ognuno di loro ne vorrebbe una per sé; gli intellettuali cattedratici, rappresentati dal Maestro di matematica, che contesta ai bambini orfani il diritto di credere che quella statua sia un angelo; la famiglia borghese, rappresentata da una madre che vorrebbe un figlio calmo e tranquillo come il Principe.

Wilde esalta i bambini che nella loro ingenuità sognano e se la prende con chi, da intellettuale scettico e razionalista, ridimensiona le loro fantasie. Egli probabilmente s'immagina d'essere anche tra quegli orfanelli, poiché il padre gli era morto quand'aveva ventidue anni, anzi, prima ancora, quando era stato condannato a risarcire duemila sterline a una diciannovenne che l'aveva accusato di stupro. Tutta la vita Wilde cercò di riscattarsi, con un atteggiamento provocatorio e anticonformista, dal peso di questo macigno sull'onorabilità della sua famiglia di estrazione borghese. L'omosessualità Wilde la visse come forma di contestazione pubblica ai valori dominanti. Il fatto che la madre, quand'era piccolo, lo vestisse da bambina perché non avrebbe voluto un maschio, va considerato del tutto accessorio.

La trasgressione traspare nella stessa favola, là dove la rondine s'innamora dell'esile giunco. Apparentemente sembra l'avventura estiva di una ragazza emancipata e libertina nei confronti di un ragazzo timido e bisognoso di protezione. In realtà in quell'approccio viene spiegato il rifiuto di Wilde nei confronti del matrimonio borghese eterosessuale, giudicato noioso, monotono, ripetitivo... Alla rondine (intellettuale ed esteta) piacciono le conversazioni brillanti, piace viaggiare e quindi spendere. Non le interessano le "virtù casalinghe", e i bambini la infastidiscono, perché maleducati.

L'omosessualità è presente anche in un altro punto, là dove il principe non si accontenta d'essere baciato dalla rondine sulla mano, vuole esserlo sulla bocca. In una fiaba dedicata ai bambini, questo era sicuramente il modo migliore - secondo lui - per stupire il lettore con il proprio azzardo. Poi, per non turbarlo troppo, fa seguire a quel bacio sensuale la morte di entrambi, come forma di catarsi, anzi di riscatto nei confronti di quella che ufficialmente veniva considerata una depravazione, che portò Wilde a farsi due anni di duro carcere e a non poter mai svolgere alcun lavoro pubblico.

La parte più etica della fiaba è la pietà del Principe per gli oppressi, ma è anche la meno convincente sul piano politico. Nei tre casi descritti infatti (la cucitrice, lo scrittore e la fiammiferaia) vi è solo l'illusione di poter vincere facilmente la miseria, ovvero la necessità di credere in un evento fortuito, miracoloso, nella benevolenza di qualche persona agiata e generosa, che non a caso Wilde cercava in ogni dove e che quando riuscì a trovare, in parte, nella moglie non seppe far di meglio che farla morire di sifilide come lui.

La situazione di disperata miseria che descrive era ovviamente dettata dalla gravissima crisi alimentare che aveva colpito l'Irlanda nella seconda metà dell'Ottocento, costretta dagli inglesi, dopo devastanti deforestazioni, a produrre derrate alimentari per i colonialisti e patate per i colonizzati. Quando queste presero a infettarsi in maniera sistematica, la carestia divenne così grave che gli irlandesi, da otto milioni che erano, tra morti di fame ed emigranti si ridussero della metà.

Altri aspetti secondari della fiaba meritano comunque d'essere segnalati:

  1. chi viene beneficiato della generosità del Principe, non ricambia, e la statua di lui, spogliata di tutti i suoi beni, è destinata a essere fusa. Wilde ha pietà degli oppressi ma non li ritiene in grado di emanciparsi da soli e se vi riescono diventano come i loro oppressori o comunque restano indifferenti alle sofferenze altrui;
  2. nelle righe finali del racconto, del tutto posticce e ininfluenti rispetto al suo significato complessivo, Wilde offre ai due principali protagonisti la possibilità di una rivincita ultraterrena. Saranno le due uniche cose preziose della città (qui inevitabilmente Londra) che meriteranno il paradiso. In tal modo Wilde offre una rappresentazione un po' veterotestamentaria della divinità, che premia di una felicità esclusiva chi ha sofferto ingiustamente (quando poi gli artefici di questa sofferenza vengono dipinti nella maniera più caricaturale possibile);
  3. bellissime comunque restano le ironie nei confronti dei politici (d'altra parte in questo Wilde era notoriamente eccezionale): la proposta del Sindaco di emanare un decreto che impedisca agli uccelli di morire in città, e il suo segretario che ne prende nota; i continui litigi tra gli assessori per decidere a chi di loro dedicare la nuova statua (loro che, insieme agli accademici, le ritenevano belle ma inutili);
  4. esilarante il fatto che un'eccessiva riflessione sulle cose facesse venire alla rondine un gran sonno (quel sonno ch'era poi fratello della morte);
  5. del tutto fuori luogo invece la caricatura di ebrei venali in una fiaba per bambini: evidentemente dovevano essere molto assillanti i suoi creditori;
  6. tutti i riferimenti all'Egitto vanno letti come indizio della passione che l'irlandese Wilde coltivava per l'archeologia, scienza, questa, tipicamente inglese, ma anche in questo Wilde voleva apparire eccentrico.

Il mito di Salomè - La casa della sgualdrina


Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019